giovedì 31 gennaio 2008

Il libro della settimana: Nicola Vacca, Ti ho dato tutte le stagioni, Manni 2007, pp. 48, euro 9,00. 


http://www.mannieditori.it/libro/ti-ho-dato-tutte-le-stagioni

Prima di tutto una confessione. L’amico poeta Nicola Vacca mi ha gradualmente ricondotto all’apprezzamento della poesia. Impresa ardua. Soprattutto quando ci si rivolga a un affamato lettore di saggistica, spesso per necessità, come chi scrive. E di questo gli sono grato.
Ora però devo parlare, e ovviamente non da critico, di questa sua ultima raccolta, Ti ho dato tutte le stagioni (Manni 2007). 
Come scrive Antonio Debenedetti nella prefazione, offrendoci una eccellente chiave interpretativa, “la lettura di queste poesie comporta l’accettazione di un’idea laica dell’inferno come solitudine, come separazione dall’altro. L’inferno è la perdita dell’altro. Si tratta di un assunto semplice nella sua terribilità e Vacca ne conosce tutta la portata” (p. 5).
Ecco si tratta di una poesia che parla dell’inferno del dolore, ma che al tempo stesso lo sfida. Quel dolore che si prova quando una persona cara scivola nella malattia. Ma al quale di deve pure reagire. E Nicola ne sa qualcosa: “Siamo la voce delle spade/che strappano i nostri corpi./ Sappiamo guardare il vero/dentro i tagli aperti./ Sapremo essere insieme/quello che ci toglie il dolore” (p. 34).
Ma che cos’è il dolore per il poeta? “Spine nelle tua carne” (p. 44). Dunque dolore fisico. Non solo: “Non hai torto quando/ dici che il dolore è/ l’errore fatale di Dio” (p. 46). Un dolore che perciò ha le sue ragioni metafisiche. Parleremmo, "quasi" come Nicola, di errore metafisico… Cosicché: “Alla fine non resta/ che ascoltare la liturgia/ dell’amore, il controcanto/ alla materia che saccheggia/ questa carne di cui siamo fatti”(p. 27). Un vita, insomma, che con l’occhio del sociologo, scopriamo ristretta tra materialità, amore, dolore, e “ silenzio di Dio/davanti alle nostre domande”(p.40).
Si dirà, “miscela classica”, molto neoromantica… E invece non è così. Perché in questa raccolta, come nell’ opera poetica di Nicola, c’è una autentica volontà di cognizione del dolore, che va oltre ogni traccia di compiaciuta lotta triadica tra carne, morte e diavolo. E che avvertiamo nella sua capacità di cogliere poeticamente il rapporto tra dolore e imprevedibilità, tra dolore e caso: “Spesso si cade sotto i colpi/ della vita. Mi dici sempre/ che non hai fatto niente di male/per avere questa lama nella carne./Il dolore arriva senza annunciarsi: nulla è come prima” (p. 31). Prendendo spunto da una celebre espressione della Arendt, si potrebbe parlare, seguendo la poesia di Nicola, di casualità del male, e dunque del dolore. Una casualità che travolge la nostra temporalità dell’ordinario sociale, spingendoci a entrare in un' altra dimensione temporale, all’inizio sconosciuta, segnata da un dolore, spesso assoluto, non voluto, e sentito come immeritato.
In ultima istanza, crediamo che il dolore per Nicola sia inspiegabile e insondabile. Con sullo sfondo l'immagine granitica di un Dio silente. Ma al tempo stesso capace, nonostante i suoi silenzi, di risvegliare, se all’amore che nasce dal dolore vogliamo pur attribuire un senso, la nostra povera umanità: “Non mi sono arreso/alle spine nella tua carne./La necessità di appartenerti/ ha avuto ragione del vento/ che annienta e dice” (p. 44).
Conoscere il dolore significa avere, al tempo stesso, cognizione della casualità del male, ma anche della causalità dell’amore, come “necessità di appartenere” all’Altro che si ama.
Nicola, comunque la si metta, non siamo mai completamente soli.

Carlo Gambescia

mercoledì 30 gennaio 2008

Il Presidente Napolitano 

e il complesso di Weimar





Si vota? Non si vota? Difficile dire. Ma quel che stupisce è l’atteggiamento del Capo dello Stato. Giorgio Napolitano sembra voler temporeggiare. Vuole evitare le elezioni? Probabilmente. Ma crediamo che si comporti in questo modo, non per volgari interessi di parte come sostiene certa destra, bensì perché Napolitano, culturalmente incarna, ciò che ci piace chiamare il complesso di Weimar. Di che cosa parliamo?
Della Prima Repubblica tedesca, a indirizzo democratico, detta appunto di Weimar, città scelta nel 1919 come sede dell'Assemblea Costituente. Tutti ricordano che Hitler andò al potere nel 1933, determinandone la fine, dopo ripetute e affannose prove elettorali, avvenute nel triennio precedente, al termine delle quali, moltiplicando i suoi voti, risultò vincitore, incoronato dal popolo. Abbiamo qui semplificato, ma per approfondire, basta sfogliare qualsiasi libro di storia della Germania.
Ora la vittoria dell’antidemocrazia grazie alla democrazia, ha determinato nel secondo dopoguerra, e particolarmente nelle forze di tradizione antifascista (includendo perciò oltre a comunisti e socialisti, anche liberali e democratici cristiani), una sorta di timore nei riguardi delle elezioni, soprattutto se ripetute a breve scadenza. Timore che ha assunto forme legislative e caratteristiche politiche differenti nei vari paesi europei, sulle quale non possiamo qui soffermarci. Perché quel che preme sottolineare è la paura, ricorrente, nelle élite politiche antifasciste, che il popolo rischi sempre di consegnare la democrazia nella mani dell’antidemocrazia. Di qui, soprattutto nell’Italia, politicamente magmatica del dopo Tangentopoli, lontana anni luce dalle sistemiche certezze politiche fornite dal passato ideologema dell' “arco costituzionale”, il riproporsi, in misura crescente di questo timore. Sul quale, ovviamente, vanno a incidere, e spesso ad arte, anche questioni tattiche e di interesse, legate di volta in volta all' evoluzione della situazione economica e sociale, ma anche a certo costume politico italiano... E allora invece che di Hitler, si preferisce parlare, cercando di mascherare il "retropensiero", di "rischio-instabilità" per la politica, l'economia, eccetera.
Ma il nocciolo duro, ripetiamo, è costituito dal complesso di Weimar. Per farla breve: dalla paura di facilitare, attraverso l’uso dello strumento democratico per eccellenza, le elezioni, l’ascesa al potere di un altro Hitler. E i "complessi", per metterla sul “clinico-politico” condizionano sempre il comportamento politico consapevole di un individuo, accentuandone gli aspetti morbosi (sempre sul piano politico). Il che per una élite politica, che deve sempre mantenere i nervi saldi, è particolarmente grave.
Questo atteggiamento politico fa male o bene alla democrazia?
Qui bisogna essere realisti. Sussistono, infatti, due possibilità. Davanti a un pericolo oggettivo (squadre di uomini in armi, violenze politiche quotidiane nelle strade, nessuna possibilità di controllo sulle procedure di voto, connivenze provate tra l’amministrazione dello stato e le forze sovversive, eccetera) è giusto limitare il ricorso alle elezioni, per non favorire i nemici della democrazia. Ma in altre situazioni, opporsi ad elezioni, che sicuramente come nel caso italiano, anche ammessa la vittoria del centrodestra, non apriranno le porte a qualche nuovo Hitler, fa decisamente male alla democrazia. Soprattutto perché questa volontà “morbosa” di rinviare le elezioni può essere intesa da cittadini “sani”, come un atto di sfiducia verso la democrazia e in particolare verso le capacità decisionali dell’elettorato.
In conclusione, la paura di un’altra Weimar non giova alla politica. Perciò, e ci scusiamo per il tono forse troppo colloquiale, ci pensi bene Presidente Napolitano, prima di prendere qualsiasi decisione...

Carlo Gambescia 

lunedì 28 gennaio 2008

Che cosa resta 

del Sessantotto italiano? 


Procediamo per gradi.
Innanzi tutto si deve distinguere tra un Sessantotto culturale e un Sessantotto economico e sociale. Ora, l’eredità del Sessantotto culturale, già all’epoca segnato da un forte radicalismo di tipo individualistico, è oggi presente in quella cultura dei diritti civili, da molti presentata, e in particolare da certa sinistra liberal, come unica forma di democrazia politica. E coagulatasi in alcune leggi di contenuto civile, nel merito delle quali qui non desideriamo entrare, per non perdere il filo generale del nostro discorso. Mentre del Sessantotto economico e sociale, le cui premesse erano decisamente rivoluzionarie, non è praticamente restato nulla, a parte uno Statuto dei Lavoratori, oggi messo in discussione, perfino dagli stessi sindacati.
Il lato interessante della questione è rappresentato dalla apparente (come poi vedremo) frattura, appunto in termini di eredità, tra il Sessantotto politico e il Sessantotto economico-sociale. Perché la “rivoluzione” sì è fermata a metà? Influenzando il diritto civile, ma lasciando inalterate le strutture economiche e sociali? Per due ragioni.
In primo luogo, perché è mancata una spinta propulsiva e rivoluzionaria dal basso (con l'individualismo culturale, difficilmente si formano quadri rivoluzionari, a prescindere dalla forza o meno delle strutture a cui ci si vuole opporre…). Ma è anche mancata, da parte dei partiti politici di sinistra, la concreta volontà riformista di “tradurre” in leggi i contenuti economici e sociali del Sessantotto
In secondo luogo, e qui la responsabilità è ancora della sinistra partitica, perché si è accettato a livello legislativo uno scambio tra diritti civili e diritti economici e sociali. In certo senso, se ci si passa l’espressione, la sinistra si è gradualmente convertita a un radicale individualismo neoborghese. Fino al punto, almeno in alcune sue attuali componenti, di accettare la visione individualistico-libertaria, anche in campo economico e sociale, presentando il neoliberismo, come una politica di sinistra. Il che, in fondo, era ed è scontato. Dal momento che il liberismo economico, di regola, è lo sbocco naturale, diciamo così, del liberismo civile: una volta che si accetta l’uno, si finisce per accettare anche l’altro. E oggi i “prodotti” più genuini di questo processo sono Walter Veltroni e la cultura, anche economico-sociale, che ruota intorno al segretario del Pd, sopratutto a livello di un immaginario collettivo in linea con il mainstream neoliberista.
Credamo perciò che la sinistra debba cominciare a riflettere sul vero significato del suo scambio, neppure così occulto, con il potere costituito: diritti civili (che al potere economico non costano niente) per diritti economici e sociali (che invece costano molto).
Questo scambio a perdere (per la sinistra) ha provocato due conseguenze.
In primo luogo, si parla sempre più di diritti civili e sempre meno di diritti economici e sociali, anche all'interno della cosiddetta "sinistra radicale". Dal momento che, come spesso dichiarano politici di sinistra (anche insospettabili), la soluzione dei problemi economici e sociali non può non prescindere (o comunque non fare i conti) dalla "mano invisibile del mercato". In secondo luogo, questo “bagno collettivo” di individualismo culturale, iniziato nel Sessantotto, ha provocato a livello collettivo, anche all’interno dell’elettorato di sinistra, l’adesione a una cultura di tipo soggettivistico, dove la democrazia è intesa "teoricamente" come promozione della libertà del singolo, ma di "fatto" come libertà economica di "consumare" merci. E non come crescita delle libertà collettive dal bisogno. Certa sinistra "riformista" è perfino giunta al punto di criticare la stessa legislazione del welfare state perché di ostacolo allo sviluppo del mercato, e dunque dei consumi privati. E su questo terreno certo veltronismo finisce per "sposarsi" con il berlusconismo, dando vita a quel fenomeno che in altri post abbiamo definito veltrusconismo, e ai quali rinviamo.
In conclusione, quel che resta del Sessantotto italiano, è un fuorviante radicalismo dei diritti, ormai pienamente estesosi, indossando la veste del neoliberismo rampante, che resta  altra cosa rispetto al liberalismo politico,  anche al campo economico e sociale.
Alcuni lettori potrebbero chiedersi perché non tornare indietro idealmente, e riannodare oggi il Sessantotto culturale a quello economico e sociale. Impossibile. Perché per fare un’operazione del genere, si dovrebbe puntare su una cultura comunitaria dei doveri collettivi. Cultura che implica il riconoscimento di un senso del dovere del singolo verso la comunità tutta. Quanto di più estraneo a una cultura come quella del Sessantotto, impregnata di radicalismo individualistico.
Semplificando, forse troppo per alcuni, si può dire che la sinistra potrà uscire dal vicolo cieco in cui è finita, solo dopo che avrà riscoperti culturalmente il valore della comunità e il significato politico dei doveri collettivi ( e non solo dei diritti individuali). E in questo farsi un poco destra (ovviamente non quella oggi su piazza...).

Carlo Gambescia 

sabato 26 gennaio 2008

Il sabato del villaggio (2)


Effetti collaterali del capitalismo
Dal manifesto dei comunisti al manifesto dei consumatori.

Valori di oggi
Quanto costa un telefonino con il GPS ?

Valori di ieri
Quanto costa una telefonata interurbana?

Massimo Cacciari
Nichilismo alla Veneziana.

Gianni Vattimo
Il Nietzsche della porta accanto.


Guerre culturali post-moderne
Squadrismo mediatico contro berlusconismo stellare.

Carlo Gambescia

venerdì 25 gennaio 2008

La caduta di Prodi (e

il silenzio della "piazza" di sinistra)



Ieri Prodi è caduto nel silenzio generale della “piazza” di sinistra ( girotondini, giustizialisti, ecologisti, pensionati, metalmeccanici, no-global). E questo ha un valore maggiore dei pochi voti venuti meno al Senato. Anche perché il silenzio è solo la punta dell' iceberg, che rivela lo stato di grave stanchezza e disorientamento in cui si trova l' elettorato di sinistra. Del resto i sondaggi da tempo davano il governo in picchiata. E, pur con il beneficio dell’inventario sociologico, chi scrive, nelle ultime settimane, si è trovato a udire, andando in giro in autobus, le gravi lagnanze ad alta voce nei riguardi del governo, di persone che si professavano apertamente di sinistra. Perciò crediamo che la mancanza di consenso “reale”, sia il dato che illumina meglio le ragioni della caduta di Prodi, dopo appena venti mesi.
Il che significa, che nonostante le bottiglie stappate ieri al Senato, il merito della bocciatura non è assolutamente del centrodestra. Le ragioni vanno invece individuate nella politica sostanzialmente antisociale del governo e dannosamente filoamericana ( si pensi alla difesa della legge 30, all'inazione sulla questione rifiuti, alla volontà più volte mostrata di proseguire la “missione di pace” in Afghanistan). Attenzione, parliamo però di un liberismo "di sinistra" pasticcione: perché il governo non ha diminuito le tasse, ancora oggi elevate soprattutto per i redditi fissi minori, ma al tempo stesso ha tagliato la spesa pubblica, provocando vere e proprie derive sociali in settori come la salute, l’istruzione, la ricerca. Guadagnandosi però il sospetto plauso dell’Ue e del Fmi.
Allora non ci si deve stupire, se la piazza di sinistra si sia sentita tradita. E di conseguenza il suo elettorato. Il che però non significa che correrà a votare Berlusconi. Ma non vuol dire neppure il contrario (si pensi, ad esempio, alle frange moderate dell'elettorato di sinistra). In realtà riteniamo più probabile l'astensione.
E questa incertezza spiega il timore del centrosinistra di perdere le eventuali elezioni anticipate. E fa capire pure il desiderio di allontanarle quanto più possibile, gonfiando retoricamente nelle sedi mediatiche l’importanza della riforma elettorale. Per contro, il centrodestra vuole andare subito al voto, sull’onda di sondaggi più che positivi, per presentare la cambiale elettorale all’incasso…
Ora, crediamo, che il vero nodo della questione sia identitario. Che cosa vogliamo dire? Che si può anche cambiare il sistema elettorale, ma che qualsiasi mutamento sarà inutile, se prima la sinistra non avrà fatto luce sulla sua identità sociale. Chiarendo, una volta per tutte, ciò che vuole fare da grande, nonché i suoi rapporti con il centro moderato. Riteniamo, per parlare chiaro, che la sinistra debba puntare su programma spiccatamente sociale. E soprattutto, una volta al potere, realizzarlo politicamente senza indugio, riannodando così il filo del consenso con quelle stesse piazze, che oggi hanno assistito in silenzio alla caduta di Prodi.
Invece dovremo sorbirci la solita penosa recita… E probabilmente la nascita di un governo istituzionale, presieduto - e ci scusiamo per la caduta di tono - del solito politico dalla faccia di bronzo. Prontissimo a “fare le riforme nell’interesse degli italiani”. Ma come? Differendo il referendum, sgradito ai più, e magari garantendo, sottobanco, qualche concessione agli interessi di Berlusconi. Pertanto un governo istituzionale, rischia di durare anche un anno e mezzo…
Se invece si dovesse andare subito al voto, ci pare probabile una vittoria del centrodestra. Che però in quanto a problemi di identità, sembra messo peggio della sinistra. Con una differenza: al contrario della sinistra ha un padrone ben preciso. E che, una volta al potere, saprà far valere solo i propri interessi.

Che tristezza.

Carlo Gambescia 

giovedì 24 gennaio 2008

Il libro della settimana: Salvatore Santangelo, Le lance spezzate, Nuove idee, Roma 2007, pp. 312, euro 15,00.



Non è una provocazione. Ma consigliamo ai pacifisti intelligenti, e ce ne sono tanti, di leggere l’ultima fatica di Salvatore Santangelo, brillante e giovane studioso di “geofilosofia”, (Le lance spezzate, Nuove Idee, Roma 2007, pp. 312, euro 15,00). Per quale ragione?
Perché il libro di Santangelo è una raccolta di notevoli riflessioni sull’immaginario che ruota intorno alla guerra. Nel senso di un’analisi delle idee-forza (filosofie per e dell’azione) che gli uomini hanno maturato sull’importanza dei diversi ambiti geografici, ma principalmente a scopi politici e militari. Di qui seguendo l’etimologia del termine geografia (da, "terra"; gráphos, "io descrivo") l’origine del termine geofilosofia, coniato in realtà dallo studioso americano John K. Wright (1947), e poi ripresa, in senso disciplinare, da vari autori tra i quali, oggi, Santangelo.
Ma non solo. L’analisi del giovane geofilosfo rinvia a un approccio teorico forte: quello del realismo politico. Che vede nella guerra, e soprattutto nelle cosiddette guerre asimmetriche di oggi, una realtà ineliminabile. E con la quale è perciò necessario fare i conti. Pertanto il libro si muove su due livelli. Il primo, molto intrigante, concerne l’impatto della guerra sull’immaginario contemporaneo (cinema, letteratura, eccetera). Il secondo, non meno importante teoricamente, riguarda il rapporto tra guerra e politico.
Ed è su questo ultimo aspetto che concentriamo la nostra attenzione. Le lance spezzate è percorso da una critica che non possiamo non condividere: quella alla moralizzazione universalistica della guerra e quindi alla sua "oggettiva" depoliticizzazione (ecco il perché del titolo “lance spezzate”, in senso schmittiano…). Oggi, come mostrano le guerre americane, si dichiara di combattere in nome di valori pre-politici, come la difesa dei “diritti universali e assoluti” dell’uomo. Diritti non condizionati, così si sostiene, da alcuna appartenenza nazionale. Si parla perciò di guerre che non avrebbero alcun bisogno di essere ricondotte nell’alveo delle motivazioni delle guerre classiche, intraprese in passato dallo stato-nazione. In certa misura le guerre di oggi sarebbero pre-politiche mentre quelle di ieri politiche. Nel senso di un'assenza di qualsiasi riferimento allo Stato in termini di realistica “ragion di potenza”.
In realtà le cose non stanno così. Come spiega chiaramente Santangelo le guerre continuano ad essere “politiche”. E dunque legate a ragioni di potenza. Ma con una differenza fondamentale: che “fingendo” di non esserlo nelle motivazioni, come per primo intuì Carl Schmitt, hanno acquisito e sviluppato una forza dirompente, mai conosciuta prima (anche per i progressi tecnologici): l’ ”avversario” oggi viene collocato, pre-politicamente, tra i “nemici” dell’umanità. Perché in lui si vuol vedere non più l' avversario di una volontà di potenza particolare, ma il “nemico assoluto” dei diritti universali dell’uomo. Di qui quella ferocia inaudita dei conflitti, oggi sotto gli occhi di tutti.
Ora, come accennato all’inizio, consigliamo la lettura di questo libro ai pacifisti intelligenti. Perché un pacifismo che non tenga conto di questa involuzione ideologica ma con conseguenze reali (dalla guerra di potenza "particolare" alla guerra "totale" per i diritti universali), rischia di porsi sullo stesso piano universalistico degli attuali difensori della guerra universalistica. Dal momento che entrambi i fronti puntano sull’eliminazione dell’avversario trasformato in nemico dei diritti universali (come dichiarano i sostenitori delle guerre moralistiche) o nella guerra in quanto fuori dell'universo umano (come auspicano i pacifisti). Realtà quest’ultima, come sappiamo, ineliminabile. Ma contenibile, come asserisce Santangelo, soprattutto, se si tenta di ricondurla non all’ idea di annientamento totale del nemico ma a quella di farne una volta sconfitto, un alleato, o comunque un futuro avversario leale… Accettando una pacata e umanizzante visione ciclica della storia e della guerra. Di qui però la necessità, anche sul piano militare, di dare spazio a “menti libere che comprendano la guerra e lascino libertà all’intelligenza e all’umanità”, nelle cose e non nelle rappresentazione universalistiche delle stesse.
Come hanno insegnato i nostri Maggiori, si deve “pensare” la guerra in senso nominalista e non rifiutarla a priori in chiave universalistica e moralizzante. In conclusione un libro interessante e ricco, che tra l’altro si avvale della brillante introduzione di un esperto polemologo come Piero Visani.
Probabilmente nel recensire Le lance spezzate abbiamo tralasciato alcuni suoi aspetti, ugualmente interessanti, in favore di altri. Ma questo può essere uno stimolo maggiore alla sua lettura, proprio per scoprirli. Del resto come nota Ortega y Gasset, quando si recensisce un testo notevole, si ha sempre in mente il libro che noi si vorrebbe scrivere sullo stesso argomento. Ma questa è un’altra storia.

Carlo Gambescia

mercoledì 23 gennaio 2008

La fermezza di Prodi...



C’era piaciuta la fermezza mostrata ieri da Prodi alla Camera. In particolare la voglia di “inchiodare” Mastella alle sue responsabilità politiche. In primis quella di essere uscito dal governo, per ragioni chiaramente personali o comunque di bottega politica, rischiando di provocare la sua caduta. E probabilmente le elezioni anticipate...
E invece scopriamo oggi che Prodi briga per ottenere i voti dei senatori a vita… Visto che alla Camera ancora ci sarebbero i numeri “per andare avanti”. Ma per andare dove? Per continuare una politica monetarista di risanamento che ha impoverito l’Italia? Oppure per proseguire a ignorare problemi veri come quelli del lavoro flessibile, dei rifiuti, di una sanità da scandalo?
La vera politica democratica deve essere basata sulla diversità delle idee e dei programmi. E, quando necessario, su un chiaro conflitto tra posizioni differenti. E' un dovere di chi governa. Inoltre l’elettore deve sempre poter individuare, soprattutto nelle fasi critiche, le eventuali responsabilità politiche. E' un suo diritto.
Pertanto è antidemocratico cercare di sopravvivere, come pretende Prodi, per proseguire lungo una linea politica di destra, non “digerita” dall’elettorato di sinistra. Ma si tratta anche di una cattiva scelta politica: perché si chiede il sostegno di senatori ex democristiani o ancora peggio di Casini. Uomini, se ci si passa l’espressione, della stessa “tribù” di Mastella.
Altro che fermezza. Prodi rischia così di uscire di scena nel modo peggiore. Infatti, qualora il governo cadesse, anche dopo questo patteggiamento sottobanco, e si andasse al voto, gli elettori di sinistra, che non sono stupidi, potrebbero punire le stesse forze politiche radicali (Prc, Verdi, eccetera), per l'appoggio a Prodi in occasione di questa sua ultima piroetta. In che modo? Astenendosi dal voto. Dal momento che la sinistra, come uomini e programmi, sembra sempre più assomigliare alla destra. Di qui l'effetto voltastomaco....
In conclusione, il solito Prodi. Che vuole durare e basta. Proprio come un Mastella qualsiasi. 

Carlo Gambescia

martedì 22 gennaio 2008

Abolire la borsa? 




Come è risaputo storia e funzioni della Borsa, le cui origini risalgono al Cinquecento (nel 1531 venne fondata la Borsa di Anversa), sono legate allo sviluppo del capitalismo. Ma a quanto pare in misura sempre più negativa e per alcuni addirittura parassitaria. Come del resto sembrano mostrare le cronache borsistiche di questi giorni
Un passo indietro. Sul piano della teoria economica la Borsa è da sempre presentata come uno strumento di finanziamento delle imprese e di investimento per i risparmiatori. Per contro sul piano della pratica ha sviluppato, fin dall’inizio, una crescente funzione speculativa, riflettendo scambi non sul valore reale delle imprese (la produzione e i profitti effettivi), ma speculazioni su valori congetturali e sempre più spesso irreali ( la produzione e i profitti futuri). A puro scopo di lucro e a danno dei risparmiatori. Soprattutto quando produzione e profitti futuri rispecchino valori irreali ma diffusi ad arte per influenzare il mercato in chiave rialzista o ribassista. Per così profittare, sulla base di scambi a termine, delle differenze tra valori puramente ipotizzati: in pratica immaginari (per rendersi conto di queste aberranti dinamiche si veda ad esempio il classico compendio di Shepard B. Clough e Richard T. Rapp, Storia economica d’Europa, Editori Riuniti 1980).
Se tuttavia fino alla grande crisi degli anni Trenta del Novecento, la Borsa aveva comunque svolto una funzione di finanziamento, con l’avvento del capitalismo manageriale e la conseguente distinzione tra proprietà azionaria e direzione strategica affidata ad amministratori delegati, l’aspetto speculativo è passato in primo piano. Alla fierezza dell’imprenditore e spesso unico azionista, di essere il “fondatore” di un impero economico da estendere e difendere, si è sostituita la necessità di appagare la crescente fame di profitti a breve (in genere borsistico-speculativi e nel lungo periodo autolesionistici per il "sistema"), da parte di quasi sempre anonimi gruppi di azionisti, per nulla fieri, se non del tutto estranei ai lati eroici ed imprenditoriali del capitalismo, celebrati da Schumpeter.
Hanno fatto il resto il progresso nelle comunicazioni e la crescente diminuzione dei controllo da parte dello stato-nazione di enormi masse fluttuanti di denaro. Accelerando, come  è sotto gli occhi di tutti, la micidiale frequenza di crisi borsistiche sempre più gravi. Che attenzione - ecco il punto fondamentale - sono di natura puramente speculativa. Ma che purtroppo a lungo andare non possono non influire sull’economia “reale”, producendo crisi “reali”, sempre più gravi. Giocando un effetto moltiplicatore su tutti gli altri fattori.
Ovviamente abbiamo semplificato un problema complesso. Ma solo per far comprendere ai lettori la necessità di una misura molto importante. Per farla breve: la Borsa andrebbe abolita. O comunque conservata "sotto vetro" solo per coloro che desiderassero continuare a giocare d’azzardo, con i titoli, come al Casinò. Sganciandola perciò da qualsiasi relazione con i valori reali dell’economia e delle singole imprese.
Si tratta di una ipotesi avanzata a suo tempo da studiosi non ostili al capitalismo come Federico Caffè e Argo Villella, ai quali rinviamo ( del primo si veda La solitudine del riformista, Bollati Boringhieri 1990; del secondo, Quale capitalismo?, Liguori Editore 1997). Soprattutto per un approccio tecnico al problema. Dal momento che il “come” esula dalle nostre competenze.

Per concludere: abolire la Borsa? Sì. Anche perché è una misura che gli stessi difensori del “sistema” dovrebbero apprezzare. Sempre meglio l’abolizione della Borsa che la soppressione, magari per rivoluzione violenta, del capitalismo in quanto tale. O no?

Carlo Gambescia

lunedì 21 gennaio 2008

L'Italia? 

Una federazione di famiglie




Mai come in questi giorni si può avvertire la gravità della crisi italiana. Apertasi “ufficialmente” nel 1992-1994, ma tuttora in atto. In realtà proprio questa lunghezza, dovrebbe far riflettere sulle sue ragioni strutturali.
Sappiamo di prenderla da lontano, e magari annoiare il lettore, ma non possiamo farne a meno. Dal momento che alle origini della crisi attuale ci sono cause storiche e sociologiche. E ne vanno ricordate almeno tre.
In primo luogo, in Italia l’idea repubblicana come religione civile, non mai stata “socializzata politicamente” a livello di massa. Ma lo stesso discorso vale anche per la tradizione monarchica e perfino fascista (la più breve delle tre). Si tratta di una mancanza di affezione sociale alle istituzioni, legata al tardivo conseguimento dell’unità nazionale, avvenuto senza adeguata partecipazione popolare.
Stato e Patria non sono perciò mai entrati nel cuore degli italiani, per usare un’espressione letteraria. Fin dall’epoca post-unitaria gli italiani hanno visto nello Stato e nella Patria solo il Poliziotto, il Soldato, l’Esattore Delle Imposte (figure, del resto, spesso schierate con i ceti socialmente privilegiati). E mai “istituzioni” preposte al buongoverno.
Ancora oggi, come emerge dai sondaggi, il primo valore resta la famiglia, ma in senso particolaristico (“prima noi, poi lo Stato”). E perciò si può parlare di un familiarismo diffuso a livello nazionale e venuto a patti con certa modernità tipicamente italiana (per distinguerlo dal "familismo": si veda più avanti) . Dopo di che, per l’ ”italiano medio” seguono nelle preferenze: le reti amicali e professionali (amici, colleghi e clienti), E attenzione, sono atteggiamenti e comportamenti molto diffusi anche all’interno della stessa classe dirigente politica ed economica dominante. Sempre a caccia di "rendite", spesso immeritate, per se stessi e per i propri familiari e sodali. Rendite ovviamente collegate alle posizioni di potere conseguite. Pertanto il caso Mastella non sarà l’ultimo, di un pur già lunga serie di casi simili.
Su questo parassitismo politico-familiaristico Miglio ha scritto pagine acutissime e documentate, alle quali rinviamo. Quanto all’economia, risulta perfino banale ricordare, che per il capitalismo italiano, gli studiosi hanno coniato il termine di “capitalismo familiare”.
In secondo luogo, come abbiamo già accennato, sul piano locale, anche dove è presente una certa tradizione civica, sono tuttora esclusivamente attive, come strumento di cooptazione politica ed economica, le rete familiari, amicali e professionali: per parenti, amici e colleghi, soprattutto se socialmente cospicui, le “istituzioni” (dai partiti alle banche) continuano ad avere un occhio di riguardo. Il che potrebbe anche essere comprensibile nella gestione di realtà comunali minori, segnate dal faccia a faccia comunitario. Ma non accettabile nelle aree dove le tradizioni civiche sono più deboli, come ad esempio nel Mezzogiorno (terra segnata, secondo un certa tradizione sociologica, da un familismo amorale , addirittura di tipo premoderno, mai venuto a patti con la modernità; quindi familismo per distinguerlo dal familiarismo). E dove l’assenza di un solido tessuto civile continua a facilitare le infiltrazioni di tipo criminale. Promosse da organizzazioni che spesso si muovono su basi addirittura claniche e di antica data. Ancora peggio, quando si passa a livello di Regione e Stato centrale, dove il familiarismo e il clientelismo politico (quest’ultimo consiste nell’estensione della logica fiduciaria familiare al partito politico, spesso anche in senso letterale), impediscono “strutturalmente” di gestire l’amministrazione pubblica e di governo in termini di efficienza, correttezza ed eguaglianza di accesso alle prestazioni. Alimentando negli esclusi uno spirito di rivalsa verso le istituzioni, contrastante con lo sviluppo di qualsiasi senso civico. Dal momento, come si è detto, che lo Stato è visto, almeno far tempo dall’unità italiana, come entità estranea ed eventualmente come dispensatore di favori economici e politici.
In terzo luogo, il sistema dei partiti privo di salde saldi radici rivoluzionarie (come nell’esperienza francese) o di consolidate tradizioni parlamentari (come nell’esperienza britannica) si è praticamente adattato a questa logica familiaristico-clientelare, introducendola in un contesto moderno come finalità: la democrazia rappresentativa, il mercato, lo sviluppo, il progresso. Ma segnato dal punto di vista dei mezzi dall'accettazione di tale logica come “normale” strumento organizzativo e di potere. Il termine non ci piace, ma non si può non parlare di modernizzazione compromissoria.
Il che nelle aree a rischio, produce tuttora pericolose commistioni tra politica e criminalità comune. Mentre nelle altre aree, politicamente meno immature, se ci si passa l’espressione, provoca ancora oggi, immorali matrimoni di interesse tra partiti e capitalismo familiare. E qui, purtroppo c’è un filo rosso che va dallo scandalo della Banca Romana (1892-1894) a quello della Parmalat 2003-2004).
In un quadro del genere, segnato dalla logica familiaristico-clientelare come abitudine collettiva, è difficile suggerire vie d’uscita. Può sembrare perfino banale, ma in Italia la prima cosa a cui spesso si pensa prima di iniziare una qualsiasi azione di contenuto sociale (la ricerca di un lavoro, la prenotazione di una visita medica specialistica, la richiesta di un passaporto, un prestito bancario, eccetera) è trovare una “raccomandazione” nel giro dei parenti, amici, conoscenti, eccetera.
Va inoltre considerato che attualmente la cosiddetta globalizzazione economica tende a dissolvere, in misura crescente, i legami tra cittadino e stato-nazione, persino dove sono ancora ben saldi. Di conseguenza per “l’italiano medio”, ancora oggi così poco “nazionalizzato” e “statualizzato” (se ci passa le brutte espressioni…), in futuro sarà sempre più difficile “socializzare politicamente” i valori di patria, rispetto civico e di buon governo.
E così gli italiani rischiano di trasformarsi in cittadini del mondo... Ma anche qui in modo molto particolare, seguendo la propria “specializzazione”: esportando stilisti, prodotti di lusso e criminalità, su basi rigorosamente familiaristiche. Con il rischio di scivolare lentamente verso la frammentazione politica pre-unitaria. Anche perché l’Unione Europea è considerata dagli italiani come un pura e semplice appendice economica.
Inoltre questo progressivo processo di “denazionalizzazione” e “destatualizzazione”(altre brutte espressioni) potrebbe addirittura rendere in termini economici troppo costoso il mantenimento di una classe politica autoctona. E spingere, suo malgrado, il capitalismo familiare italiano a puntare per la “sicurezza” interna ed esterna su partner politici stranieri, magari anglo-americani (perché ritenuti più dinamici e sicuri sul piano organizzativo). Fino al punto - ecco il rischio più grande - di considerare superate e costose le elezioni politiche. E non è "fantapolitica", perché dietro le attuali violente polemiche confindustriali sulle “caste” politiche si scorge un progetto del genere.
In questo modo l’Italia rischia di tornare ad essere ciò che era nell'Alto Medioevo: una federazione di famiglie. E non è una battuta.

Carlo Gambescia

sabato 19 gennaio 2008

Il sabato del villaggio (1) 



Ciclo politico
Cade Prodi. Torna Berlusconi.

I Mastella
Finché magistratura non li separi.

Futurismi a palline
Oggi serve lo sponsor.

Sarkozy
Homo Politicus? No, Eroticus.

Toni Negri
Nonno Operaio.

Decadenze
Montanelli, Feltri, Belpietro, Giordano.


                                       Carlo Gambescia

venerdì 18 gennaio 2008



E tu di che religione sei?

E tu di che religione sei? Boh! Per togliersi il pensiero, consigliamo la lettura quotidiana di Repubblica… Non risolve ma almeno aiuta a scegliere quella giusta. O magari due o tre insieme... Si consiglia ai pensionati con basso tasso di colesterolo religioso. E spieghiamo perché.
E' come scorrere un menù molto ricco: laicismo all’arrabbiata con tanto peperoncino Zagrebelsky; laicismo al salmone, no al trombone cucinato da Scalfari; cristianesimo di sinistra in salsa non troppo teodem, aggiungendo però tutta la Bindi che si vuole; lacrimoni all’acquacotta in stile Sofri (Adriano). Mentre per coloro che sono a dieta (di religioni): ateismo "liquido" in calici Odifreddi(ssimi). Oppure, per evitare indigestioni (fondamentaliste) consigli su come leggere il Corano. E da chi? Un gruppo di islamisti(?) anglo-americani, of course. Targati New York Times Book Review . Come dire gente islamo-liberal con la puzza sotto al naso… Tipo: “Lassatece passà semo newyorkesi puro noi…”. E poi dice che i musulmani veri s’incazzano… Soprattutto quando gli metti Darwin nel cuscus...
E infine lezioni quotidiane di cucina, pardon di catechismo a Papa Benedetto Sedici Volte, come usa chiamarlo un amico blogger, arrampicato sul stesso ramo di Zaccheo, in attesa di un fischio. Non da Repubblica ovviamente. Ma dal Nazareno-Super-Star, qualora tornasse da queste parti. E non in compagnia di Beppe Grillo… Se passasse il Cristo, caro Piccolo Zaccheo ricordati del sottoscritto, che è un grande peccatore…
Diciamo la verità: Repubblica, religiosamente parlando, è alla frutta. E laicamente pure. Procede per ammucchiate successive… Come il governo Prodi. Vuole mettere dentro tutti al rinfusa: islamici, cattolici, musulmani, buddisti, laici, chierici, anticlericali, clericali. E magari pure il Diavolo però con Esorcista al seguito. Non si sa mai...
Ma attenzione: prima i candidati devono superare l’esame di Libero Mercato. Gli anticapitalisti dalle parti di De Benedett(o) Una Volta non sono molto amati. 


Carlo Gambescia

giovedì 17 gennaio 2008

Lo scaffale delle riviste: "Rivista Italiana di Conflittologia", n. 3, Settembre 2007, 


http://www.conflittologia.it/

Crediamo che le scienze sociali non debbano mai tralasciare il problema del conflitto politico. A riguardo c’è un' antica tradizione teorica, interna al realismo, e dunque di tipo descrittivo, che ha prodotto nel Novecento studi importanti. Ad esempio, basti qui fare i nomi di Simmel, Pareto, Mosca, Michels, Schmitt, Freund e Coser.
Purtroppo oggi le scienze sociali difendono, in chiave pregiudiziale, l' approccio morale e "normativo", rifiutandosi di prendere atto dell'ineluttabilità "descrittiva" sociologica del conflitto. Si pensi solo al neo-contrattualismo di un filosofo sociale come Rawls. E questa rimozione del conflitto spesso poggia su una visione meramente procedurale della politica come “dibattito pubblico”. Finendo così per confondere il momento, pur necessario, del confronto politico con quello della decisione, e quindi dei sempre possibili “conflitti attuativi”. Inoltre, più o meno consapevolmente, si nega quanto spesso nel gruppo sociale il conflitto esterno unifichi all’interno. O che comunque esista un dinamica funzionale tra conflitto e cooperazione.
Sembrano quasi banalità, ma spesso è veramente difficile farle “circolare” all’interno di una Accademia, che sembra ostinarsi su posizioni universalistiche, procedurali a sfondo irenico. Con gravi conseguenze sul piano pratico-politico. Che qui preferiamo non approfondire.
Il che significa che il conflitto va sempre ricondotto nell’alveo di una teoria sistemica della società, dove per contro la cooperazione non può non giocare un ruolo altrettanto positivo; in quando conflitto e cooperazione vanno sempre considerati costanti sistemiche, pur esprimendo di volta in volta contenuti storici differenti.
Per queste ultime ragioni non possiamo non accogliere con grande piacere, la nascita di una nuova rivista italiana di scienze sociali - crediamo addirittura la prima - dedicata al tema del conflitto, ma anche della sua gestione. E che dunque lo affronta, e meritoriamente, anche in chiave di scienze della cooperazione, o se si preferisce della mediazione. Si tratta della “Rivista Italiana di Conflittologia”, giunta al suo terzo numero e diretta da Michele Lanna, avvocato, giornalista pubblicista e docente di sociologia generale presso la facoltà di Studi Politici e per l'Alta Formazione Europea e Mediterranea “Jean Monnet”. E che si avvale di un Comitato Scientifico che annovera studiosi come Salvatore Costantino, Jacques Faget, Joahn Galtung, Giuseppe Limone, Silvio Lugnano, Ian MacDuff , Margherita Musello, Luigi Pannarale, Valerio Pocar, Salvador Puntes Guerrero, Annamaria Rufino. Nonché di una redazione composta di giovani e promettenti studiosi.
In effetti quel che ci ha subito colpito, scorrendo il terzo fascicolo, ma anche i due precedenti (fra l’altro tutti consultabili presso il sito della rivista http://www.conflittologia.it/num3/index1.htm ), è l’ intelligente approccio sistemico. E per farsene un’idea immediata, consigliamo di leggere, sempre sul terzo fascicolo il denso editoriale, dedicato all’antipolitica ( http://www.conflittologia.it/articoli/num3_art1.htm). Dove Michele Lanna riconduce questo fenomeno, di cui oggi spesso si parla a sproposito, nell’ambito di una teoria sistemica del ciclo politico, in cui il conflitto “antipolitico” deve essere studiato come esito di un “coacervo di istanze 'grezze' e non selezionate. E che, per tali ragioni, non riescono a trovare "da sole" collocazione e, quindi, legittimazione politica all'interno del sistema”. Di qui però la necessità, da parte della classe politica, di recepirle, traducendole in un quadro istituzionale di riforme, pena la propria dissoluzione e quella del sistema politico democratico. Pertanto il ciclo politico non può non includere nelle sue fasi critiche, come in Italia nel 1922, nel 1992-1994 e oggi, anche il momento dell’antipolitica, come ricorrente conflitto tra élite e popolo, per usare una terminologia più pubblicistica che scientifica. E di riflesso non va sottovalutata o sminuita ironicamente. Dal momento che l'antipolitica di oggi può rappresentare la politica di domani. Di qui però la necessità sistemica (e il dovere politico) di tradurla istituzionalmente, attraverso il ricorso a forme di cooperazione o mediazione per la produzione di nuove regole democratiche . Sono temi e approcci sui quali ci siamo soffermati anche noi su questo blog. E che perciò non possiamo non sottoscrivere.
Si segnalano nello stesso fascicolo gli interessanti articoli di Sara Fariello, Globalizzazione, frammentazione, conflitti: la dimensione glocale dei processi di decentramento; di Annamaria Iaccarino, Lo sport tra il lecito e l'illecito; di Annamaria Rufino La funzione antropologica del diritto, la lettura di Alain Supiot ; di Tommaso Greco Mobbing: conflitti quotidiani nel mondo del lavoro.
In definitiva una rivista da non perdere. Perché non parla soltanto agli studiosi, ma entra nel vivo della crisi attuale e dei dibattiti in corso, offrendo a tutti un imponente materiale di riflessione.
Complimenti e auguri. 

Carlo Gambescia

mercoledì 16 gennaio 2008

Caso Sapienza/ Limiti del laicismo

Il rifiuto del Papa




Si spera che il rifiuto di Papa Benedetto XVI di recarsi alla Sapienza, aiuti a riflettere certo laicismo esasperato sulla natura controproducente dei veti e di certe campagne pubbliche anticlericali in realtà profondamente illiberali. E inopportune, politicamente parlando: d’ora in avanti in Papa, e purtroppo con ragione, potrà considerarsi, in un’Italia nei numeri ancora formalmente cattolica, vittima di una discriminazione politica da parte di una minoranza. Un fatto che dai media e dalle forze politiche e sociali vicini alla Chiesa, verrà presentato come l'inizio di una persecuzione politica.
Ma non bisogna confondere i due piani, quello della libertà di parola, che nei fatti gli è stata negata, e quello delle successive e possibili strumentalizzazioni da parte cattolica. Anche se i due piani sono in parte collegati, perché senza la contestazione dell’invito da parte del Rettore del Papa alla Sapienza, dove del resto avevano già parlato Paolo VI e Giovanni Paolo II, non vi sarebbe ora il rischio di una decisa svolta negativa nei rapporti tra cattolici e laici in Italia: un altro problema che va ad aggiungersi ai tanti sul tappeto.
Oltre a queste di ragioni di “opportunità politica”, ne va però ricordata un’altra di principio. Anche la manifestazione di laicismo più triviale deve essere ammessa. Quel che però non va mai accettato è il collegamento del violento laicismo di piazza, dai tratti spiccatamente anticlericali, alla tassativa richiesta di negare la parola al Papa. Anche in una sede universitaria. Perché se è vero che l’università è luogo d'elezione della scienza e del libero pensiero, è altrettanto vero che in nome proprio della stessa libertà deve essere consentita ai suoi professori la libera scelta di partecipare o meno a un cerimonia presenziata dal Papa.
In buona sostanza, vietare nei fatti al Papa di parlare, significa, tra l’altro, negare proprio in quella "augusta sede, il diritto ad altri (professori e studenti cattolici, o comunque "curiosi") di ascoltarlo. Naturalmente parliamo della libertà di parola e di “ascolto”. Ben diverso sarebbe il nostro giudizio, se ci chiedessero ad esempio di giudicare l’ introduzione nelle università italiane, e in forma obbligatoria per i nuovi iscritti, di un esame di teologia cattolica. La nostra risposta, pur essendo cattolici, sarebbe un no secco. Ci mancherebbe altro.
Ecco, certo laicismo ha mostrato di non aver ancora afferrato la differenza tra la libera manifestazione di una determinata idea, anche se non gradita ma che deve essere garantita a tutti, e l’attuazione, legislativa ad esempio, di quella stessa idea( o comunque di "pratiche" legate ad essa), che non può essere ammessa, soprattutto nel caso che vada a confliggere con le libertà “pratiche” di tutti, garantite dalla legge.
Per una migliore comprensione, facciamo un esempio politicamente non molto corretto ( e che per la sua radicalità scontenterà tutti...). Si può essere anticristiani a parole, anche manifestando in piazza, ma appena si tentasse di mettere in atto il proprio anticristianesimo, magari infrangendo con un sasso la vetrina di un negoziante cristiano "confesso", si dovrebbe essere arrestati e puniti. E ovviamente questo criterio dovrebbe valere anche al contrario: nel caso del negoziante anticristiano, aggredito, eccetera. Perché saremmo davanti non più a una libera manifestazione di pensiero. Ma di fronte a un atto capace di mettere a rischio la libertà “pratica” dell’altro, cristiano o anticristiano che sia.
Certo, nella pratica non sempre può riuscire facile trovare un punto di equilibro, soprattutto nel campo dei rapporti istituzionali, come quelli tra Stato e Chiesa, segnati dall’evoluzione storica dei costumi, dagli opportunismi umani, eccetera. Tuttavia il principio della libertà di parola (e di ascolto) è fondamentale per una società libera. E va sempre difeso ad ogni costo. E in occasione della visita di Papa Benedetto XVI alla Sapienza è andata perduta una magnifica occasione per combattere una buona battaglia. Di libertà, e per tutti.

Carlo Gambescia 

martedì 15 gennaio 2008

Sul denaro 

(in margine a un articolo di Luigi Copertino)




Stimolati da un interessante intervento sul denaro di Luigi Copertino (http://www.effedieffe.com/interventizeta.php?id=2554&parametro=economia;http://www.effedieffe.com/interventizeta.php?id=2559&parametro=economia) vorremmo qui intervenire, approfondendo l’argomento da un punto di vista sociologico (ma si veda anche il dibattito che ne è scaturito su http://piccolozaccheo.splinder.com/ ). E perciò non possiamo non partire da un sociologo per eccellenza come Georg Simmel, autore di una importantissima Philosophie des Geldes (1900).
Secondo Simmel, il misterioso fascino esercitato dal miraggio dell’illimitato potere d’acquisto racchiuso nel denaro, ha spinto l’uomo moderno a sormontare antiche distanze sociali. Un tentativo al quale si è però accompagnato il crescente timore collettivo di pericolosi attriti. Un timore suscitato dalla progressiva ed “eccessiva vicinanza” tra ceti e classi con stili diversi ma nominalmente accessibili a tutti.
Di conseguenza il moderno Homo oeconomicus, quanto più ha lottato per procurarsi la più preziosa delle “merci” in vendita nella società di mercato, il denaro, per frapporlo quale “neutro” schermo difensivo tra se stesso e l’altro, tanto più ne è divenuto vittima, condannandosi a una progressiva e dilaniante alienazione sociale. Perciò non si può definire l'ascesa sociale del denaro dei moderni come un innocuo processo di oggettivazione. Tramite il quale il valore di scambio si fissi o cada su un oggetto particolare trasformandolo in denaro. In realtà nel mondo moderno, a tale meccanismo spontaneo di oggettivazione, si è sovrapposto un processo di astrazione. Per mezzo del quale al denaro-oggetto si è progressivamente sostituito un sempre più evanescente denaro-segno. Tra questi due fenomeni vi sono perciò alcune differenze, sfuggite a Simmel , anche per ragioni storiche (scomparve nel 1918).
I processi di oggettivazione rilevabili nelle più diverse società storiche, discendono dalla socialmente fisiologica necessità di disporre, con l’incorporazione del denaro in una base o veicolo materiale (conchiglie, grano, orzo, schiavi e metalli preziosi), di un mezzo di commutazione dei bisogni, individuabile e costante nel tempo.
I processi di astrazione nascono invece nel cuore della società moderna (anche se il dibattito sulle loro radici intellettuali pre-moderne resta aperto): una società patologicamente prigioniera dell’idea di assoluta e astratta calcolabilità numerica di uomini e cose. Questi processi sono perciò connotati dal fatto che il denaro-oggetto, pur continuando a rappresentare la relatività valoriale degli oggetti economici, commuta i valori di mercato, spesso già di per sé astratti come quelli borsistici, trasformandoli in denaro-segno. Vale a dire che il denaro finisce così per incarnare, solo in una prima fase mercantilista o bullionista (dall’inglese, “bullion”: oro, argento in verghe) oggetti misurabili e individuabili fisicamente, esito di una base materiale e produttiva (lingotti d’oro, monete auree). Mentre in una seconda fase (che concerne la seconda metà del Novecento, ma per gli aspetti storici rinviamo a Copertino), una banconota viene messa in circolazione, priva di valore intrinseco apprezzabile; è un titolo di credito, al cui portatore la banca centrale dovrebbe versare un controvalore in realtà inesistente. Tuttavia anche se le autorità monetarie, si convertissero improvvisamente dal Gold Bullion Standard, proposto da Ricardo nel 1811, è intuibile che nessuna banca nazionale oggi potrebbe cambiare in barre d’oro, assegni, banconote e cambiali, qualora ciò venisse richiesto simultaneamente da tutti i possessori.
Insomma il “re è nudo”, ma tutti continuano a far finta di nulla… Perché?
In primo luogo, perché si vive all’insegna di quel “come se” che ben descrive i limiti di certa epistemologia moderna non solo diffusa in ambito accademico ma ormai anche a livello di pre-assunto collettivo. Di conseguenza il fondamento del denaro-segno, succeduto al denaro-oggetto, finisce per risiedere in un volatile ma potente elemento psicologico-fiduciario: l’astratta fictio di una promessa di pagamento. All’origine della quale vi è la necessità dei singoli di confidare nel credenza collettivamente diffusa - fondamentale in una economia dilatata in misura crescente dal consumismo - che il denaro posseduto "oggi" consentirà anche "domani" l’acquisizione di una crescente quantità di beni e servizi. Di conseguenza la fiducia “pre-cognitiva” nel potere d’acquisito della moneta, frutto ovviamente anche di forze sociali inerziali - legate all’umano bisogno di sicurezza - e necessità di consumi crescenti indotta da sistema di mercato, procedono di pari passo nell’accentuare il processo di “astrazione” del denaro. Basti qui ricordare l’ambiguo nesso, attualmente creatosi tra sviluppo delle credit cards e diffusione del credito al consumo. Per giunta il grado di conformismo intellettuale è tale, che nessuno, tranne un pugno di non conformisti, osa più interrogarsi “sociologicamente” ( per non dire, non sia mai, in termini di “ontologia sociale”...) su questo volubile dio-denaro dei nostri tempi, che atterra e affanna gli uomini senza mai consolarli. Per parafrasare, ma solo in parte, Alessandro Manzoni.
In secondo luogo, perché, nonostante per i moderni il denaro sia in grado di volare con le proprie ali, esso in realtà vive in perfetta osmosi con le principali istituzioni del mondo finanziario-capitalistico (borse, istituti di credito, compensazione e scambio). In questo modo, al massimo di astrattezza, esemplificata dall’oscuro e apparentemente perpetuo scorrere dei flussi di denaro elettronico, corrisponde a livello tecnico-economico la concreta autodifesa dei propri concreti interessi da parte di quelle oligarchie che lucrano su questi processi di astrazione del denaro. E che nei momenti di crisi, sono sempre le prime a minacciare di non rispettare la “promessa di pagamento” su cui si fonda il sistema monetario mondiale. Per poter così rifugiarsi sotto le ali protettive della Federal Reserve, della Banca Mondiale e delle altre istituzioni finanziarie sovranazionali.
Organizzazioni, queste ultime, a loro volta ben protette dalla spada imperiale americana. Il che significa, per concludere, che gli attuali processi di astrazione della moneta (e non di fisiologica oggettivazione), in ultima istanza, sono possibili solo perché garantiti dalla minaccia dell’uso della forza da parte dell’unica potenza politica, economica e militare rimasta: gli Stati Uniti.
Pertanto, in definitiva, il problema della moneta è economico, filosofico e "teologico", ma anche sociologico e soprattutto politico. Purtroppo. 

Carlo Gambescia

lunedì 14 gennaio 2008

Blairsarkozysmo?



Vedere Blair e Sarkozy che si autocelebrano davanti a una folla entusiasta di grandi elettori del neopresidente francese, ha un valore altamente simbolico. Quello di sancire in modo definitivo la fine di ogni discrimine tra destra e sinistra, in nome però del moderarismo centrista più vieto.
Praticamente Blair e Sarkozy sostengono lo stesso programma politico, ben condensato nello slogan neoliberista "Meno Stato Più Mercato". Si tratta di un tema che abbiamo già affrontato nel post del 30-8-2007. E sul quale è comunque interessante ritornare. In particolare alla luce di una significativa affermazione blairiana.
Secondo l’ex premier laburista britannico, “la differenza non è più fra destra e sinistra, ma fra passato e futuro” ( http://www.corrieredellasera.it/ ). Il che, considerata l’autorevolezza del personaggio e la sede dell' esternazione, rappresenta la vera consacrazione di un processo politico di unificazione tra destra e sinistra, soprattutto sotto il profilo di una comune gestione del fattore tempo, iniziato un quarto secolo fa. Ma procediamo per gradi.
La dicotomia conservazione/progresso risale storicamente e politicamente al 1789 (e filosoficamente al Secolo dei Lumi). Dicotomia, che fino alle “rivoluzioni” neoliberiste degli anni Ottanta del Novecento, è rimasta saldamente ancorata al discrimine destra/sinistra, come poi chiariremo meglio. Ma con l’avvento del neoliberismo tutto è improvvisamente mutato. Grazie a martellanti campagne politiche, accademiche e mediatiche, ovviamente legate a precisi interessi capitalistici e in corso ormai da un quarto di secolo, i neoliberisti sono riusciti a far passare prima a destra e poi a sinistra, l’idea che il nostro futuro, soprattutto dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, non potrà non essere inequivocabilmente segnato dal maestoso trionfo della più totale libertà di mercato. E qui si intuisce meglio il senso dello slogan “Meno Stato Più Mercato” citato all’inizio. Che riassume e designa nell’individualismo economico puro e semplice, alcuni dicono “selvaggio”, il vero motore di ogni futura "civiltà" trasformata in un mercato globale. Dove a dettare la linea, sarà la rapidità - ecco il punto “temporale” - di esecuzione dei processi economici, che proprio perché basati sulla ricerca di redditività futura, procederanno sempre più velocemente lungo un percorso temporale di tipo progressivo e unilineare. E dove lo Stato, stando sempre ai teorici neoliberisti, con il suo lento incedere, non potrà non rappresentare, in termini di rapidità delle scelte economiche, soltanto un inutile fardello.
Ora, almeno a nostro avviso, è un fatto assai pericoloso, che in una società come quella occidentale, abituata culturalmente da alcuni secoli a guardare solo avanti, qualcuno s’impadronisca politicamente e “monopolisticamente” dell’ idea di futuro. Per due ragioni.
In primo luogo, perché il “monopolista politico” del futuro, può mettere fuori gioco l’avversario in qualsiasi momento, definendolo nemico della storia (accusa gravissima in Occidente), di cui solo lui, il monopolista, conoscerebbe il progressivo e radioso cammino.
In secondo luogo, perché il “monopolista politico” del futuro, può far passare per “progressista” tutto ciò che lui ritenga "progressista" e per "conservatore" anche la più innocua forma di dissenso. E così isolare i contestatori accusandoli di passatismo (altra accusa gravissima in Occidente).
Si tratta perciò di un' arma assai più potente di quella rappresentata dal precedente discrimine tra destra e sinistra. Con ciò non sosteniamo che l'universo politico segnato da una destra e sinistra l’una contro l’altra armate, debba essere giudicato il migliore dei mondi possibili. Ma soltanto asserire che sulla base di quella divisione, almeno si ammetteva il confronto fra due rappresentazioni socio-politiche del tempo: una legata al passato (destra), una al futuro (sinistra). Si era in presenza, diciamo così, di un duopolio politico della temporalità. E non di un monopolio...
Pertanto risulta altrettanto evidente il valore simbolico del fatto che Sarkozy e i suoi abbiano condiviso entusiasticamente le dichiarazioni di Blair sulla celebrazione del futuro come unico fattore politico discriminante. Ecco allora il fatto nuovo: un’alleanza basata sul monopolio destra-sinistra del futuro. E ufficialmente sancita dalla seguente affermazione di Sarkozy: “Per un socialista così c’è sempre posto nel governo francese”. E questo in Francia, una nazione dalle forti tradizioni statuali e politiche...
Ora, chiunque appartenga alla destra e alla sinistra radicali, ha sicuramente il diritto di accusare Blair e Sarkozy di tradimento (per Blair del resto non è neppure una novità...). Ma purtroppo la forza del blairsarkozysmo è nella debolezza dei suoi avversari, oggi più divisi di ieri. Ci riferiamo, appunto, alle forze radicali che al monopolio del futuro continuano a opporre, come panacea, il duopolio legato rispettivamente al Passato della Tradizione, più o meno autoritario (destra) o al Futuro Comunista, più o meno monolitico (sinistra). Mentre si dovrebbe offrire una politica "comune", al di là di inutili steccati duopolistici, ma fondata - ecco il punto - su una visione pluralista del tempo, capace di mescolare le più diverse forme di temporalità sociale e politica. O comunque, se ci passa la semplificazione, almeno di favorire una gestione oligopolistica del tempo.
Insomma qui non si tratta, come suggerì qualche anno fa l'archeofuturista Guillaume Faye, di ricondurre plasticamente il meglio del nostro futuro nel nostro passato. Ma di fuoriuscire dalla dicotomia passato-futuro, implicitamente accettata da Faye. Puntando su nuove soluzione per contrastare il futurismo monopolistico e politico destra-sinistra, basato soltanto sul mercato. Ragionando soprattutto di come tradurre le auspicabili "scoperte" legate alla pluritemporalità in esperimenti politici e sociali, capaci di coinvolgere attivamente le persone, valorizzando fin dove possibile la democrazia diretta.
Tuttavia, onestamente, ci sentiamo inadeguati, per formazione e sensibilità, a fornire risposte più chiare in argomento, che non siano puramente frutto di ipotesi personali.
Pur nella consapevolezza che qualcosa si debba fare. Diciamo che ci siamo limitati a porre un problema. E che problema...

Carlo Gambescia

venerdì 11 gennaio 2008

Ma il Papa può dire la "Sua" o no? 



E’ difficile essere laici. Ma è anche complicato essere cattolici, nel senso di poter esprimere pubblicamente la propria fede senza incorrere in critiche, risolini di scherno, e quando va bene, quei sorrisi condiscendenti, che di solito si usano verso coloro che proprio non “ce la fanno a capire” come "deve" andare il mondo. Ma quest’ultima è un’altra storia. Veniamo invece al punto.
Ieri il Papa, in un incontro con gli amministratori locali, tra i quali Veltroni, ha pubblicamente accennato alla situazione di degrado in cui versa Roma. Si tratta di una triste realtà quotidiana che purtroppo è sotto gli occhi di tutti.
E oggi sui giornali, stando almeno ai titoli, è scoppiato, come si dice, il finimondo: il Papa doveva tacere.
Personalmente riteniamo che Benedetto XVI abbia detto la verità. Doveva tacere? Per l’abito che indossa? Non crediamo. Ci sono delle questioni etiche (e non economiche) come la povertà, sulle quali un Papa non può non intervenire. E un laico, nel senso di chi sia o si ritenga indipendente da ogni autorità eccelsiastica, dovrebbe combattere la povertà, invece di polemizzare, e spesso in modo insensato, con la Chiesa.
Altr
o discorso è quello legato al cosiddetto "passaggio" dalle parole ai fatti. Esistono leggi dello Stato che vanno rispettate da tutti, anche dai religiosi. E se i fatti, attenzione non le parole, violano le leggi, non possono essere fatti sconti per nessuno. Neppure per un religioso.
Ovviamente la Chiesa in Italia per ragioni storiche, più o meno discutibili, gode di una giurisdizione speciale, che le consente una certa libertà di movimento, anche in termini di “fatti”. C’è chi vorrebbe ridurla oppure ampliarla. Si tratta di una materia magmatica, che riguarda la Chiesa come istituzione storica e sociale, sulla quale è naturale che sorgano ciclicamente conflitti tra laici e cattolici. Sono fatti sociali e perciò legati all’evoluzione dello spirito del tempo. E a meno che non si abbia una visione della storia come progressiva marcia trionfale dell'umanità in nome di un qualche valore assoluto, si deve accettare la diversità dei valori, anche se come spesso capita, non li si condivida. L’accettazione della diversità è un principio fondamentale di libertà. E questo, a prescindere dal fatto che il nostro "interlocutore" del momento - sempre solo a parole, ovviamente - lo accetti o meno come tale.
Perciò un vero liberale dovrebbe difendere la “libertà di parola” del Papa. Salvo poi fare in modo con i fatti, “laicamente”, che un problema come quello della povertà sia concretamente affrontato, e non solo a Roma. Anzi, sotto questo aspetto, le parole "di sfida" di Benedetto XVI dovrebbero essere di sprone per ogni laico impegnato nella lotta contro una società utilitaristica, che sembra ormai aver accettato la povertà come un male inevitabile.
Ecco perché, come dicevamo all’inizio, non è facile essere laici. Dal momento che la vera sfida riguarda i fatti e non le parole… 

Carlo Gambescia

giovedì 10 gennaio 2008

Il libro della settimana: Roberto Della Seta e Daniele Guastini ( a cura di), Dizionario del pensiero ecologico. Da Pitagora ai no-global, Carocci, Roma 2007, pp. 434, euro 29,50.



http://www.ibs.it/code/9788843042821/della-seta-roberto/dizionario-del-pensiero.html


A che cosa serve un dizionario? A fornire rapidamente una serie di informazioni essenziali e precise su una certa materia, dalla matematica alla filosofia. Ora il Dizionario del pensiero ecologico, curato da Roberto Della Seta e Daniele Guastini (Carocci, Roma 2007, pp, 434, euro 29,50) non offre al lettore nulla di tutto questo. Per almeno due ragioni.
In primo luogo, perché non ha un preciso taglio editoriale. Voce dopo voce, mette insieme confusamente sotto il profilo teorico (come poi vedremo) e in modo approssimativo sotto quello redazionale concetti e biografie. Infatti si tratta di voci quasi sempre frutto di seconde letture e non di conoscenza diretta dei testi da parte di autori e collaboratori. E così sono liquidate, in poche e imprecise battute, voci importanti come Economia ecologica, Olismo, Antiutilitarismo. Per diffondersi invece su Giacomo Leopardi ed Ermete Realacci. O ripetere, come accennato, tesi altrui. Ad esempio, tanto per citarne una, la voce Alain de Benoist, si regge sulla lettura del pensatore francese come antiuniversalista in odore di criptonazismo, fornita a suo tempo da Francesco Germinario.
Probabilmente ci si doveva concentrare sui soli concetti, come ad esempio Colin Johnson nel suo ottimo Green Dictionary (1991), ancora oggi utilissimo. Di qui, considerata appunto l’esiguità di pagine per un dizionario come questo impostosi di partire da Pitagora, le clamorose assenze proprio sul piano delle voci biografiche. Ne citiamo solo alcune: Juan Martinez-Alier, uno dei padri contemporanei dell’economia ecologica, e autore di un importante studio in argomento (1987) ; Leopold Khor, primo teorico assoluto del “piccolo è bello”; James Robertson, economista già collaboratore della New Economics Foundation di Londra, e autore di uno dei migliori manuali di “economia compatibile” (1993). Per non parlare poi dell’assenza di una voce dedicata a Karl Polanyi, storico e teorico eterodosso dell’economia per eccellenza… E probabilmente ne meritava una anche il compianto Alfredo Salsano, che negli anni Settanta del secolo scorso, introdusse in Italia il pensiero di Polanyi. Però c’è un voce su Derrida, più alla moda.
E poi non si può buttare lì (ad vocem), quasi allegramente, che Herman Daly abbia scritto con “altri” Un’economia per il bene comune (Red Edizioni 1994)… “Altri” non è che John B. Cobb Jr, il coautore del testo. Il che significa che non solo non si è letto un libro fondamentale, ma neppure che si è presa visione “fisica” dello stesso, pur citandolo: il nome di Cobb jr è in copertina con quello di Daly… Diciamo questo, rischiando l’accusa di essere impietosi verso gli autori, solo per chiarire la "metodologia" di lavoro fatta propria da Della Seta, che tra l’altro è presidente di Lega Ambiente, Guastini e collaboratori.
In secondo luogo, il Dizionario ha un taglio teorico confuso. Che i due curatori presentano invece come un esito (positivo, benevolmente "sincretico") della natura dialogica del pensiero ecologista. Il che in parte può anche essere vero. Ma entro certi limiti. Perché pretendere di giustificare la natura critica dell’ecologismo inglobandolo all’interno di una dialettica dell’illuminismo che avrebbe in sé la soluzione, forzando tra l’altro il pensiero di Adorno e Horkheimer, significa mettere a dura prova l’intelligenza del lettore.
I due curatori, in realtà, non vogliono fare i conti fino in fondo con la modernità illuminista: per un verso la criticano, ma per l’altro cercano di recuperarla filosoficamente, privilegiando l’illuminismo buono su quello cattivo. Il che non è sbagliato. Ma come tradurre poi sul piano politico-sociale questo recupero? Come conciliare concretamente diritti individuali e diritti pubblici? Una chiave interpretativa interessante poteva essere quella utilitarista (moderata) e/o contrattualista (manca, infatti, una voce specifica sul Welfare State). Ma gli autori - e in particolare il filosofo Guastini - non se ne sono curati più di tanto. Ad esempio la voce Diritto dell’ ambiente, neppure sfiora il problema, e quella sul Principio di precauzione ne sottovaluta le importantissime implicazioni politiche in senso schmittiano (Chi decide, e come? Bisogna accettare il conflitto?, eccetera...).
Ma se moderno significa mercato capitalistico a oltranza, fin tra le pareti delle nostre abitazioni, il pensiero ecologico deve proporsi di superarlo o no? E se sì, come? Se moderno significa consumismo, il pensiero ecologico deve superarlo o no? E in quale modo e misura? Se moderno significa competizione sfrenata tra gli individui per “migliorare” a danno dell’altro la propria condizione economica, il pensiero ecologico deve superarlo o no? Ed eventualmente come?
A queste domande, i due fumosi saggi di Roberto Della Seta e Daniele Guastini che accompagnano il Dizionario, non rispondono. Il che, andandosi a sommare, alle carenze sopra riferite, ci spinge a definirlo un lavoro totalmente inutile, perché né forma né informa, per dirla con i vecchi professori liceali di una volta.

Carlo Gambescia