martedì 14 luglio 2020

In difesa di Luciano Benetton

La sinistra non ha mai capito l’importanza della ricchezza. L’idea che meglio rappresenta  questo  approccio totalmente  sbagliato è quella balzachiana  che scorgeva  dietro ogni grande fortuna  un grande delitto. 
Il marxismo, consapevolmente o meno, ha ricondotto questa idea al  materialismo storico:  teoria che non è altro che una  filosofia economica della storia che scorge  nella distruzione delle grandi fortune -  tra l’altro,  idea tipo biblico-profetico -  l’atto catartico che consente la nascita  di un nuovo mondo,  autentico regno della giustizia.
La prima pagina del “Fatto” condensa  magnificamente questo desiderio  di farla finita con una  ricchezza  frutto, si ripete,  di ruberie. 
Il tutto è molto infantile.  Basterebbe scorrere qualsiasi  biografia di Luciano Benetton e della sua  famiglia per scoprire come dietro il successo vi sia soprattutto il duro lavoro. E come sia giustificata  la fierezza di aver dato tanto all'Italia e al mondo.   
Il problema piuttosto è un altro. Quale? Quello del contesto italiano prigioniero di un corrotto e predatorio statalismo che invece costringe  chi voglia fare impresa  a subire le prepotenze  di una  burocrazia che vuole sempre avere l’ultima parola su tutto, senza però assumersi  alcuna responsabilità.
Come tutti gli specialisti di diritto amministrativo sanno bene,  i contratti di concessione, dalle autostrade ai settori più diversi, a causa di clausole e disposizioni  frutto di riserve mentali, soprattutto pubbliche,  danno sempre luogo ad arbitrati e contenziosi.  Detto altrimenti, sul ponte di Genova, l’inchiesta ha individuato “comportamenti omissivi”, come si dice, anche da parte dello stato.
Nonostante ciò,  l’ideologia balzachiano-marxiana riscoperta e  sbandierata dai populisti  - attenzione, di sinistra come di destra -  ha imposto la condanna a furor di popolo di Luciano Benetton. Inutile qui  evocare argomenti razionali in difesa di un’impresa che ha creato ricchezza e posti di lavoro.  I media  (per non parlare dei social) accettano una sola tesi: quella populista  della totale  colpevolezza della famiglia Benetton. Che deve pagare colpe, che invece nell’ipotesi più sfavorevole, dovrebbe almeno condividere con la burocrazia  ministeriale.   Addirittura quasi  ci si lamenta  - si pensi alla tracotanza di un Travaglio -  del pensionamento della  ghigliottina .  

Pertanto, ripetiamo,   la prima pagina del “Fatto”,  vera cloaca populista a cielo aperto,  rilancia  l’ ideologia dell’odio sociale contro la ricchezza. 
I populisti, malati di statalismo,   non possono comprendere come il vero problema sia rappresentato proprio dall’abnorme presenza di uno stato che armato di  leggi, norme, regolamenti, commissioni, sub-commissioni, sub-sub-commissioni,   uccide invece  la libera concorrenza,  favorendo attendismo e irresponsabilità a tutti i livelli. "La  pacchia è finita" scrive "il Fatto". Bah...  Di certo, non per le predatorie burocrazie pubbliche. 
Di conseguenza, quando  il populismo evoca come panacea l’attribuzione di  poteri ancora più estesi allo stato, non fa che rendere ancora più spesse le catene burocratiche che impediscono, e non da oggi, la modernizzazione capitalistica dell’economia italiana.  
Sono cose, queste,  che vanno scritte. Insomma, Luciano  Benetton viene costretto a pagare per colpe non sue. O comunque, da  condividere, e non in piccola parte,  con l’amministrazione pubblica. Nella  quale  però,  ripetiamo, i populisti scorgono la mano  visibile che salverà l’Italia dalla famigerata  “rapacità dei capitalisti privati”.    
Roba da ridere, se non ci fossero scappati i morti.

Carlo Gambescia