Il professor Nino Arrigo mi ha chiesto ieri, tra il serio e il faceto, un parere sul programma di Azione-Italia Viva (*). Eccolo accontentato. Magari velocemente. Forse troppo.
Diciamo subito che il documento si muove nell’alveo di una specie di blairismo a scoppio ritardato. Anche Calenda e Renzi collegano merito e protezione sociale: “io ti aiuto se tu ti aiuti”.
Capacità e uguali opportunità. Basta con gli aiuti a pioggia. Grande fede nel potere della formazione lavorativa e professionale, che rinvia alla taumaturgia educativa, antico cavallo di battaglia del riformismo liberalsocialista.
Però, rispetto alle smaliziate politiche di Blair, si può notare un passo indietro sulle privatizzazioni o comunque su una gestione energica del pubblico, riposta sulla crescita dell’economia privata. C’è un solo accenno alla questione Alitalia (ATI) e ILVA Taranto: però, però per quest'ultima, si parla di “ri-privitazzazione” nel rispetto di lavoratori e ambiente (p. 5). Amen. Solito catechismo social-ecologico. Interessante invece l’idea di aprire il settore idrico ai capitali privati, perché, come statisticamente provato, investono di più (p. 11, punto 2).
Per il resto, nelle 54 pagine del programma (il più lungo tra i “magnifici quattro”), dal punto di vista lessicografico, non si trova il termine “libero mercato”. Mentre la parola “privatizzazione” è usata una sola volta a proposito di Alitalia (ATI). Per contro il termine “pressione fiscale” è impiegato quattro volte sempre in chiave lenitiva. Pochino.
L’esperienza del Governo Draghi ( citato otto volte) e il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (citato quattro volte, due come Piano Nazionale), sono i cardini economici intorno ai quali ruota il programma:
«Partendo dal punto di riferimento fondamentale: l’attuazione “senza se e senza ma” del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che non è solo il più ambizioso programma di modernizzazione che il nostro Paese abbia mai visto, ma è anche l’occasione – se ben gestito – di far avanzare l’integrazione europea lungo le dimensioni che sono necessarie per rendere l’Europa la protagonista di questo secolo» (p.2).
Una cosa, del programma, va onestamente riconosciuta e apprezzata: l’analisi del declino italiano.
«L’Italia è un Paese le cui energie sono da troppo tempo represse e soffocate da ideologie di tutti i tipi e dalla mancanza di meritocrazia e pari opportunità. I problemi che hanno frenato il nostro sviluppo non derivano né dall’insufficiente presenza dello Stato, né dall’ingresso nella Moneta Unica, come invece sembrano pensare conservatori, sovranisti e populisti di ogni specie.
Negli Anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso, sfruttando energia e voglia di fare di una generazione che si è impegnata lavorando per ricostruire un paese distrutto dalla guerra, siamo passati da essere un Paese essenzialmente agricolo a uno dei più importanti del mondo.
Poi, negli anni ‘70, abbiamo fallito la sfida successiva: quella di investire i dividendi di quella crescita impetuosa e di adottare riforme strutturali per mettere le basi di uno sviluppo duraturo, in un contesto internazionale profondamente mutato a causa delle crisi petrolifere e dell’instabilità monetaria. E allora siamo andati avanti con inflazione, svalutazione e debito pubblico. False soluzioni di breve periodo che mettevano sotto il tappeto i problemi strutturali che si accumulavano. Negli anni ‘90, l’ingresso nell’Unione Monetaria Europea ci ha impedito l’utilizzo di queste misure per “tirare a campare”, e allora la polvere è venuta fuori dal tappeto.
Così negli ultimi 30 anni la produttività totale dei fattori (la misura di “quanto bene funziona la nostra economia”) è rimasta sostanzialmente ferma, e così anche il reddito pro-capite e i salari reali. Le ragioni sono chiare: dapprima conservatorismi e poi i populismi (di destra e di sinistra) hanno impedito all’Italia di realizzare quelle riforme profonde che erano necessarie per rilanciare la crescita e sfruttare le opportunità della globalizzazione» (p.2).
Però la ricetta per uscirne fuori resta ingabbiata, come detto, in una specie di blairismo di seconda mano: non si ha il coraggio di dare un taglio netto all’assistenzialismo palla al piede dell’Italia. Quindi ci si balocca, come prova la parte dedicata al “Mezzogiorno” (parola usata sedici volte), con l’ Agenzia per la Coesione. Che, per dirla fuori dai denti, non andrebbe trasformata in Agenzia per lo Sviluppo, come si legge, ma cassata (p.6).
Sempre dal punto di vista economico va rilevata una contraddizione tra le giuste critiche alla dimensione microscopica delle imprese italiane e la necessità, condivisibile, di fare ricerca per crescere (p. 4). Ora, sono proprio le microdimensioni a penalizzare l’innovazione in laboratorio. Finanziare i “piccoli” perché facciano ricerca, significa semplicemente alimentare la fabbrica delle illusioni. Si può fare ricerca solo a livello di macroimprese, cioè, una piccola impresa o produce o fa ricerca, tertium non datur. Ovviamente, in un regime di socialismo di stato la ricerca è opera dei poteri pubblici. Però, se le cose stanno così anche in Italia, lo si dica apertamente.
Quanto alle altre parti del programma, che tocca tutti i punti dolenti della situazione italiana – dalla riforma della magistratura alla riforma istituzionale, dalla questione immigrazione alla storia infinita dei rifiuti e del riciclo (il termine, di derivazione ecologista, “economia circolare”, è usato sette volte, “transizione ecologica” sei…) – si dicono cose di buon senso, condivisibili, spesso però in modo superficiale. Solo per ricordarne una: si propone “l’elezione diretta da parte dei cittadini del Presidente del Consiglio sul modello dei sindaci delle città più grandi” (pp. 52-53), il “Sindaco d’Italia”, però non si parla dei suoi poteri.
Infine, per venire alla politica estera, la parola Stati Uniti è pronunciata una sola volta. Né sono rintracciabili i termini “Alleanza”, “Comunità Atlantica”, “Atlantismo”. La parola NATO è usata una sola volta. “Europa”, quattordici volte, “Russia” mai, “gas russo”, tre volte. Il termine “Occidente” è fuori dai radar.
In conclusione un documento, non ideologico, non aggressivo, non manicheo o razzista. Si nota molto buon senso, però siamo fermi a Blair. Si tratta, senza offesa per nessuno, di un programma elettorale di seconda mano.
Fin qui l’analista. Quanto all’elettore, penso che mi turerò il naso, perché nel documento di liberale soprattutto dal punto di vista economico non vi è molto, e voterò Calenda e Renzi.
Carlo Gambescia
(*) Qui: https://st.ilfattoquotidiano.it/wp-content/uploads/2022/08/18/Programma_Azione-ItaliaViva2022.pdf .