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*********************senza "metapolitica" si finisce sempre per fare cattiva "politica"*******************

venerdì 31 gennaio 2025

La destra e i giudici. Come menare per il naso l’elettore

 


Se i giudici vogliono governare si candidino”, così ieri Giorgia Meloni.

Giorni fa si era espresso così anche un “tassinaro”, acuto politologo, evidentemente: “A Dotto’, qui ce vole ordine, basta co’ tutti ‘sti stranieri che rubbbano e ammazzano. E i giudici che li assorvono? So’ de sinistra, un partito”.

Non c’è da ridere. Perché Giorgia Meloni, esprimendosi così intercetta tutto l’odio popolare, misto a timore, che non risale solo alle interessate campagne politiche di Berlusconi contro i giudici.  Ma rinvia  a un radicato  rapporto di sfiducia, non sempre ingiustificato, nei riguardi della giustizia.

Un clima, che serpeggia, e non da oggi, nelle aule dei tribunali, contagiando uscieri, cancellieri e avvocati. E che spiega lo sviluppo, soprattutto dopo l’Unità,  nel Sud, più arretrato ed estraneo alla cultura del moderno stato di diritto, di organizzazioni parallele, una sorta di corti di giustizia criminali “fai da te”, come la mafia e la camorra.

Non potendo farsi giustizia, né ottenendola, ci si rivolge al crimine: la società è auto-organizzazione. Legge degli sbocchi: ogni offerta trova la sua domanda, anche di giustizia. Ovviamente evolvendo e specializzandosi, al passo con i tempi. Gli storici della mafia hanno ricostruito, la sua evoluzione nel secondo dopoguerra: da fenomeno contadino a fenomeno industriale e post-industriale.

Nel resto d’Italia dove è mancata la reazione mafiosa si è invece registrata la prevalenza della rassegnazione e (quando e se possibile) della corruzione. Un disastro (*).

Insomma questo per dire che il rapporto degli italiani con i giudici è governato dalla sfiducia (**). Si considerano i magistrati – regalino politico di Berlusconi, ma non solo... – come un partito di sinistra. Curiosamente, durante il fascismo si scorgeva nel giudice un alleato del potere, dopo di che, soprattutto all’indomani del Sessantotto, una specie di contropotere.

Il che conduce direttamente al “si candidino” evocato da Giorgia Meloni, militante di un partito, il Movimento Sociale, che ha sempre visto nei giudici, anticipando il Cavaliere,  dei persecutori di sinistra, se non addirittura, come si legge tuttora sul “Secolo d’Italia”, fiancheggiatori dell'  "eversione rossa".

Il combinato disposto tra il complottismo della destra e la sfiducia della gente comune spiega perché il tassista si trovi in perfetta sintonia con l’analfabetismo istituzionale di Giorgia Meloni ( e viceversa), di derivazione antiliberale, quindi nemico dello stato di diritto e della divisione dei poteri. Per il “popolo” il liberalismo è tuttora un lusso. E Giorgia Meloni, “facilita” l'idea che la giustizia  non debba mai essere neutrale, indipendente, autonoma (si scelga il termine che più piace) come nello stato liberale,  ma di partito. Cioè attacca un'idea regolativa.  All'insegna di una specie di panpartitismo getta via il bambino liberale con l'acqua sporca dei burocratismi, degli errori, e magari anche dei casi di corruzione. 

E con il tassista concordano tanti altri elettori della Meloni. Non ci si rende conto che il “partito dei giudici” è un' invenzione della destra per favorire la vittimizzazione politica che porta voti. E asservire il sistema giudiziario ai voleri del governo. Come durante il fascismo.   

Si noti, come in questi giorni, per evitare di essere messa con le spalle al muro, per aver favorito la fuga di un torturatore di migranti, Giorgia Meloni ha pilotato la discussione, senza che l’opposizione se ne accorgesse più di tanto, sul “partito” dei giudici. Che, come asserisce, da analfabeta istituzionale, proprio perché partito, deve sottoporsi al voto del popolo.

Si dirà che è solo un battuta polemica. Bah… La cultura della destra è per Dna contraria allo stato di diritto. Dietro il  "si candidino" c'è una visione del mondo. E comunque sia, si tratta di una colossale presa in giro dell’elettore.

Nel 1992-1993, il Movimento Sociale, di cui allora la Meloni era militante, difese i giudici milanesi, perché, si diceva, che erano dalla parte del popolo. All’epoca si trattava di distruggere l’odiato sistema dei partiti. Oggi è sotto tiro quello giudiziario, tramutato in nemico del popolo, perché disturba gli stessi manovratori che trent'anni fa, come si diceva,   dovevano invece essere  messi in prigione, evocando addirittura la presunzione di colpevolezza per ogni uomo politico appena chiacchierato.

Ecco, pensando a quel tassista, sarebbe bello, oltre che utile, che il “popolo” capisse che Giorgia Meloni lo mena per il naso.

Però la vediamo dura.

Carlo Gambescia

(*) Sullo stato della giustizia in Italia rinviamo al Report annuale del World Justice Projet – Rule of Law index. La “culla del diritto” è al 32 posto (su 142), Costarica, Malta e Cipro sono prima dell’Italia: https://worldjusticeproject.org/rule-of-law-index/global .

(**) Si veda qui (2021, p. 3): https://www.istat.it/it/files/2022/05/Fiducia-cittadini-istituzioni2021.pdf. In pratica un italiano su due non si fida della magistratura.

Pubblicato da Carlo Gambescia alle 08:43 2 commenti:
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giovedì 30 gennaio 2025

Giorgia Meloni, il caso Almasri e la tentazione fascista

 


Se la si mette sul piano giuridico i reati di favoreggiamento e peculato dei quali Giorgia Meloni è accusata sono difficilmente configurabili. La responsabilità della premier diventa di difficile dimostrazione perché il Tribunale dei ministri, cui sono demandati gli accertamenti, deve dimostrare che i due ministri, Nordio e Piantedosi, la avevano avvertita ottenendo il suo assenso (*).

Pertanto la questione prima che giuridica è politica. Non nel senso di una guerra tra potere esecutivo e giudiziario o di un complotto “rosso” contro il governo in carica. Lasciamo perciò da parte il folclore politico.

In realtà la questione è politica nel senso di una pesante eredità ideologica che grava sulle spalle di Giorgia Meloni.

In occasione del Giorno della Memoria, il presidente Mattarella ha giustamente parlato di “tentazione fascista”. Insomma dei rischi insiti in un’ ideologia che non ha mai disdegnato il culto della violenza.

Ne parliamo da tempo anche noi (*). Un personaggio come Almasri rappresenta la quintessenza di una politica come violenza applicata e sistematica nei riguardi di altri esseri umani. Una politica, che può “tentare” chi non abbia una salda cultura liberale. E questo può essere il caso di Fratelli d’Italia e di Giorgia Meloni.

Riteniamo infatti che lo stato liberal-democratico, a prescindere dal colore politico del governo in carica, debba tenersi alla larga dallo stipulare accordi con altri governi che democratici non sono, governi che ricorrono largamente all’uso della violenza.

Certo, non sempre è possibile. E di conseguenza il ricorso alla violenza, o comunque all’uso della forza, non può essere escluso in assoluto. Però, ecco il punto: una cosa è il ricorso limitato all’uso della forza, tra l’altro sottoposto a procedure di garanzia, un’altra la violenza sistematica, perfino teorizzata, come la si pratica in Libia nei riguardi dei migranti, rinchiusi in carcere, torturati e uccisi.

Il governo Meloni, per cultura politica autoritario, non si fa molti scrupoli. Il che spiega la benevolenza mostrata verso Almasri, un alleato che rende importanti “servizi” all’Italia. Il come, non sembra interessare Giorgia Meloni. Che come ha dichiarato, rispolverando un vecchio canto fascista, “tirerà dritto”.

A tale proposito, si è invocato, da parte di osservatori vicini alla destra, il concetto di “Ragion di Stato”. Cioè di priorità politiche che riguardano la sicurezza e la difesa dello stato: priorità che giustificherebbero un’azione giuridicamente illecita dal punto di vista del diritto internazionale e del diritto interno allo stato.

E in cosa consistono la sicurezza e la sopravvivenza dello stato nel caso della liberazione di Almasri? Nella persecuzione dei migranti, opera di un feroce signore della guerra libico…

La priorità della Ragion di Stato, è un concetto ambiguo, perché invoca un pericolo imminente. Si pensi a un paese aggredito da un altro paese. Che, allo scopo di difendersi meglio dalla propaganda nemica, sospenda temporaneamente la libertà di stampa, imprigionando i trasgressori. Ma si pensi anche a un paese che scorge nel migrante un pericoloso aggressore, e che quindi pur di difendersi da un pericolo evocato come imminente lascia mano libera, come è accaduto in Italia, a personaggi come Almasri.

L’ambiguità nasce dal fatto che la Ragion di Stato nel primo caso viene invocata per difendersi da un nemico di fatto, nel secondo evocata per colpire un nemico immaginario.

Immaginario. Parola chiave. Che rinvia alla costruzione ideologica del nemico. Che a sua volta rimanda alla cultura della tentazione fascista, che ha nel razzismo un preciso caposaldo ideologico. Perché tentazione fascista e non fascismo tout court?

Perché una destra normale, diciamo liberale, non autoritaria, favorevole alla libera circolazione di uomini e merci, tiene aperte le frontiere e non ricorre ai servizi degli aguzzini. Per contro, una destra autoritaria, rimane a rischio, perché sempre tentata dal ricorso a giustificazioni-razionalizzazioni di tipo fascista, a cominciare dall’ideologia nazionalista e razzista.

Inoltre tentazione significa che certe idee immonde, con le quali non si sono mai fatti i conti, sono rimaste nell’aria, “serpeggiano” per dirla con Mattarella e Levi, e per l’appunto “tentano”. Insomma, possono sempre essere messe in pratica: ieri con gli ebrei, oggi con i migranti.

Qualcuno penserà, allora i palestinesi? Israele non invoca la Ragion di Stato. Certo. Ma i migranti non bombardano regolarmente la Sicilia.

Si dirà inoltre che l’Olocausto e i suoi carnefici non hanno precedenti. Giusto. Però la tentazione fascista “pesca”, per così dire, nel torbido dell’ odio diffuso verso l’altro. Qualcosa che ingloba e teorizza l’uso politico della violenza a 360 gradi per usare il lessico di Giorgia Meloni.

Pertanto la questione da porre non è giuridica ma politica. Anzi, come detto, di eredità ideologica. Perché non si può asserire che il fascismo fu complice della feroce persecuzione degli ebrei, ad opera ad esempio di un Eichmann, che fu esemplarmente processato e condannato a Gerusalemme, e lasciare che un Almasri torni indisturbato il Libia. Addirittura su un volo di stato.

A fare che cosa? Il bieco carceriere di migranti, che, ripetiamo, non bombardano regolarmente la Sicilia. Non vogliono cancellare l’Italia dalla faccia della terra, ma cercano solo, e giustamente, una vita migliore.

Carlo Gambescia

(*) La vicenda è ben riassunta qui: https://pagellapolitica.it/articoli/errori-giorgia-meloni-almasri .

(**) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/search?q=tentazione+fascista .

Pubblicato da Carlo Gambescia alle 08:35 Nessun commento:
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mercoledì 29 gennaio 2025

Almasri: il governo Meloni rimette in libertà il supercapo degli scafisti

 


Un caso di incultura, diremmo addirittura di crassa ignoranza, prepotenza e violazione delle leggi. Ovviamente parliamo del governo Meloni che ha rimesso in libertà Jeem Osama Elmasry Habish, per tutti “Almasri”, il supercapo degli scafisti, come ora vedremo.

Intanto crassa ignoranza perché? Chiunque conosca la storia della Libia e dei suoi rapporti storici con l’Italia sa benissimo che la violenza ne ha segnato e segna lo sviluppo politico. Parliamo di un conflitto, ora latente ora manifesto, fra clan e clan, tra tribù e tribù, tra clan, tribù e Italia.

Gheddafi non è stato che un capo clan, particolarmente abile e fortunato, che ha governato la Libia per poco più di quarant’anni. La sua caduta, ha solo anticipato, quella che può essere considerata la “normalità libica” della guerra, latente o meno, di tutti contro tutti, che sarebbe comunque esplosa, all’indomani della sua morte, anche per cause naturali. Berberi e arabi – le principali etnie (con i nomadi tuareg,  però di ceppo  berbero) – non sono mai andati d’accordo.

Si legga il Machiavelli nordafricano, Ibn Khaldun, per capire come per i libici (denominazione più geografica che politica) la condizione naturale dell’uomo sia la guerra. Dal momento che appena si mettono buoni, diciamo così, inizia la decadenza politica. Per dirla metapoliticamente, in Libia il momento centrifugo sembra prevalere su quello centripeto. E non da oggi. Ibn Khaldun nella sua Muqaddimah o Introduzione alla storia, scritta sette secoli fa, fissò molto bene questa dinamica della guerra e della pace tribale (*). Detto altrimenti – ecco per ricaduta la lezione di Ibn Khaldun – per queste popolazioni non sarà mai facile accettare lo stato di diritto.

Pertanto se li si asseconda si diventa subito una della tante tribù in lotta. Con conseguenze letali dal punto di vista dei diritti umani. Come è sotto gli occhi di tutti (ovviamente di coloro che vogliono vedere).

Inoltre, ammesso e non concesso che si voglia trarre partito dalle pulviscolari divisioni interne, Gaetano Mosca, uno dei maestri della scienza politica, più di un secolo fa, mise bene in luce la difficoltà di tenere insieme i riottosi clan e tribù. La stessa torma che, munita di un braccio militare, spesso comandato da pseudo generali, comanda soldati e tiranneggia su tratti del territorio libico. Sicché – ecco la lezione di Mosca, l’Italia, ieri come oggi, rischia di non poter mai sapere con precisione a quale capomafia libico (per semplificare) appoggiarsi (**).

Ora, tirando le fila del nostro discorso, Almasri non è altro che un signore della guerra, che comanda su un bel tratto di costa libica. E che quindi, come una specie di supercapo dei famigerati scafisti, ha potere di vita e di morte, sul suo territorio: sugli scafisti, come detto, e sugli indifesi migranti che tentano di attraversare il Mediterraneo: dei poveretti, che per favorire il governo italiano, vengono rinchiusi in carcere, torturati e spesso uccisi.

Ovviamente i favori si pagano, anche bene. Il che spiega la “liberazione” da parte del governo del super capo dei trafficanti di esseri umani: un pluriomicida. Parliamo degli stessi trafficanti che Giorgia Meloni dichiara di voler combattere…

Per contro, la Corte penale europea vuole giustamente processare Almasri. Siamo perciò dinanzi a un atto di prepotenza e di violazione delle leggi da parte del governo italiano.

Giorgia Meloni, trasponendo furbamente (crede lei…) il linguaggio della lotta antimafia, ha dichiarato, come se fosse un commerciante che rifiuta di pagare il pizzo, che non si farà “intimidire” dai magistrati italiani: giudici che invece vogliono solo vederci chiaro.

In realtà di mafioso ce n’è solo uno: Almasri. E Giorgia Meloni lo ha rimesso in libertà. Punto.

Carlo Gambescia

(*) Ibn Khaldun, The Muqaddimah. An Introduction to History, a cura di F. Rosenthal e N.J. Dawood, Routledge and Kegan Paul, 1967. Opera molto apprezzata da Arnold Toynbee. A tutt’oggi non esiste una traduzione italiana.
 

(**) Gaetano Mosca, Discorsi parlamentari, con un saggio di A. Panebianco, il Mulino, 2003, pp. 188-189, 221-235, 271-273.

Pubblicato da Carlo Gambescia alle 08:57 Nessun commento:
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martedì 28 gennaio 2025

Giorno della Memoria. L’antisemitismo purtroppo è vivo e vegeto

 


Di Giorni della Memoria ce ne vorrebbero 365. Gli ebrei continuano a non piacere. “Non piacere” è un eufemismo .

Si pensi solo all’atteggiamento contrariato della pubblica opinione, soprattutto in Europa, sul 7 ottobre. Una nuova Kristallnacht (Notte dei cristalli ), subito insabbiata, per puntare i riflettori soltanto sulla reazione di Israele. Vergognosamente paragonata, come si è letto, al gigantesco pogrom nazista che ebbe luogo in Germania, con un pretesto (l’uccisione a Parigi dell’ambasciatore tedesco da parte di un ebreo polacco), tra il 9 e il 10 novembre 1938.

In realtà, si trattò e si tratta, ieri come oggi, dell’aggressione fisica rivolta contro ebrei inermi. Solo perché ebrei.

Se lo stato di Israele, non fosse armato e deciso, non resisterebbe più di cinque minuti. La muta antisemita – altro che la foglia di fico dell’ antisionismo – tornerebbe a sbranare.

Tra la Shoah e il 7 ottobre c’è una terrificante continuità ideologica, rappresentata dall’odio verso l’ebraismo, sotto qualunque forma: dallo stato di Israele al più innocuo turista .

Esageriamo? Si dia un’occhiata alla reazione dei giornali italiani alle parole di Giorgia Meloni sui fascisti come “complici” della Shoah.

Dichiarazione, oggettivamente importante. Che ovviamente non va sopravvalutata perché il governo Meloni deporta i migranti in Albania, punisce come reato, addirittura universale, la surrogazione di maternità, lascia che i manifestanti vengano picchiati dalla polizia, rivelando quantomeno una pericolosa mentalità autoritaria. Siamo davanti a un governo privo di empatia, come fu la dittatura di Mussolini: non si governa per tutti, ma contro un parte degli italiani. “Patrioti” da una parte, “Anti-italiani” dall’altra. Schema tipicamente veterofascista.

Ora, la cosa singolare, è che la stampa organica alla destra non ha dato particolare rilievo alle dichiarazioni di Giorgia Meloni. Parliamo della stessa stampa che, dei discorsi meloniani, celebra persino le virgole . Ma c’è dell’altro: ad esclusione di “Repubblica” e “Stampa” (che di solito antipatizzano) e dell’ “Unità”, la stampa di sinistra ha nicchiato.

Per inciso: notevole il piccolo capolavoro conformistico del “Corriere della Sera”, che nasconde la Meloni in un sommario, come per Montanelli, quando subì l' attentato brigatista ( corsi e ricorsi, da Piero Ottone a Lucio Fontana, dai Crespi a Cairo).

Per tornare alla sinistra: “Il Fatto quotidiano” addirittura ignora la Meloni. Idem “Domani” e “Manifesto”. “Avvenire”, voce dei cattolici di sinistra, nasconde le sue dichiarazioni a fondo pagina, tecnica del trafiletto… E così via (*).

Perché? E qui torniamo all’ antisemitismo serpeggiante. Abbiamo detto del valore di una identificazione, del resto nei fatti, tra Shoah e 7 ottobre. Bene, anzi male: i sondaggi ci dicono che due terzi degli italiani ritengono Israele colpevole del successivo conflitto. Non doveva reagire. Quindi subire un’altra notte dei cristalli. Il famoso schiaffo ricevuto sull’attenti (**).

Ora, per questi italiani che non hanno imparato nulla e di riflesso per i giornali che sono la punta dell’iceberg antisemita, difendere la Shoah significa difendere Israele. Di qui il silenziamento massmediatico o quasi delle dichiarazioni di Giorgia Meloni.

Per dirla meglio: da una parte la stampa di destra o comunque filogovernativa che teme che la Meloni perda i voti dei non pochi antisemiti, già scossi dal suo atteggiamento, per ora, filo-israeliano (quindi filosemita); dall’altra la stampa di sinistra, quella antisemita, che però non potendo del tutto scoprirsi nasconde la notizia: se la commentasse dovrebbe ammettere un qualche progresso, ma in che cosa? Nel filosemitismo della Meloni, che si scontra con l’antisemitismo di certa sinistra? Un boccone duro da mandare giù.

Al di là di tutto, cioè della stampa che liscia il pelo alla gente (sui social le cose vanno anche peggio), ciò che preoccupa è proprio lo zoccolo duro antisemita, a destra come a sinistra, che prova che purtroppo tra persone cosiddette “normali” l’antisemitismo è tuttora vivo e vegeto.

Carlo Gambescia

(*) Qui per una panoramica: https://www.giornalone.it/#google_vignette .
 

(**) Qui il sondaggio ISPI: https://www.ipsos.com/it-it/guerra-medio-oriente-anno-dopo-sondaggio-ispi-ipsos .

Pubblicato da Carlo Gambescia alle 09:11 Nessun commento:
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lunedì 27 gennaio 2025

Giorgia Meloni, occhio alla iella…

 


Il mondo arabo porta sfortuna ai politici italiani di punta. I più giovani parlerebbero di sfiga…   Qui a Roma di iella. 

Pertanto al posto di Giorgia Meloni che intreccia legami miliardari con gli arabi saremmo più cauti.

Si dirà che Gambescia è impazzito, perché l’astro-politica (per semplificare) è roba da macumbeiro E che, sempre Gambescia, ormai disperato per la destra che impazza vittoriosa in mezzo mondo ricorre alla magia nera metapolitica…

In realtà, per dirla con una figlia della Perfida Albione, Agatha Christie, un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova… E qui ne abbiamo più di tre.

 


Mussolini si eresse addirittura a difensore dell’Islam: la famosa Spada dell’Islam, politicamente in funzione antibritannica, che però il duce non riuscì a mai brandire come capo vittorioso per celebrare la vittoria dell’Asse in Africa. Mussolini finì appeso.

Craxi, grande amico dei palestinesi. Per i quali, nonostante le efferatezze terroristiche, si spese politicamente, omaggiando, non solo a parole, Arafat. Un bel personaggio, per così dire, che girava armato dentro il Palazzo di Vetro dell’Onu. Craxi, per non finire appeso, come il duce, diciamo però giudizialmente, scappò dall’Italia. Morì contumace in Tunisia.


 

Andreotti, altro frequentatore di Arafat, e attento lettore del Libro Verde  di Gheddafi, sebbene più prudente di Craxi e di Mussolini, finì sotto processo per mafia. Diciamo che lo appesero giudizialmente. Risultò infatti una collusione con la mafia fino al 1980. Morì nel suo letto. Da democristiano.

 

 


Berlusconi, trattò Gheddafi in guanti bianchi, addirittura definendolo amico, salvo poi abbandonarlo al suo (meritato) destino. Forse con qualche problemino di coscienza. Il Cavaliere si inventò un piano Marshall, mai attuato per i Palestinesi, inimicandosi però Israele. Infine inutile rievocare i suoi tragicomici rapporti con una pseudo nipotina di Mubarack. Berlusconi però morì, a differenza di Craxi, in un letto di ospedale (di lusso) in Italia.

Sebbene i giudici continuino ancora a indagare su di lui. Se non è iella questa.

 


Nonostante i nefasti  precedenti, evidentemente ignoti ai suoi consiglieri , Giorgia Meloni si è seduta sotto la tenda con Mohammed bin Salman Al Saud,

due volte primo: primo ministro e primo in linea di successione al trono dell’Arabia Saudita. 
 
Una potenza. Peccato che non ami i giornalisti e ritenga che la vita delle donne debba consistere nel lavare, stirare, cucinare e fare un’altra cosa. Insomma un progressista….

“Ma che me frega. Porto a casa dieci miiardi…”. Già conosciamo la risposta di Giorgia Meloni.

Sì, però, occhio a non fare la fine di Mussolini, Craxi, Andreotti, e Berlusconi. E non abbiamo ricordato, quella disgraziatissima di Enrico Mattei, altro grande amico degli arabi, elevato addirittura a mito da Giorgia Meloni. 

 


Solo un’ultima cosa. Guglielmo Ferrero in un libro intervista, sottolineò all’indomani della conquista fascista dell’Etiopia, che l’Italia, ogni volta che stava per entrare in uno stato di perturbazione interna puntava gli occhi sull'altra sponda del Mediterraneo: con Crispi, caduto, e definitivamente, su Adua, dura sconfitta che si può collegare alla “crisi di fine secolo” e alle cannonate sulla folla di Bava Beccaris; il penultimo Giolitti, in Libia, poi “bullizzato” dagli interventisti; Mussolini, che innescò, con la conquista dell’Etiopia, un periodo di sconvolgimenti che condusse alla guerra mondiale e alla sua caduta.

Ferrero, storico e sociologo, la sapeva lunga. Che dire perciò? Non solo astro-politica.




Carlo Gambescia

(*) Bogdan Raditsa, Colloqui con Guglielmo Ferrero, Edizioni Il Foglio, 2022, p. 71.

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domenica 26 gennaio 2025

Mps-Mediobanca. La faccia di bronzo di Giorgia Meloni

 


Per il titolo avremmo voluto usare un’espressione romanesca, ben conosciuta da Giorgia Meloni, che si vanta tanto della sua estrazione popolana, che però un amico avvocato ci ha sconsigliato di impiegare. Accontentato.

Dunque faccia di bronzo di Giorgia Meloni. Si legga qui:

“L’ operazione di Mps su Mediobanca è un’operazione di mercato. Da una parte dobbiamo essere orgogliosi del fatto che Mps, per anni vista dai cittadini e dalla politica solo come un problema da risolvere oggi è una banca perfettamente risanata che anzi avvia operazioni ambiziose. Questo deve renderci tutti orgogliosi per il lavoro fatto. Se l’operazione dovesse andare in porto parliamo della nascita del terzo polo bancario che potrà avere un ruolo importante per la messa in sicurezza dei risparmi degli italiani” (*).

Parlare di “operazione di mercato”, quindi di qualcosa di neutrale, asettico, estraneo alla politica, è affermazione temeraria che denota un atteggiamento da persona sfrontata che non teme di essere sbugiardata. Oppure da persona che conta sul fatto che nessuno avrà il coraggio di chiedere conto delle cose dette. Di qui l’impassibilità. Come una statua di bronzo (**). “Tanto ‘sti scemi se bevono tutto”… Ci sembra quasi di sentirla.

Però basta andare su Wikipedia, cosa semplicissima, per scoprire che il Ministero dell’Economia possiede quasi il 12  per cento delle azioni. E’, come si dice, l’azionista di riferimento.

Perciò di quale mercato parla la Meloni? Per parlare di “operazione di mercato”, lo stato, doveva essere uscito, e da un pezzo, dal capitale di Mps. Cosa, come detto, che non è.

Inoltre altro aspetto fondamentale che poco ha a che vedere con le “operazioni di mercato”, è che Mps capitalizza circa di 8 miliardi di euro mentre Mediobanca viaggia sui 13 abbondanti (anche qui basta andare su Wiki). Si può definire operazione di mercato una banca piccola che compra una banca più grande? Gatta (politica) ci cova.

E per una semplice ragione. Perché chi dovrebbe vigilare, cioè il Ministro dell’ economia, ha dato parere positivo. Si noti la gravità della cosa: l’azionista di riferimento di Mps, lo scalatore, cioè lo stato, dice di sì alla scalata a Mediobanca per bocca di un ministro, che, come detto, dovrebbe vigilare sulla stessa scalata. Cioè controllore e controllato sono la stessa persona.

E questa sarebbe un’ “operazione di mercato”?

Terzo polo bancario nazionale. Roba da ridere. O forse da piangere. Perché in realtà, una volta andata a regime l’operazione, il governo potrà mettere le mani su nomine e operazioni creditizie. Certo, contrattando, con gli altri azionisti. Ma si rifletta: chi avrà il coltello dalla parte del manico? Chi può fare e disfare le leggi o chi le subisce? Come si può intuire la lezione dell’opaco do ut des di Tangentopoli non è servita a nulla. Altro che “terzo polo bancario” che mette “in sicurezza i risparmi degli italiani”, come evoca Giorgia Meloni.

Infine se l’operazione andasse in porto, sul piano del mercato internazionale dei capitali, che è quello vero, dove volano gli schiaffoni, Mps-Mediobanca resterebbe un nano, incapace di competere con gruppi dalle capitalizzazioni stratosferiche nell’ordine delle migliaia di miliardi. Altro che i bruscolini di Mpe e Mediobanca messe insieme.

Ovviamente esistono le facce di bronzo perché c’è sempre qualcuno che consente che esistano. Cioè si permette che la si faccia franca. Anche dove non ci si aspetta di trovare una faccia di bronzo, diciamo, come danno collaterale. 

Ad esempio l’ABI, che vede al vertice, un ex segretario dei giovani liberali, parla di spinta al rafforzamento delle banche. Un professore, già presidente e tuttora membro dell’ultraliberale Istituto Bruno Leoni, sottolinea il giustificato consolidamento del sistema. 

Come disse Alberto Sordi, il tenentino di “Tutti a casa”? “Comandante i tedeschi si sono alleati con gli americani”. Nel film, e storicamente parlando,  non era vero. Solo una battuta per scatenare le risate in sala.  Qui invece è tutto vero: gli amici della libertà economica si sono realmente alleati con i nemici… C' è poco  da ridere.

Infine tace anche la sinistra, perché attraverso la cassaforte Montepaschi, il sistema pubblico-privato, anche in ambito bancario, l’ha beneficata a lungo in passato. Perciò scagli la prima pietra, eccetera, eccetera.

Sicché, corsi e ricorsi, ora tocca alla destra. Che sembra addirittura più affamata. Però, come dicevamo i nonni, chi troppo in alto sale, cade sovente precipitevolissimevolmente.

Concludendo. Capito? “Operazione di mercato”… Che faccia di bronzo.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2025/01/25/meloni-ops-mps-su-mediobanca-e-operazione-di-mercato_61469793-1ebb-491e-beb9-4adba83e1ab4.html .

(**) Alla "legge bronzea" della  Meloni abbiamo dedicato altri articoli. Si veda qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/search?q=Faccia+di+bronzo .

(***)   Sui retroscena, per chi fosse interessato, si legga qui:  https://www.avvenire.it/economia/pagine/mps-mediobanca.

Pubblicato da Carlo Gambescia alle 08:55 Nessun commento:
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sabato 25 gennaio 2025

L’inumanità di Trump ha rotto gli argini. Anche in Italia

 


Cari amici lettori sapete come ci sentiamo oggi? Impotenti. Come dinanzi a certe malattie che non perdonano. Quando il medico ammette che la scienza non può più fare nulla. La nostra scienza non è quella medica, ma metapolitica. E ci sentiamo impotenti, “metapoliticamente” impotenti. Davanti al male.

Ieri, dinanzi all’ atroce foto dei migranti deportati in catene,  pubblicata sul sito della Casa Bianca, abbiamo subito pensato a un fake. E invece?  Tutto vero. Il sito istituzionale, ora nelle mani, di un uomo crudele, innanzitutto privo di umanità, quindi capace di tutto, si vantava della  crudeltà del governo americano.

Un atto infame. Di cui ci si dovrebbe vergognare. Perché  si è  andati  ben oltre i confini dell’umanità, come genere e come misura del rispetto umano. Cadono le braccia. Siamo impotenti dinanzi al male e alla sua inarrestabile banalizzazione. Purtroppo l’inumanità di Trump ha rotto gli argini. Anche in Italia.

Ci spieghiamo meglio.

Oggi in Italia la stampa organica alla destra riprende e rilancia l’infame bravata di Trump, vantandosi a sua volta (*).

Gli altri giornali sorvolano sul fatto, all’insegna del chi tace acconsente. Solo alcuni quotidiani di sinistra criticano la crudeltà di Trump, ma debolmente. Come se intuissero che ormai tutto è inutile. Ma la nota veramente stonata è che giornali, presunti liberali, come “Il Foglio”, l’Opinione”, “La Ragione”, non spendono né un titolo, né una foto, né una parola.

Insomma, il  senso del messaggio è: “Inutile opporsi all’uragano Trump”. Scienza e uomini sono impotenti. La libera stampa ha già capitolato.

Il che porta alla rinascita di un giornalismo di regime ( e non è la solita battuta a effetto) che appoggia in modo compatto un governo di estrema destra, mezzo fascista (per ora), che si riconosce nelle politiche inumane di Trump. Ancora peggio, le celebra. O comunque le rende normali, le banalizza. È così, si fa così, che problema c’è?


Ma al riguardo c’è un altro segnale sconcertante. Tutto italiano che bada al concreto. Ai soldi. L’incredibile assalto a Mediobanca portato da Montepaschi, di cui è azionario il Tesoro. Per capirsi è come se una piccola salumeria, chiacchierata per certi prosciutti andati a male, comprati di contrabbando e intercettati dalla Guardia di Finanza e dal Nucleo antisofisticazioni dei Carabinieri, si proponesse di comprare la catena Carrefour.

E i giornali italiani, ad eccezione del "Domani", cosa dicono? Che è il capitalismo bellezza. Tutto normale. Del resto, si legge, Il Tesoro ( nelle mani di Giorgetti, ministro del governo Meloni, quando si dice il caso…) “ha detto sì”. Allora che problema c’è? Insomma i lettori sono trattati come coglioni (pardon).

Montepaschi con i soldi degli italiani si lancia in un’operazione speculativa, per trasformarsi in cassaforte dei partiti di governo, incamerando gli ingenti fondi di Mediobanca. Per la serie anche la destra “ è padrone di una banca”. Come disse a suo tempo Fassino, intercettato, a proposito della Sinistra sulla scalata di Unipol a Bnl a Antonveneta. Che triste.

Tangentopoli, tra l’altro all’epoca cavallo di battaglia populista del Movimento Sociale, sembra dimenticata. Per inciso: ridicolo il “Secolo d’Italia”, che da sempre celebra la lotta contro l’usura del camerata poeta Ezra Pound. E che invece questa volta rivendica la bontà dell’usura quando praticata dalle banche di stato. 


 

A questo si aggiunga, l’attivismo di Giorgia Meloni, regolarmente celebrato dai mass media (ormai “Donna della Provvidenza”, anzi una nuova “Lady di Ferro”, tanto i morti non si possono difendere…), che vola da Trump, va in Arabia, libera generali criminali e  terroristi, pur di ingraziarsi tiranni e dittatori, e sfasciare, correndo da sola, l’Unione Europea. Che del resto, va riconosciuto continua a fare del suo meglio, per favorire la destra populista. Come non celebrare Giorgia Meloni? È giusto, normale, si fa così… Con una eccezione però: Putin che di farabutti se ne intende non sembra abboccare. Ma questa è un’altra storia.

Dicevamo all’inizio di provare un senso di impotenza dinanzi a un male politico che galoppa.

Si rifletta. Come fermare questa gentaglia giunta al punto di celebrare l’efferatezza? E che considera normalissime le stesse spericolate operazioni finanziarie che hanno portato a Tangentopoli?

Siamo già oltre l’immaginabile. E per giunta potrebbe non finire qui.

Carlo Gambescia

(*) Qui, per la rassegna stampa di oggi: https://www.giornalone.it/
Pubblicato da Carlo Gambescia alle 09:12 Nessun commento:
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venerdì 24 gennaio 2025

Trump nemico del Mondo Libero

 


Davos. La violenta esplosione di rabbia antieuropea di Trump è il primo frutto velenoso del tradimento delle destre nazionaliste. Di che cosa?  Dell’idea liberal-democratica di Europa.

Non che Trump, profeta del neo-isolazionismo, abbia bisogno del consenso di Giorgia Meloni e di altri leader dell’estrema destra. Tuttavia poter contare su una quinta colonna europea, capace di cantare il “mapim mapon” di grette politiche protezioniste Usa,  non è questione da lui giudicata  priva di importanza.

Talvolta la storia provoca dei raccordi pericolosi e imprevisti. Trump, che dovrebbe essere a capo del Mondo Libero, di tradizione liberal-democratica, lo stesso che nel 1945 (sul campo) e nel 1991 (per consunzione) ha battuto nazifascismo e comunismo, cerca, e sembra trovare, la (cattiva) compagnia degli sconfitti: il neofascismo europeo travestito da sovranismo pseudopatriottico, e il panrussismo, più imperialistico di quello sovietico.

Insomma, lo voglia o meno, Trump si comporta da nemico del Mondo Libero.

Si deve sempre tenere conto di una cosa: la crisi europea resta legata sostanzialmente a una percezione anticapitalista e antiliberale del mondo che segna larga parte delle élite di Davos, passate armi e bagagli all’ ecologismo e al welfarismo redistributore (quindi tassatore), per conservare rendite e non profitti.

La venefica alleanza europea tra un capitalismo traditore di se stesso e la sinistra welfarista ha prodotto la reazione nazionalistica degli Stati Uniti e perfezionato l’alleanza tra trumpismo e destre nazionaliste europee.

La spaccatura vede dal un lato la destra nazionalista, che scorge in Trump un alleato antieuropeo, e dall’altro la sinistra alleatasi con quelle che Pareto chiamava le “classi redditiere”, che cedono sul welfare, anche a contenuto ecologista, per mantenere lo status quo di un economia mista stato-capitale a rischio zero, già classicamente teorizzata, come autodistruttiva, da Schumpeter

Come ne può uscire l’Europa? Anzi il Mondo Libero? Difficile dire.

Sul piano ideale andrebbero recuperati i valori liberali, ad esempio mettendo da parte qualsiasi idea di una legislazione contro il libero mercato di tipo ecologista o socialista. Un busto di gesso normativo, come noto, che avversa il più sacro dei diritti individuali: il diritto di proprietà.

A dire il vero Trump non ha tutti i torti sul trattamento che l’Europa riserva alle grandi imprese americane. Però la soluzione non è nel chiudersi a riccio, come egli crede, ma nel ricominciare dall'istituzione  di una grande area di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, prospettata, e poi lasciata cadere, già un quindicina di anni fa (*). Bisogna parlarsi. Gli insulti sono sempre pericolosi. Ogni atto umano ha conseguenze, anche impreviste e perverse, come detto.

Sul piano militare, le cose sono ancora più difficili. Innazittutto andrebbe sostenuta fino in fondo l’Ucraina. Come pure difesa qualsiasi altra nazione aggredita, a cominciare da Israele. Lasciando perdere le distinzioni di lana caprina, tra antisemitismo e antisionismo. Che, quando si dice il caso, accolgono la comune e velenosa idea della distruzione dello stato d’Israele, come pessimo sostitutivo retorico, post hitleriano, della distruzione del popolo ebraico.

Come però? Potenziando la Nato, che al momento è l’unica alternativa militare possibile. Si lasci perdere l’idea dell’ ”Europa fortezza” tipica delle destre di ispirazione fascista che la oppongono, e non casualmente, all’idea di quel Mondo Libero, che ha sconfitto il nazifascismo e comunismo. Dietro l’idea di un esercito europeo, c’è l’affossamento della Nato, e la riproposizione sul piano europeo di una specie di protezionismo militare, che con quello economico, farebbe solo il gioco di Trump.

L’Europa si deve riarmare, e bene, ma dentro la Nato. Solo così può essere conservato, valorizzato e difeso, anche con i denti, lo spirito liberale del 1945, inviso, ovviamente, alle forze politiche che non hanno mai fatto i conti il fascismo e il nazismo. Che, nelle forme politiche estreme, si sentono tuttora vittime di un grave torto politico. Odiano la liberal-democrazia. Sono irrecuperabili.

Va perciò riconosciuto che sulla Nato, Trump non ha tutti i torti: serve un congruo aumento del contributo europeo. Come pure si deve dubitare della sincerità di Trump. Dal momento che il suo appello a mettere mano al portafoglio sembra rivolto più a dividere che a unire l’Europa agli Stati Uniti.

Nonostante la marea del trumpismo e del suoi alleati europei appaia inarrestabile, una forza che si ritenga liberale non può non opporsi allo  scivolamento nello sciovinismo europeista di stampo ecologista e welfarista che auspisca un protezionismo caro ai redditieri di Davos e alla sinistra.

Uno sciovinismo non a caso apprezzato dalle destre nazionaliste, che per ora appoggiano Trump.  Per ora… Perché le stesse destre sarebbero ben felici di trasporre il nazionalismo  sul piano europeo, evocando un supernazionalismo legato all'idea di “Europa fortezza”, proprio  come un tempo si celebrava l'idea  di “Nazione armata”.  E in  che modo? Sostituendo al welfare della sinistra, il warfare, o comunque un furbo concentrato welfare-warfare, per la serie “Mussolini costruì lo stato sociale”…

Una scelta sbagliata, a destra come a sinistra: l’ altra faccia europea della moneta protezionista lanciata in aria da Trump, percettore di rendite, come del resto i suoi satolli amici High Tech.

Trump vuole coltivare il suo giardinetto americano, scagliandosi perfino contro l’Europa. Si illude di poter fare da solo. In realtà, colpire il commercio esterno è come tagliarsi un braccio o una gamba. Ci si automutila. Le protesi costano e non funzionano mai come le parti del corpo originali. Inoltre ci sono parti del corpo che non si possono sostituire. E in ogni caso la qualità della vita peggiora.

Fuor di metafora: i prezzi crescono, la varietà dei beni diminuisce, come pure la qualità, l’economia ristagna o comunque, in assenza di mercati esteri perde slancio, anche sul piano dell' innovazione tecnologica. Diciamo questo solo per accennare ad alcune immediate controindicazioni.

Trump sembra ragionare come i mercantilisti del Seicento che volevano solo esportare senza importare, non concependo, per ingenuità economica, il legame tra i due fattori. All’epoca la principale giustificazione era rappresentata dalla volontà di accumulare oro nelle casse dello stato per ragioni di potenza. Venuta meno, più di un secolo fa, la base aurea dei biglietti in circolazione, tutto questo suona come ridicolo. E, si badi bene, tornare all’oro, sarebbe come dare una mano al neomercantilismo.

Ricapitolando. Il Mondo Libero è uno. E ha visto Europa e Stati Uniti difenderlo insieme. Ogni divisione sarebbe un passo indietro verso il terribile periodo tra le due guerre mondiali, quando nazionalismo e protezionismo ebbero la meglio su pace e libero commercio.

Trump sembra non aver capito la lezione del 1945. Lo voglia o meno, ragiona da nemico del Mondo Libero.

Che l’Europa lo aiuti a ricordare e rinsavire. Sarà difficile? Probabile. Ma si deve tentare, perché opporre nazionalismo a nazionalismo, anche europeo, porta solo a divisioni interne che favoriscono i nemici del Mondo Libero.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2014/05/il-libro-della-settimana-italico.html .

Pubblicato da Carlo Gambescia alle 09:35 Nessun commento:
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giovedì 23 gennaio 2025

Lo spaventapasseri Woke

 


La sinistra non sta vincendo. A leggere i giornali conformisti o esplicitamente di destra sembra invece di sì. 

Il quadro dipinto ha sapore vittimistico: quello di una povera destra perseguitata da una sinistra assetata di sangue.

In realtà, l’elezione di Trump è un altro segnale, e macroscopico, della vittoria di una destra mondiale, fondamentalista, razzista, nazionalista. Una destra monista che odia il pluralismo. Un destra truce che crede in una sola  forma di  diversità:  quella della razza bianca su tutte le altre.

La cosa interessante è che il politicamente corretto e soprattutto il wokismo (semplifichiamo il termine), come accadde per il fascismo, che moltiplicò iscritti e consensi, nel 1921-1922, dopo che il pericoloso rosso dell’occupazione delle fabbriche (1920) era trascorso, è usato come una specie di spaventapasseri, un manichino retorico, messo lì per tenere lontano un pericolo di fatto inesistente.

A dire il vero, la cultura woke ha origini tipicamente americane. Nasce dall’ invito rivolto alla comunità afro-americana a “restare sveglia” (dall’inglese woke, sveglio), pronta a fronteggiare la “tentazione razzista”, che negli Stati Uniti, ha odiose radici culturali. Nel resto del mondo, in particolare in Europa, il wokismo ha rappresentato una forma di difesa contro la “tentazione fascista”. Un terzo filone del wokismo è quello della battaglia contro la discriminazione di genere.

Il wokismo femminista sembra ancora reggere, ma difficile dire, di questi tempi, fino a quando. Per contro il wokismo antirazzista e antifascista pare invece essere in ritirata. L’antifascismo sembra tenere, ma solo come monitoraggio esercitato sull’ universo antisemita, altra pianta velenosa che oggi ha furbamente assunto la denominazione tattica di antisionismo.

Nonostante ciò la destra mondiale continua a evocare il pericolo wokista come un tempo il pericolo rosso. In che modo? Amplificando la pericolosità del fenomeno attraverso l’uso di una terminologia propagandistica adattata al caso: “Politiche Woke”, “Cultura della Cancellazione” e della “Distruzione delle Nazioni”, “Nuovo Puritanesimo” e così via.

Tuttavia l’antiwokismo della destra a differenza dell’anticomunismo combatte un fenomeno che oltre a non possedere lo stesso apparato teorico del marxismo, è privo di quella base geopolitica un tempo rappresentata in particolare dal comunismo sovietico. Che, dove poteva, si imponeva con la forza della armi senza fare tanti complimenti.

Il wokismo è solo un fenomeno culturale, al massimo sociale. Che può anche essere criticato, per certi eccessi. Diciamo pure che fa parte del “pacchetto welfarista”, Ma, ciò che conta alla fine, è che non si tratta dell’armata rossa, come invece evoca, con toni apocalittici, la destra.

Si pensi solo a una cosa: i carri armati russi radevano al suolo i governi liberal-democratici, mentre le “divisioni” wokiste, che Stalin avrebbe irriso come quelle di Pio XII, non hanno impedito a Trump e ad altri leader di destra, come Giorgia Meloni, ad esempio, di vincere le elezioni.

Per capirsi: se per sconfiggere il comunismo sovietico sono serviti quasi ottant’anni, per il wokismo diffusosi all’inizio del XXI secolo, la destra ha impiegato poco più di dieci anni, massimo venti. Si prenda come punto di arrivo di una reazione politica il primo mandato di Trump (2017-2021). Mentre per l’Europa l'inizio del secondo lungo mandato del leader ungherese Orbán (2010-…).

Perciò,  ripetiamo, si tratta di uno spaventapasseri retorico usato per conquistare voti, come accade per il pericolo rosso, che però, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, come detto,  aveva alle spalle  la potenza della  Russia sovietica. Decisamente superiore a quella  della nazione impoverita uscita nel 1921-1922 dalla guerra civile.

Esiste una famosa legge sociologica, che asserisce (semplifichiamo) che un pericolo diventa reale, quando gli uomini credono che sia reale.

E su questo sembra oggi giocare la destra mondiale.

Carlo Gambescia

Pubblicato da Carlo Gambescia alle 09:08 Nessun commento:
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mercoledì 22 gennaio 2025

Il ritorno del maestro di palazzo. Alle origini della tecnodestra

 


Parlare di tecnodestra, a proposito del “mix” ideologico Trump-Musk, non è sbagliato. Però bisogna affrontare il tema evitando ricadute di tipo populista.

Partiamo perciò da una grande questione che non può essere ignorata: la crescente separazione tra economia e politica. Tra stato e mercato: due sfere dai tempi diversi. Tempistiche diverse diciamo. Ecco il punto fondamentale da analizzare.

I tempi dei mercati si sono sempre fatti più veloci, diciamo da XXI secolo, mentre quelli della politica rispondono a meccanismi che risalgono al XIX.

Ad esempio, insistere sull’interventismo dello stato, particolarmente sviluppatosi nel XX secolo, significa continuare ad affidarsi a burocrazie lente, legate al formalismo giuridico, incapaci di raccordarsi con la realtà economica digitalizzata di mercati: continente emersi di ricchezza che in pochi istanti spostano da una tasca all’altra miliardi.

Per capirsi: una legge per essere elaborata richiede mesi, addirittura anni per l’ implementazione; per contro una grande impresa può essere comprata e venduta digitando sulla tastiera il codice di un conto bancario.

Pertanto, sotto l’aspetto delle misure temporali governi e parlamenti sembrano risultare obsoleti rispetto ai mercati.

Questo fenomeno è collegato a due altri fenomeni: 1) l’insoddisfazione delle imprese high tech (dell’alta tecnologia) per una politica elefantiaca nei suoi tratti principali; 2) l’insofferenza della gente comune per strutture politiche e sociali incapaci di rispondere ai cittadini in tempi brevi.

L’idea di base, che dobbiano capire, e non si tratta di una narrazione qualsiasi, è quella di un mondo sempre più veloce in grado di fornire servizi in modo istantaneo. La dimensione temporale è divenuta sempre più importante. Diremmo addirittura centrale.

Perciò non parleremmo di una “economicizzazione” del mondo e neppure di una sua “tecnologizzazione”. Siamo invece davanti alla “velocizzazione” del mondo. Alla sua accelerazione. Semplificando: la tecnologia, in sé neutrale, ha dato una mano alla filosofia del tutto e subito. Quindi parliamo di un fatto culturale. E per giunta di massa.

Il nostro mondo occidentale, che come sistema di mentalità, va comunque estendendosi a tutto il globo, sembra essersi tramutato in un mondo di clienti schizzinosi, incontentabili, pignoli. Per dirla in altro modo: si esigono diritti pubblici al ritmo dei diritti privati. Lo stato welfarizzato ha creato aspettative che non possono essere soddisfatte in tempi brevi (se mai lo saranno…). E quanto più lo stato si welfarizza tanto più aumenta la distanza, in termini di ritmi, delle istituzioni pubbliche dalle istituzioni di mercato.

Sotto il profilo politico, destra e sinistra hanno creduto di poter intercettare e rispondere alla crescente insofferenza della gente comune digitalizzando lo stato (cioè le sue istituzioni). Quindi, per dirla brutalmente, favorendo la propria autodistruzione in termini di incontenibile crescita delle aspettative, che un digitale  pubblico, sottoposto allo stessto ritualismo burocratico della pubblica ammnistrazione, non potrà mai soddisfare. Anche per ragioni di autofinanziamento fiscale.

Per contro, il mondo dell’high tech, per un verso ha favorito  il processo di digitalizzaizone del pubblico perché costitutivo di posizioni di rendita, per l’altro ha scorto la possibilità di impadronirsi dello stato stesso, alla stregua dei maestri di palazzo. Cominciando da apparentemente modesti incarichi governativi.

Un fenomeno che non riguarda solo il declino della dinastia Merovingia, ma riguarda la fase in cui un potere centrale incomincia a disgregarsi (forze centrifughe), quasi costringendo il maestro palazzo a fare appello all’unità (forze centripete). Maestro di palazzo che può essere un ministro, un generale, visir, shogun, avventuriero, plutocrate, e così via fino ai moderni imprenditori dell’high tech.

La cosiddetta tecnodestra, rappresentata, come spesso si legge, da Elon Musk (Tesla), Jeff Bezos (Amazon), Mark Zuckerberg (Meta), Dara Khosrowshahi (Uber), Sam Altman (OpenAi), Tim Cook (Apple), presente in forze alla cerimonia di insediamento di Trump, dopo aver finanziato la sua campagna elettorale, non è altro che la personificazione – in particolare Elon Musk – di un gruppo di aspiranti maestri di palazzo.

Un gruppo di tecnocrati, che ovviamente, poiché non siamo nella Francia dei Merovingi, giustificano la propria scalata al potere – se si vuole razionalizzano – evocando ideologie elitarie e parafasciste,  dal momento che questo offre oggi  il mercato estremista delle idee.

Ideologie particolarmente adatte all’uso perché privilegiano la decisione rapida rispetto alle lentezze procedurali del liberalismo. Per inciso, la decisione del governo Meloni di affidarsi per la sicurezza a digitale a Musk assume valore emblematico, a prescindere dal fatto che sia Musk o altro personaggio high tech ad assumere il compito.

Di conseguenza, per tornare allo scenario americano (ma il fenomeno ha natura metapolitica, universale), l’ evoluzione politica del maestro di palazzo è legata alle capacità di resistenza di Trump e di quella che potrebbe essere definita destra identitaria, reazionaria, che non ha un buon rapporto con la tecnologia e con l’economia.

Fermo restando che il conflitto di fondo è tra il decisionismo centripeto della tecnodestra e la titubanza centrifuga del liberalismo.

Sotto questo aspetto, per tornare agli Stati Uniti di Trump, l’isolazionismo, come teoria che però ammette l’allargamento dei confini vicini (Canada, Groenlandia, Panama), come misura per accrescere la sicurezza del paese contro ogni forza centrifuga, calza a pennello alla “tecno” perché concilia, quantomeno temporaneamente, la sua ricerca di rendite politiche con il nazionalismo centripeto della “destra” identitaria.

Insomma, per dirla in termini metapolitici, nulla di nuovo sotto il sole. Tranne, cosa che particolarmente duole, la crisi di un  liberalismo che non sembra essere al passo con i tempi.

Siamo però sicuri che sia così? Che in realtà siano i tempi a non essere al passo con il liberalismo? Cioè che le regole procedurali, come salvaguardia delle libertà individuali, impongano tempi propri, quindi da preservare a prescindere dalla “velocizzazione” del mondo?

Carlo Gambescia

Pubblicato da Carlo Gambescia alle 09:27 Nessun commento:
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martedì 21 gennaio 2025

Trump non è pazzo (come dice la sinistra)

 


Ieri pomeriggio abbiamo seguito in diretta su CNBC l’ insediamento di Donald Trump. Due cose ci hanno colpito: 1) la durezza del suo linguaggio, che se si concretizzerà in decisioni effettive, per l’Europa e per un’Italia di nuovo “repubblichina” la situazione politica ed economica (crisi della Nato e dazi) si farà molto dura politicamente ed economicamente; 2) la presenza di Giorgia Meloni, unico leader europeo (per una cerimonia di regola da ambasciatori), che, sebbene Cerasa sul “ Foglio” di oggi, fin troppo generosamente, definisca “riformista”, in realtà non è meno dura e cospirativa di Trump verso la liberal-democrazia.

Italia “repubblichina”, dicevamo. Nel senso di Salò, come Repubblica fantasma tributaria di Hitler. Un acuto storico, Deakin, definì l’alleanza tra il duce e il führer, “brutal friendship”: un’amicizia brutale. La stessa cosa si può dire del legame tra due personaggi – inutile nascondersi dietro gli eufemismi – potenzialmente capaci di atti di brutalità.

Donald Trump ha parlato, senza battere ciglio, di deportazione dei migranti e Giorgia Meloni ha applaudito. Era vicina a Milei, in fondo, dietro il podio, tutti e due in abito scuro, poco visibili, quasi anonimi.  Nella nostra foto di copertina si vede in alto a destra solo Milei, tutto basette, che molti considerano un liberale per caso. Quasi due imbucati. Alleati di serie B, come Mussolini con Hitler.

 


 

Abbiamo citato Hitler. Bene, quella che viene definita la follia di Trump, termine che ricorre soprattutto a sinistra, una sinistra meno lucida… Al riguardo ci si consenta però un inciso.

Sansonetti, sull’ “Unità” di oggi, collega addirittura Trump a Reagan, un mezzo fascista a un liberale. Perché il secondo avrebbe iniziato quella guerra all’eguaglianza sostanziale, che Trump ora vuole portare a termine. Sansonetti, da comunista in fondo mai pentito, ancora non ha capito che più si persegue l’eguaglianza sostanziale più si estende il ruolo dello stato. Lo stato è il problema non la soluzione.

Dicevamo della follia di Trump. In realtà, oltre che carismatico, come scrivevamo ieri (*), ciò che la disastrata sinistra chiama follia non è altro che imprevedibilità, come per Hitler, che ne fu maestro indiscusso.

Ieri Trump, lo stesso politico che vuole Panama, Canada e Groenlandia, si è dichiarato uomo di pace e unificatore… Certo, con un occhio all’ America settentrionale e centrale… Proprio come Hitler, che con mosse a sorpresa, imprevedibili, si riprese la Saar, rimilitarizzò la Renania, inglobò l’Austria, smembrò la Cecoslovacchia, evocando ogni volta la sua buona fede e soprattutto la sua volontà di pace. E i paesi liberal-democratici  si illusero fino all’invasione della Polonia. Troppo tardi.

Possibile, si diceva negli ambienti pacifisti europei di allora, che dopo il macello della “Grande Guerra” Hitler ne volesse scatenare un’altra? Inoltre, non pochi politici conservatori, anticomunisti, vedevano erroneamente nella Germania nazista, una barriera contro la Russia sovietica.


 

Trump – ecco il vero problema – usa un linguaggio così duro, così lontano dal registro politico liberal-democratico, che può farlo sembrare pazzo. In realtà Trump è imprevedibile, perché, alterna parole di pace a parole di guerra. E in questo senso è machiavellico.

Ad esempio, Trump dichiara di puntare alla pace tra ucraini e russi , come tra israeliani e palestinesi, però pretende il canale di Panama, anche ricorrrendo all’uso della forza. Si dirà che anche in passato altri presidenti… Però ora c’è una novità: Trump dice che vuole difenderlo dai cinesi, proprio come Hitler, voleva difendersi dall’ influenza economica di cechi e polacchi… La sua è una politica di potenza, per ora sul piano continentale. Per ora.

La menzogna, come machiavellico gioco tra le due parti dell’essere e dell’apparire, svolge un ruolo fondamentale nella retorica dell’intransigenza di Trump, dal momento che sembra difficile che i cinesi arrivino fino al punto di annettersi Panama.

Eppure, grazie alla retorica anticinese, ci sono tanti americani che credono alle parole di trump e lo votano in nome di un rigido e cieco isolazionismo popolare. Gli stessi americani probabilmente prontissimi a immolarsi, andando in guerra, per evitare una nuova Pearl Harbour.

Inoltre, ciò che i liberali italiani, in particolare coloro che hanno sposato la causa di Trump (e di Giorgia Meloni), non capiscono, o non vogliono capire, è che il nuovo presidente americano è un protezionista. Cioè un capitalista di stato, più vicino al modello cinese che a quello liberale. Un capitalismo parassitario che vuole vivere di rendita e rifiuta il rischio capitalistico legato alla ricerca del profitto.

Il capitalismo di Trump, come provano i suoi buoni rapporti – e ieri erano tutti al suo fianco – con Musk e Zuckerberg e altri magnati – è il capitalismo delle commesse di stato, per semplificare. Pareto nelle sue “Cronache”, scrisse pagine definitive su questo fenomeno, che ha sempre distinto un capitalismo da “buen retiro”: Si cresce fino a un certo punto, poi ci si stabilizza e ci si appoggia allo stato. Qui arriva il Trump di turno, che proprio come Hitler, privilegia la domanda interna. Si chiama anche autarchia. Hitler riempì la Germania di autostrade, Trump ne vuole costruire una per andare su Marte.

Sotto quest’ultimo aspetto, può darsi che Trump, concentrandosi sulla politica interna e sull’unificazione “continentale”, trascuri il resto del mondo. Che però a quel punto, a partire dall’Europa, rischierebbe di finire sotto il tallone russo o cinese. Soprattutto negli anni Trenta del Novecento, come gli storici ben sanno, l’isolazionismo americano, acuito dalla crisi economica mondiale, che favorì la proliferazione dei nazionalismi, lasciò mano libera in Europa a Hitler. Ovviamente nel caso di Trump resta aperta la questione medio-orientale. Problema che Hitler non ebbe. Comunque mai dire mai.

Ricapitolando. Trump non è pazzo, è un politico carismatico, imprevedibile, machiavellico, che ha definitivamente sdoganato, dopo ottant’anni, l’immaginario politico della “tentazione fascista”: autarchia, politica di potenza, razzismo.

Su quest’ultimo aspetto, Quando Trump parla, come ieri, di nuova età dell’oro si riferisce ai bianchi, al vecchio tronco, spocchiosamente Wasp.

Nel gruppo familiare e dirigente che lo affiancava sul podio, non c’era un nero, a parte l' ex presidente Obama. Senza Michelle. Che di Trump ha capito tutto, e da un pezzo. Brava.

Carlo Gambescia

 

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/01/springtime-for-trump.html .

Pubblicato da Carlo Gambescia alle 09:51 Nessun commento:
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lunedì 20 gennaio 2025

Springtime for Trump…

 


Insediamento di Trump. Che c’entra il vecchio film di Mel Brooks, “The Producers”? Titolo ingannevole? Anche perché a Washington fa un freddo cane...

Il lettore deve avere pazienza. Come nostro solito la prendiamo da lontano.

Esiste il cosiddetto realista politico a breve per il quale la sopravvivenza politica è tutto.

Andreotti apparteneva a questa tipologia. Altrimenti, lui uomo di destra, non avrebbe ma accettato di governare nel lontano 1976-1978 con l’astensione dei comunisti. Per capire la differenza, Moro vedeva invece nel compromesso storico, da buon realista di lungo periodo, un progetto di trasformazione del partito comunista in forza riformista e socialdemocratica. Andreotti, realista a breve, un escamotage.

Per usare un linguaggio in parte teologico-politico, il realista a breve crede nella possibilità di addomesticare il male (Andreotti). Per contro il realista a lungo termine ritiene invece di poter convertire il male in bene ( Moro). Vinse Andreotti e il partito comunista continuò a sentirsi dalla parte giusta della storia. Quella non socialdemocratica. E ancora oggi il riformismo della sinistra stenta a decollare.

Altro esempio storico, i liberali italiani e lo stato maggiore tedesco erano convinti di potere addomesticare fascisti e nazisti. Così non fu.

E oggi in che cosa sperano i realisti a breve? Di addomesticare Trump. Si crede, che una volta al potere, Trump verrà a patti con la realtà della politica di ogni giorno, lasciandosi dolcemente cullare dalla dinamica degli interessi acquisiti.

Può essere. Però, ecco il punto, le aspettative della destra profonda americana, anche sociali e popolari, come pure della destra internazionale, depongono contro questa ipotesi. Come prova la presenza in massa dei principali leader della estrema destra mondiale alla cerimonia di insediamento. Un mondo politico dalle idee confuse, che mette insieme, neonazisti, nostalgici del fascismo, pseudo liberali autoritari, tutti uniti nell’odio verso il sistema liberal-democratico.

Cosa intendiamo dire? Che in un mondo nel quale trionfa l’estremismo politico non sarà facile arrestarsi o fare marcia indietro, per chi, come Trump, ha promesso addirittura di riprendersi Groenlandia e Canada. Oltre che di elevare una gigantesca barriera protettiva, economica e sociale, intorno agli Stati Uniti.

A questo proposito, Trump è un realista a breve o lungo termine? Diciamo che non è classificabile. Se di realismo si tratta, il suo potrebbe essere di tipo criminogeno, a prescindere dalle intenzioni, buone o cattive che siano. Un realismo, diciamo, dagli effetti disastrosi per la libertà di tutti.

Il neopresidente americano appartiene alla categoria degli uomini politici carismatici. I più pericolosi. Si pensi a Mussolini, Hitler, Stalin, per limitarsi al Novecento.

Trump fa sentire importanti i suoi interlocutori (militanti, simpatizzanti, elettori): il leader carismatico impone le mani sul capo dei suoi elettori. Dimostra una sicurezza di sé, che si tramuta in magnetica energia positiva che trasmette – qui la metaforica imposizione delle mani – ai suoi seguaci. Il che significa che il leader carismatico, una volta stregati i suoi elettori, utilizza il realismo a breve o lungo termine, come un mezzo per perseguire scopi non sempre politicamente ortodossi. Qui la natura criminogena legata alla possibile spietatezza mezzi. Legata a certo godimento nel commettere il male, tipica del realismo criminogeno. Sul punto riviamo al nostro Il grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico (Edizioni Il Foglio).

Il leader carismatico in politica è molto pericoloso. Destabilizza. E non è controllabile, dal momento che il suo carisma, proprio perché tale, per fortificarsi ( quindi durare), deve mantenere elevatissima negli “adepti” (diciamo così) la tensione politica. Di qui l’estremismo politico.

Ovviamente, anche il potere carismatico nel tempo tende a trasformarsi in routine. Ma – appunto – occorre tempo. Si pensi ai danni causati da Hitler in appena sei anni di potere (dal 1933 al 1939). Perciò nel caso di Trump, quattro anni sono più che sufficienti per destabilizzare l’intera politica mondiale.

Questo per dire che la routinizzazione ha una tempistica generazionale, che si propone ad esempio quando si confrontano le due generazioni dei “padri” e “figli” delle rivoluzioni. Da una parte i maturi depositari del valori eroici e guerrieri, dall’altra giovani che ancora non sanno bene quel che vogliono.

Alcuni osservatori sostengono, che trattandosi di un uomo di quasi ottant’anni, Trump non disporrà di grandi energie, eccetera. In realtà, una decisione dannosa, può essere presa in pochi minuti e senza grandi sforzi. Inoltre il leader carismatico, tende a identificarsi con il mondo che lo circonda, puntando sulla terribile logica egolatrica del muoia Sansone con tutti i Filistei. Si ricordi il maledicente Hitler chiuso nel Bunker.

Altri osservatori ritengono che l’anima capitalista e mercantile di Trump prevarrà. In realtà, come provano le biografie, Trump è un personaggio televisivo, che ama colpi di scena, ascolti elevati e tanti applausi. Una specie in influencer politicizzato. L’”imprenditore” Trump, se così si può dire, si è limitato a mettere il suo nome, o brand mediatico-pubblicitario, su case che non ha costruito lui. Il suo è un capitalismo che vive di rendita non di profitti. Un capitalismo che non ama il rischio, un capitalismo parassitario che si appoggia o si impadronisce del potere politico. Un non capitalismo.

Perciò politicamente parlando Trump è una mina vagante.

Ed eccoci finalmente al titolo. Si pensi allo scrittore neonazista, in “The Producers”, che vede finalmente rappresentata la sua commedia musicale su Hitler. Seduto tra gli spettatori non sta nella pelle.

E probabilmente, sebbene per la seconda volta, anche Trump sta vivendo un momento di grande frenesia, con i suoi corifei internazionali, a partire da Giorgia Meloni, minivalchiria: “Springtime for Trump and United States/ America is happy and gay/ We’re marching to a faster pace…”.

L' ego  carismatico  di Trump sta esplodendo.

Però come detto a Washington fa freddo. Inoltre il film di Mel Brooks era molto divertente. Rivedendolo oggi si ride ancora a crepapelle.

E quello di Trump come sarà? Si  riderà  o si piangerà?

Carlo Gambescia

Pubblicato da Carlo Gambescia alle 09:48 Nessun commento:
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Purtroppo, senza "metapolitica" ("metapolitics") si finisce sempre per fare cattiva "politica" (“politics”). Di qui l'importanza di una"metapolitica" capace di ricondurre il "particolare" (quel che accade) all' "universale" (le costanti sociali).

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In Giappone si parla di me (e dei miei lavori su Sorokin). Spero bene...

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