Il libro della settimana: Paolo Ferrari, Alessandro Massignani,
1914-1918. La guerra moderna, Franco Angeli, Milano
2014, pp. 288, Euro 29,00.
http://www.francoangeli.it/Ricerca/scheda_libro.aspx?CodiceLibro=1573.437 |
Si può parlare della guerra in
una società “debellicizzata” come la nostra ? Dove la pace è giudicata
un bene non negoziabile? No. Ed eventualmente, come se ne potrebbe
parlare? Male. A questo (e altro) pensavamo leggendo 1914-1918. La guerra moderna (Franco Angeli), volume con
documenti inediti, curato da Paolo Ferrari e Alessandro Massignani,
storici universitari.
A onor del vero Ferrari e
Massignani hanno prodotto un volume interessante, da leggere. Perché
la “Grande Guerra”, vista in particolare dal fronte
italiano, è analizzata come fenomeno collettivo, economico e
tecnologico. Detto altrimenti: il taglio dell’indagine è di tipo storico-
sociologico. Un approccio che consente alla scansione
cronologica (capitoli 1 e 7: come si giunge all’intervento
1914-1915; crisi e vittoria 1917-1918), di cedere elegantemente il
passo all’analisi spettrale delle trasformazioni sociologiche (capitoli 2-3-4-5-6:
la trincea; la guerra tecnologica e industriale; il nemico, dal punto di vista
militare; la guerra in cielo e in mare; la gestione di un esercito
di massa).
Ecco un esempio, anche stilistico, del modus operandi di Ferrari e Massignani.
La citazione è lunga ma merita.
Non [si] deve dimenticare la logica
militare ed economica sottesa alla continua pressione esercitata
sul nemico anche con attacchi in apparenza inefficaci. Le guerre
tradizionali, di breve durata, erano condotte attingendo le
risorse necessarie dai materiali prodotti negli arsenali in tempo di
pace. Già nei primi mesi dopo lo scoppio del conflitto mondiale, la
guerra di trincea iniziò ad assorbire risorse crescenti (in particolare
munizionamento di ogni tipo), svuotando le riserve e ponendo una
nuova necessità: provvedere con la produzione corrente al rifornimento del
fronte. Si andò in questo modo affermando il fenomeno delle
offensive garantite soltanto da un precedente accumulo
gigantesco di munizioni e la cui durata era commisurata dalle scorte. La
guerra iniziò così a richiedere la mobilitazione di settori sempre più
vasti dell’industria e poi di tutta l’economia e via via si
trasformò in un confronto tra sistemi industriali ed economici.
L’esito del conflitto sempre più finì per dipendere dalla crisi del
sistema militare e industriale del nemico. Da qui la necessità di
esercitare al fronte una pressione continua sul nemico, per costringerlo
a impiegare fino in fondo il propri sistema industriale e portarlo
a un collasso che si sarebbe manifestato con l’incapacità di
opporre risorse adeguate in uno o nell’altro punto del fronte. In
questa prospettiva, anche attacchi percepiti come inutili, così come le
grandi battaglie, che costarono un numero di morti mai visto in tutta la
storia europea avevano lo scopo di mettere in crisi l’avversario concentrando
al fronte grandi risorse materiali nonché accettando che decine se non
centinaia di migliaia i soldati morissero.
Uomini come carne da cannone. O se si
preferisce: proletariato militare. Insomma, niente di nuovo sul fronte Occidentale... Però resta un problema: l’insistenza sulla questione della “logica” (le cose
sono più forti degli uomini), che pure ha un suo fondamento - e asseriamo
questo da sociologi mai pentiti - rischia di appiattire le
grandi ragioni ideali, che pure ci furono, come provò , prima,
durante e dopo, il carattere mazziniano e risorgimentale dell’interventismo liberaldemocratico
e socialriformista: difensore del principio di nazionalità per tutti, e
non del nazionalismo autoreferenziale. Ad esempio Bissolati ( di cui Mursia ha ripubblicato il Diario di Guerra*), non figura neppure nell’Indice dei nomi.
Insomma, non neghiamo che il volume
racchiuda tanto materiale significativo (documenti ufficiali, rapporti militari,
testimonianze pubbliche e private, raccolte di dati statistici), ben
introdotto e ottimamente inquadrato, però… Ecco, c’è un però:
l’ottica storiografica di fondo è da articolo 11 della
Costituzione (perdendo forse d’occhio l’articolo 52…): quel “tagliare” con tutte le guerre risorgimentali (e non), e
di conseguenza anche con la Prima , per i suoi pennacchi imperialisti; guerra che per giunta avrebbe condotto al fascismo,
di cui l’interventismo, anche quello democratico, non poteva non essere l’ inevitabile e gelatinoso
incunabolo… Per la
riprova delle critiche qui avanzate rinviamo alla bibliografia
in calce al volume (comunque, dignitosa): a parte l’imprescindibile Piero
Pieri (un vero caposcuola), niente De Felice, molto Collotti;
Rochat e Isnenghi a pioggia, Romeo, altro caduto, ex post,
sul Carso storiografico. Stupisce quel Piero Melograni
(Storia politica della Grande Guerra 1915-1919), che
chiude, come l'ultimo sfollato di Caporetto, gli studi
generali sull’Italia (p. 275): grande libro quello di
Melograni . Clio avrebbe gridato vendetta.
Naturalmente, tutte le opinioni,
anche quelle storiografiche sono lecite. Ci mancherebbe altro. Del resto
è comprensibile che chiunque “tifi” per la pace, sia portato
a demonizzare gli ultrà della guerra. E viceversa. Tuttavia,
un saggio storico, che per giunta desideri a un
pubblico più largo, dovrebbe mettere a confronto tesi diverse,
anche opposte. O comunque, come dire, proporsi una terza via
storiografica di equidistanza tra visioni differenti ( e
poi programmi di ricerca). Esemplari al riguardo restano le bellissime di pagine di Rosario Romeo (L’Italia e la prima Guerra
mondiale, Laterza 1978, pp. 141-160). Sintetizzando, né Remarque né Jünger. O no?
Carlo Gambescia
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