Il libro della settimana: Michel Mikaelian, Haigaz chiamava: “Mikael… Mikael...”. Armenia 1915. Una
testimonianza, a cura di Alessandro Litta Modignani, postfazione di David
Meghnagi, Libri Liberi, Firenze 2015, pp. 100, Euro 16,00.
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Il dolore non è comunicabile. È
un fatto interiore, addirittura intimo, concerne l'Io profondo. come del resto asserisce la psicologia. E quando avviene
l’esteriorizzazione, l’Altro tende
a tradurre la "rappresentazione" dell'altrui dolore nel linguaggio della propria esistenza: del proprio dolore, come sforzo di "volontà". Di qui, giudizi, raffronti,
gerarchie o se si preferisce graduatorie e classifiche... Gli uomini, al di
là della mitizzata equazione giuridica moderna, mostrano di apprezzare la diseguaglianza perfino quando affondano i denti in ciò che Gadda chiamava - non
sappiamo però quanto sul serio - la cognizione del dolore.
Qualche lettore si chiederà
perché il giro di parole. Per una ragione molto semplice: l'avvincente testimonianza di Michel Mikaelian, “Mikael… Mikael...”. Armenia 1915 ( Libri Liberi) fa riflettere su quanto quel grido
disperato (“Mikael… Mikael...”) del
fratellino di Michel, il piccolo Haigaz, due anni, lasciato indietro, solo, a morire ( vittima di una atroce costante
etnologica, che nelle diaspore inevitabilmente
penalizza i più deboli), possa
scuotere il lettore di oggi, distratto, ripiegato
su se stesso e, poco o punto, interessato
al lato oscuro, etnocidario, del Novecento, “inaugurato”, se
così si può dire, dal genocidio turco
del popolo armeno
Alessandro Litta Modignani, bravo
curatore, e Davide Meghnagi, al quale si deve la densa
postfazione, credono giustamente nel risveglio delle
coscienze. Detto altrimenti: nell' eterna forza di quel grido, come monito per tutti gli uomini: mai più! E nella giustizia. Come non essere d'accordo?
Michel Mikaelian (1901-1984), all’epoca dei fatti non ancora quindicenne ( poi medico e cittadino francese con simpatie golliste, il che, per inciso, non stona...), affida ai
posteri le sue strazianti memorie. Il lettore, pagina dopo pagina, vede cadere, per mano dei Turchi, uno dopo l'altro, gli affetti più cari di Michel: genitori, zii, l'amato fratellino, ma anche amici e conoscenti. Un intero mondo , umano e culturale, spazzato via con un colpo di spada.
Capiranno gli uomini e donne di oggi il valore archetipico della tragedia del popolo armeno? Anticipazione delle novecentesche piramidi di morti? Difficile dire. Di una cosa, purtroppo, siamo certi: al fattore psicologico che relativizza la sofferenza altrui, rischia
di aggiungersi il fattore sociologico. Cosa vogliamo dire? Che il nostro è un mondo affamato di
ciò che cinematograficamente viene definito “lieto fine” . E la tragedia
armena dopo un secolo attende ancora la parola fine… La
Turchia tuttora minimizza, sorvola e, se provocata, nega e
proibisce di parlare dei Ghiavur (infedeli) massacrati nel 1915. Mentre l’Occidente continua a guardare altrove, distratto da interessi strategici. I morti armeni non riposano in pace. Di "lieto" non c'è nulla... E di "fine", ripetiamo, neppure a parlarne.
Almeno quattro, i piani di
lettura, di questo magnifico volume: venticinque, brevi, succosi capitoli, ben suddivisi in quattro dense parti, più un epilogo, seguendo una scansione cronologica dal basso verso l'alto (discesa agli inferi, per mano turca, lenta risalita verso il paradiso, la Francia democratica via Libano, passando per il purgatorio curdo). Lo
storico-politico: dell’odio turco, frutto di
un obliquo nazionalismo religioso, a sfondo islamista, rozzo e cieco, rivolto contro una minoranza cristiana, colta e civile; il sociologico: quale "messa in opera collettiva" - come da manuale - dell’ aberrante logica etnocentrica, volta a cancellare con le armi ogni differenza; il filosofico: della violenza che si sovrappone, distruggendola, alla cognizione ragionevole e ragionante; il teologico: intorno al perché di tanto male nel mondo.
L’ultimo aspetto pervade in misura crescente la narrazione di fatti, è bene ripeterlo, realmente accaduti. Michel, pur credendo in un fine superiore, si
interroga incessantemente sulle misteriose geometrie divine. Senza mai ribellarsi: tutto accetta, anche
quando, nei momenti più bui, come si legge, "le orecchie" di Dio sembrano sorde
alle richieste di aiuto. Forza del cristianesimo? Certamente. Ma anche debolezza, come vedremo. Prima però un passo indietro.
Ci potrebbe chiedere,
laicamente, se la fede in Dio (quello dei credenti, con l'iniziale maiuscola), può essere d’aiuto in momenti così tragici.
Probabilmente, sì. Quel difetto di
comunicazione, cui accennavamo, non riguarda il dialogo tra l’uomo e Dio. L’Assoluto è il regno
dell’inclassificabile. Dio non fa graduatorie tra gli esseri umani. E gli uomini - i credenti, ovviamente - si inchinano ai Suoi Voleri. Però, per l'appunto, bisogna
credere. E il troppo credere, come in qualche misura mostra certa “passività” (forse termine troppo forte...) degli Armeni, finisce per favorire il nemico e la propria (quasi) autodistruzione: il martire cristiano non si batte. Non muore con le armi in pugno, ma pregando Dio con gli occhi rivolti verso il Cielo.
Per un laico, invece, tutto sembra più difficile (per non parlare di un
ateo)… O no? A dire il vero, una
volta accettata la regola laica ( forse più atea che laica...) di un uomo stretto tra il caso e la necessità,
ci si siede al tavolo da gioco della vita. Tradotto: si sfida la sorte, buona o cattiva che sia (il caso), e ci si scontra, armati di risorse limitate (la necessità, anche biologica) con il male nascosto dentro gli uomini. Insomma, comunque vadano le cose, si lotta e si muore con le armi in pugno.
Lungi da noi qualsiasi critica. Opporsi ai Turchi, in quelle condizioni (anche di isolamento internazionale), sarebbe comunque
stato inutile. Nessun rimprovero al colto e civile popolo armeno, ci mancherebbe altro. Tuttavia, dispiace dirlo ( anche perché sentiamo di essere in cattiva compagnia...), il
cristianesimo, anzi l'etica del cristianesimo, se troppo evangelicamente intesa, talvolta può essere un
peso, come dire, sul piano "militare". Almeno nei tempi brevi... Certo, conta il risultato finale, l'obiettivo. E i cristiani, seppure impiegarono tre secoli, alla fine "conquistarono" l'Impero Romano. Ma i Romani erano politeisti, quindi più manipolabili dal di dentro, attraverso una accorta politica (monoteista) "del carciofo". I Turchi, invece, monoteisti. Ma questa è un'altra storia.
Carlo Gambescia
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