giovedì 9 luglio 2020

Genova e dintorni
Che teste di ponte…

Se si ripercorre la storia della democrazia rappresentativa, fin dagli inizi,   dove  nacque in Gran Bretagna, si scopre che il conflitto di interessi tra uomini politici e uomini d’affari  viene  da lontano. Già allora, come insegna la battaglia, riferita dalle gazzette dell’epoca, ad esempio  di Edmund Burke contro Warren Hastings, governatore di un’ India, amministrata attraverso la East India Company come patrimonio privato di alcuni cittadini britannici, ma con saldi, spesso sotterranei,  legami politici in patria. 
Il punto era  ed è,   che, a differenza degli altri regimi politici,  nella democrazia liberale tutti i dibattiti sono pubblici… Scelta ottima che però  imporrebbe   di capire dove sia giusto fermarsi, per salvaguardare la credibilità delle  istituzioni liberali.  
Cosa vogliamo dire?  Che lo scontro di oggi sull’affidamento  dovuto o meno, della gestione del nuovo ponte di Genova, alla famiglia Benetton,  non è propriamente   fisiologico.   Lo era nella Gran Bretagna fine Settecento, dove  potere politico e civile si intersecavano, forse ancora più di oggi.  Tuttavia,  alla fine,   Hastings, come Clive (il fondatore militare dell'India britannica),   vennero invece  assolti per i grandi servizi resi alla patria.  
Il punto debole della democrazia rappresentativa  è  rappresentato dal fatto che in mancanza del fair play britannico,  quanto più politica ed economia si sovrappongono tanto più il conflitto di interessi -  e conseguente dibattito pubblico -  da fisiologico rischia di trasformarsi in patologico.
Ciò significa che la via di mezzo, “all’italiana” di una gestione mista di alcune grande infrastrutture, come le autostrade  (e relativi ponti), non può  che  essere fonte continua di  conflitti.  Una questione che di conseguenza  andrebbe affrontata  in modo laico, realista, pragmatico.  Senza proclami e scomuniche.  E invece che accade? Si fa filosofia morale.  Detto altrimenti: la credenza  che l’affidamento della gestione a un’ altra società privata, “moralmente consapevole”, come si legge,  o addirittura che  il  coinvolgimento diretto dello  “stato etico”,  siano soluzioni  capaci di ridurre  se non azzerare i conflitti di interessi,  è cosa di un’ingenuità sconcertante.  
Come risolse la Gran Bretagna la questione dei conflitto di interessi indiano?  Intanto, si può dire che non risolse mai  definitivamente un bel niente. Attenuò i conflitti, facendo fare un passo indietro allo stato, senza estrometterlo (anzi…):  Londra  portò tutti gli interessi, pubblici e privati  alla luce del sole senza ricorrere ad alcun falso moralismo.  L’India, una volta chiusasi l’esperienza privatistica ( o quasi) della East India Company  fu governata da Londra, tramite  governatore,   ma in modo pragmatico favorendo la modernizzazione e  puntando sulla progressiva  autonomia e "britannizzazione" delle istituzioni locali, politiche e giuridiche, fino alla inevitabile concessione dell’Indipendenza. 
E quella era l’India:  un continente brulicante di esseri umani e  interessi economici, sociali e religiosi. I britannici, dall’alto della cultura liberale,  laicamente, sapevano che gli uomini non sono angeli, e si limitarono  a tagliare loro le unghie, evitando  di amputare le mani, in Gran Bretagna come in India.    
Invece in Italia,  dove la cultura liberale latita ancora,   ci si accapiglia su un ponte. Altro che fair play. Pubblico e privato vanno   a  caccia, neppure tanto nascosta, di risorse economiche da spartire tra politici in cerca di facili consensi e imprenditori poco o punto coraggiosi.
Che  teste di ponte…

Carlo Gambescia