venerdì 10 marzo 2017

Ok del Senato. Arriva il reddito di inclusione
La povertà e i suoi amici



Fonte foto:    http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2017-03-07/delega-anti-povertapiu-professionisti-settore-servizi-sociali-145744.shtml?uuid=AEPp1Tj,


E' in arrivo l' ennesimo provvedimento "per contrastare la povertà". Il Senato ha dato via libera, per un certo numero di famiglie al di sotto della soglia  di povertà assoluta,  al reddito di inclusione  (Rei). Inutile insistere sui particolari, che il lettore potrà scoprire da solo (*).
Il punto concettuale è che oggi  la povertà  è diventata  una risorsa politica e un’idea forza, cavalcata dai partiti di sinistra, in particolare dai post-comunisti, pentiti o meno.   Ma non solo. La stessa destra, sulla scia di Papa Francesco (che però fa il suo mestiere),  si erge a protettrice “degli ultimi”.  Per non parlare dei populisti  per i quali  la lotta contro la povertà  si è trasformata, da risorsa utilizzabile o meno, a seconda delle circostanze,  in potentissima rendita politica ed elettorale.
Oggi, l’idea di contrastare e  addirittura sconfiggere la povertà  si  è  talmente radicata, da venire meno qualsiasi remora cognitiva.  Trionfa la più vieta retorica mediatica.  Oltre all’antica distinzione  che vigeva all’interno del pauperismo cristiano tra   povertà  involontaria (frutto del caso  sulla quale l’indigente, pur abile al lavoro, si “adagiava” )  e povertà volontaria (come scelta personale per avvicinarsi al Signore), sembra  siano  scomparse anche due visioni otto-novecentesche (la prima metà), in versione, come dire, secolarizzata:  sia la  reinterpretazione della povertà involontaria,  vista  come  frutto di una disoccupazione inintenzionale causata dal sistema economico capitalistico, sia quella  della disoccupazione volontaria,  giudicata  come  esito di  una disoccupazione volontaria,  a prolungamento della cattiva volontà di trovarsi un lavoro, se non addirittura come forma di protesta  contro il sistema. 
Perché?  Con lo sviluppo del welfare state  e la conseguente riconversione della sociologia ad ancella dell’assistenza sociale,  la povertà si è trasformata in strumento di consenso e di occupazione per burocrazie ed esperti. Quindi in rendite politiche. Oggi si parla solo, su basi  statistiche  pseudo-reddituali,  di povertà assoluta e relativa. Le cause  sono tabù.  Qualsiasi ragionamento  sulla natura volontaria e involontaria della povertà è totalmente bandito.  Il povero è sempre  innocente mentre  il ricco è sempre  colpevole, ecco la tesi.  Siamo dinanzi, come detto, a  un cristianesimo antico, evangelico,  rivisto e corretto alla luce del socialismo amministrativo dei moderni. Un umanitarismo dolciastro, dietro il quale  si nascondono calcoli politici -  come del resto è naturale che sia -  vincolati a ragioni di consenso elettorale. Di regola, come provano gli studi sul ciclo elettorale,  la spesa pubblica e la retorica della lotta alla povertà, sorvolando sul colore politico,  crescono prima delle elezioni (in genere nei due ultimi anni del mandato), per decrescere subito dopo ( i primi due o tre anni).
Quante risorse si sprecano in questa inutile guerra alla povertà ?  Dal momento  che,  come mostrano le statistiche sociali, il dilatarsi assoluto del ceto medio (a prescindere dalle oscillazioni relative e geopolitiche)  è  il meraviglioso frutto, un tempo proibito,  dello sviluppo della economia di mercato? L’unico strumento che ha trasformato la secolare piramide sociale in una modernissima  trottola dalla “pancia” enorme?  E che di riflesso, ripetiamo, ha favorito, l'unica vera decrescita felice, quella della quantità assoluta di poveri? E non solo in Occidente? 
Pertanto quel che occorre, non sono assistenti sociali e burocrati che vivono alle spalle del mercato, ma più mercato, più  sviluppo  economico, e per ricaduta, sviluppo sociale e culturale. Culturale: come crescita della  deferenza  verso se stessi. Il che significa che la cultura della povertà va sostituita con una cultura del mercato e della responsabilità individuale.  E qui, purtroppo, cominciano i guai, perché la povertà, e la stessa cultura della povertà, sono giudicate  una risorsa (se non rendita) politica, quindi qualcosa di  collettivo, che cade graziosamente all'alto e che finisce per  sospingere l'individuo a ritenere che la colpa sia sempre di qualcun altro.  Insomma, né socialismo, né cristianesimo, ma solo cultura dell'assistenza per l'assistenza. La fonte, non propriamente meravigliosa, alla quale attinge certo incosciente individualismo protetto (dallo stato). 
Perciò i poveri “servono”.  A chi?  Per dirla con  una brutta metafora, ma crediamo efficace, di natura medica: la  povertà, "è stata" cronicizzata,  statisticamente cronicizzata. Come il sociologo serio sa bene, basta spostare la lancetta reddituale, anche di poco,  per far crescere o diminuire  il numero dei poveri. Sotto questo profilo il dibattito sul libro di Piketty (**) risulta essere molto istruttivo. La differenza, tra le tesi del sociologo francese sulla bontà dell' assistenza per l'assistenza, e i suoi critici, giudicati invece dai mass media compiacenti, come "nemici del popolo",  rinvia alla  diversa lettura politica dei dati statistici.  Però, ecco il punto, i suoi detrattori, per così dire, agganciano correttamente la diminuzione della povertà alla crescita economica, cosa, nei fatti, largamente provata soprattutto per l' ultimo secolo.  Piketty, invece,  sostiene l’esatto contrario, forzando i dati .   E soprattutto, altro punto importantissimo, l'economista francese  non accetta un fatto,  che può piacere o  meno,  ma  che è nella natura stessa delle cose umane, anzi ne è il motore stesso:  che  esistono  vincitori e vinti.  Se non fosse così, non ci sarebbe alcuna partita.
Anche noi siamo tra i "nemici del popolo,  tra  quelli che  ritengono che la povertà sia diminuita.  E non per merito dei medici,  bensì della medicina-mercato, una specie di auto-cura.  Però i medici, devono pur vivere.  E allora  a crescere è solo la retorica.  Dei Piketty.  

Carlo Gambescia  


(**)  T. Piketty, Il capitale nel  XXI secolo, Bompiani, Milano 2014. Ne parliamo, se ci si perdona l'autocitazione,  nel nostro Passeggiare tra le rovine. Sociologia della decadenza, Edizioni il Foglio, 2106,  capitolo I.