venerdì 3 maggio 2013


Suicidi di Stato?

                           
                      

Se un operaio, un imprenditore, un commerciante, un disoccupato si suicidano a causa della crisi economica, è colpa dello Stato? Si può parlare di “suicidi di Stato”? E nel senso di un preciso rapporto tra causa ed effetto?
Ora, la perdita di una vita umana è un fatto doloroso e  gravissimo. Ed è inevitabile e perfettamente comprensibile che la famiglia del suicida si interroghi sulle ragioni di una morte, cercando spiegazioni più o meno plausibili. Tra le quali quella di un Stato che con la sua inazione causerebbe il “gesto estremo” del cittadino disperato  perché privo di lavoro e mezzi economici.
Ridotta all’osso, la tesi si fonda su una concezione dello Stato come grande famiglia, dove un  padre non può non occuparsi del benessere di tutti i suoi figli. Di riflesso, solo  il  cattivo padre, può permettere che  i  figli si tolgano  la vita perché privi di quelle risorse che dallo stesso padre devono discendere...
Il problema è che - per usare, visto che siamo in tema, una metafora arcaica -  il Padre-Stato che si invoca negli anni delle vacche magre, non sempre viene apprezzato dal Cittadino-Figlio quando nei periodi delle vacche grasse  continua a   pretendere  obbedienza,  ficcando  il  naso nelle  vicende economiche dei privati cittadini.
Diciamo allora che certi atteggiamenti, come dire, anticonservativi, che talvolta possono sfociare anche in gravi attentati (come domenica scorsa davanti a Palazzo Chigi),   rappresentano sotto l'aspetto sociologico una certa società italiana, fortunatamente non tutta, che non vuole crescere. Detto brutalmente:   che  non   aspira alla maggiore  età.   Un' Italia che non vuole  uscire dalla casa del padre.  Dispiace dirlo: un'Italia di figli indisciplinati, di   suicidi, attentatori,  evasori.   Secondo alcuni,  per  necessità, considerata l'opprimente pressione fiscale. Di regola, tuttavia,  chi  evade  non si suicida.
Si dirà: ma lo Stato ha il dovere di intervenire, eccetera, eccetera. Giusto. Tuttavia, ogni intervento economico pubblico ha un costo, che nel tempo si fa progressivo e sempre più pesante. Cosicché una volta accettata la paterna protezione dello Stato al  cittadino non resta che il dovere di obbedire. Anche quando, nonostante gli   “affari vadano bene”,  i costi per la protezione sociale, come mostrano le statistiche,   continuano a crescere in misura esponenziale e proibitiva per le sue  tasche.
Insomma, radicalizzando i concetti, delle due l’una: o si accetta una visione paternalistica, pagandone le conseguenze in termini di libertà , dal momento che   ogni euro in più  di tasse versato allo stato è un euro in meno di libertà,  o si cresce, accettando i rischi di minore protezione sociale e di dover pagare, da adulti, tutti i propri i conti e debiti,  anche i più ingiusti.  Compreso quello  supremo  verso  la vita. 

Carlo Gambescia - 

Nessun commento:

Posta un commento