giovedì 23 maggio 2013

Il libro della settimana: Edward Glaeser, Il trionfo della città. Come la nostra più grande invenzione ci rende più ricchi e felici, Bompiani 2013, pp. 588, Euro 23,00 .


Arnold Toynbee, di cui negli ultimi anni si è quasi persa memoria, dedicò nel 1970 al destino della città un bel saggio dal titolo molto suggestivo Cities on the Move (Città in movimento), reso dall’editore italiano con La città aggressiva. Nel libro lo storico britannico, sulla base del suo famoso schema sfida-risposta, applicato alla civiltà urbana, individuò la nuova e bruciante  sfida posta all'uomo del tardo Novecento  dalla "meccanizzata città mondo":  un gigantesco ed eruttivo agglomerato  teso come lava  a travolgere e assorbire  differenze, culture, economie.  In certa misura Toynbee, forse  da  buon lettore di Lewis Mumford (altro studioso del fenomeno urbano come macchina in grado di riprodursi all’infinito), anticipò l’idea di “megamacchina”, in seguito  teorizzata, in chiave più ampia,  dal sociologo-economista Serge Latouche, il padre della decrescita.
Per farla breve, Toynbee, come oggi molti decrescisti, scorgeva e  temeva la trasformazione  della città  in pura e semplice  sommatoria di  megalopoli: una "città-mondo" estesa, per l'appunto,  a tutto il pianeta.  Con una differenza: il decrescista invoca il ritorno alle campagne e all’autoconsumo nel nome di una visione comunitarista se non socialista, mentre Toynbee proponeva uno sviluppo sostenibile guidato da élite liberali e illuminate,  capaci di affrontare la sfida della megalopoli omologante. Insomma, l'eterno scontro rivoluzione-riforme.
Dove vogliamo andare a parare? Che l’interessante volume di Edward Glaeser, professore di economia alla Harvard University, Il trionfo della città. Come la nostra più grande invenzione ci rende più ricchi e felici (Bompiani), va  in direzione opposta.   Al meno città dei piagnoni decrescisti  e al città con giudizio di Toynbee, Glaeser, snocciolando montagne di dati statistici, oppone il più città. Ma, come vedremo,  al plurale e vero l'alto...  La sua tesi è dirompente e può far saltare sulla sedia persino l’ ecologista all’acqua di rose. Ascoltiamolo:  « Per capire le nostre città e sapere cosa farne, dobbiamo (…) sbarazzarci di dannosi miti. Occorre abbandonare l’idea secondo cui ambientalismo vuol dire vivere intorno agli alberi e che gli abitatori della città dovrebbero sempre e solo battersi per preservare il passato fisico delle città. Dobbiamo smettere di idolatrare il possesso della casa, che favorisce la formazione di distese suburbane di villette a scapito di palazzi a molti piani e smettere di idealizzare villaggi rurali. Dovremmo evitare di concepire l’idea semplicistica che una migliore comunicazione sulle lunghe distanze ridurrà il nostro desiderio e bisogno di stare vicini gli uni agli altri. Soprattutto dobbiamo liberarci dalla tendenza a considerare le città come l’insieme dei loro edifici, e ricordare che la città reale è fatta di carne, non di calcestruzzo» (p. 32).
Ed ecco ciò che egli osserva, in modo ancora più tranchant, a proposito degli Stati Uniti: «Attraverso tutto il paese le grosse città significano minore uso dell’automobile. In media, quando la popolazione raddoppia, le emissioni di biossido di carbonio a famiglia dovuto all’uso dell’auto scendono quasi di una tonnellata all’anno. Le città del Sud in particolare presentano alti livelli di uso dell’auto, e oltre il 75 per cento in più di carburante rispetto a New York (…). Questi fatti indicano che la densità abitativa urbana riduce le emissioni di CO2 nelle vecchie aree metropolitane del Nordest, ma anche nelle aree metropolitane più nuove che si sviluppano più velocemente (…). In parole povere, se volessimo ridurre le emissioni modificando le nostre politiche sullo sviluppo del territorio, un numero maggiore di americani dovrebbe vivere in ambienti più densamente abitati e più urbani» (pp. 346-350).
Anche se può apparire come un’ingiustizia verso un libro ricco di suggestioni,  ridotta all’osso, la tesi di Glaeser è che le città dovrebbero svilupparsi in altezza e non a macchia d’olio sul territorio: più grattacieli meno villette suburbane; meno traffico automobilistico, meno inquinamento.  Quindi stop alle megalopoli, e avanti tutta - il termine è nostro - con le "verticopoli". 
La premessa cognitiva - in effetti, difficilmente negabile - su cui è costruito il volume è che la città è sempre stata e sarà la culla intellettuale dell’umanità: più città, più contatti, più creatività, più invenzioni,  più  gioia di vivere,  eccetera.  Naturalmente,  la tesi   è ben corroborata sotto il profilo storico, economico e statistico. Lasciamo al lettore il piacere di scoprire tutta l’anticonvenzionale preziosità informativa di un libro ben scritto e tradotto. Un testo che si può anche non condividere, ma che va assolutamente letto. E per una semplice ragione:   aiuta a liberare  il nostro orizzonte intellettuale da molti luoghi comuni, soprattutto di matrice ecologista-decrescista. 
In qualche misura, ma non sappiamo se consapevolmente o meno (Toynbee non è mai citato), Glaeser recupera lo schema sfida/risposta.  Ma in modo particolare. A differenza di Toynbee, che forse amava troppo passeggiare tra le rovine, Glaeser crede, rasentando l’atto di fede, nella possibilità della civiltà urbana di farcela ancora una volta: « Le lucenti guglie della città additano la grandezza che l’umanità può raggiungere, ma anche la nostra tracotanza. La recente recessione ci rammenta dolorosamente che l’innovazione urbana può distruggere valore oltre che crearlo. Ogni crisi viene a sfidare il mondo e le sue città. Con la contrazione del commercio e dei mercati finanziari, le aree urbane soffrono. Con la riduzione del gettito fiscale, le città devono lottare per fornire i servizi fondamentali. I livelli crescenti della disoccupazione vengono a pesare ulteriormente su quei servizi, specie nella città che sono già povere». Però, conclude Glaeser, « il nostro futuro urbano resta luminoso. Neppure la Grande Depressione è riuscita a spegnere le luci della città. La tenace forza delle città riflette la natura dell’umanità. La nostra capacità di comunicare gli uni con gli altri è la caratteristica distintiva della nostra specie. Noi siamo cresciuti come specie perché abbiamo cacciato in branco e condiviso le nostra abilità. Lo psicologo Steven Pinker sostiene che la vita di gruppo, versione primitiva della vita in città “ crea i presupposti per l’ evoluzione dell’intelligenza di tipo umano” » (pp. 447-448).
Concludendo,  sembra che per Glaeser la città, o se si preferisce lo spirito stesso  della megamacchina urbana,  sia addirittura racchiuso (nel bene come nel male)  nel nostro corredo evolutivo. Una specie di bisogno  atavico... Detta in chiave filosofica:  un'invenzione, quella della città,  già  codificata nel nostro destino di uomini.  Un po’ troppo forse?  O no?   La parola ai lettori.


Carlo Gambescia 

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