venerdì 24 marzo 2017

 Riflessioni
Ipermodernità?




Ieri discutendo su Fb con l’amico Riccardo De Benedetti, fine saggista e collaboratore di "Avvenire", si è parlato di “ipermodernità,  anzi ne ha parlato lui per primo, introducendo il termine nella conversazione.
Stando ai dizionari, il prefisso iper indicherebbe qualcosa di eccessivo, di superiore alla norma.  Quindi, nel caso specifico, troppa modernità.  Rispetto a che cosa però?  Qual è la modernità normale?

L’assenza di risposte univoche
Sul punto, non credo esistano risposte univoche. Diciamo però che la modernità fin dall’inizio ha dovuto subire  gli attacchi esterni di un certo numero di nemici: si pensi all'universo controrivoluzionario, reazionario, tradizionalista, nelle sue varie sfumature religiose o meno, implacabile avversario  della modernità tout court.   Molti suoi  argomenti  sono stati  ripresi, ma in difesa di un’ “altra” modernità,  dal socialismo scientifico, nonché  dalle correnti ecologiste in nome di uno stato stazionario o addirittura della decrescita,  sempre in chiave anti-capitalista. 

Ipermodernità e modernità
Crediamo tuttavia che l’ipermodernità,  sotto il profilo sociologico abbia fatto sempre parte della modernità. L’ipermodernità ha sempre rappresentato, ciclicamente, il lato costruttivista della modernità, politicamente  condensato, pur con sfumature di gravità differenti,  dai giacobini,  dai nazisti, dai comunisti,  dai seguaci del  welfarismo.  Il costruttivismo, come dice la parola stessa,  si propone di costruire, ex novo e dall'alto,  una realtà sociale di volta in volta, contraddistinta dalla perfetta repubblica degli eguali; dalla comunità razziale; dalla società senza classi; dall’individuo protetto dalla culla alla tomba. C’è un lato oscuro, o comunque inquietante della modernità, rappresentato  dai comitati di salute pubblica,  dai  partiti unici,  dalle  burocrazie  rapaci. 

Il lato solare della modernità
E qual è il lato solare della modernità?  Quello che rinvia alla creatività sociale,  frutto di una mano invisibile, che a sua volta rimanda alle micro-decisioni  di milioni, anzi miliardi di uomini,  che liberamente perseguono, come dire, dal basso, i propri interessi e progetti di vita.  All’inizio della modernità il ruolo della creatività sociale non aveva ancora un nome.  In seguito, lo si è sistematizzato. Come?  Una volta considerati gli incredibili sviluppi della società moderna,  lo si è ricondotto nell’alveo  della libertà di pensiero,  della libertà politica,  della libertà economica,  della possibilità di muoversi liberamente, fare i propri affari, esprimere le proprie  preferenze culturali, politiche, ideali,  nella sovranità e nel rispetto della legge, espressione, quest’ultima, di parlamenti e governi, liberamente eletti.

Il liberalismo
L’opera di  “sistematizzazione” teorica e istituzionale,  che ha  assunto il nome di liberalismo,  non è stata semplice:  prima per l' opposizione dei classici nemici della modernità, poi dei costruttivisti di vario colore ideologico (anche di derivazione liberale, come si vedrà nelle nostre conclusioni). 
Ciò che  l’Ottocento chiamò  liberalismo era il  punto di arrivo  di  un processo  politico, economico, sociale, culturale fondato sul riconoscimento, per la prima volta nella storia umana, del ruolo istituzionale, sociologicamente istituzionale,  di quella creatività sociale frutto della  mano invisibile. In questo senso, il liberalismo, storicamente parlando, è un vero esperimento sociale, tuttora in corso, perché è al tempo stesso istituzione politica, quindi rivolta al controllo,  ma di che cosa?  Di una forza sociologicamente incontrollabile:  la creatività umana.  Quindi il liberalismo, a un tempo,  è istituzione e movimento.  Una contraddizione vivente, con una parte utopica, che pure, a differenza di tante contraddittorie utopie-utopie, come dire, a tutto tondo,  assicura agli uomini concrete forme di libertà. E questo è il suo merito. 

La scienza della modernità
La sociologia, scienza nata proprio nell’Ottocento,  in qualche misura,  è la scienza della modernità: della mano invisibile,  ne studia le modalità, le forme, le conseguenze, le reificazioni  nei termini di specifico sociologico.  Si potrebbe dire che la sociologia - ovviamente, la nostra è "una" interpretazione della sociologia -   studia la modernità nei suoi aspetti spontaneisti e costruttivisti, come movimento e istituzione.   
È possibile separare la modernità costruttivista da quella spontaneista?  Sul piano cognitivo, dei tipi ideali, certamente. Come del resto abbiamo fin qui fatto.  Su quello storico e politico no. O comunque resta molto difficile, se non addirittura impossibile. Perché ciò che è ipermodernità per alcuni (gli spontaneisti) è modernità per altri (i costruttivisti). La “norma” muta. E purtroppo la decisione politica ha bisogno di “norme” certe. La decisione, insomma,  rinvia all'istituzione, sacrificando la creatività. 

Ciclicità
Di qui però, l’inevitabile e ciclico ritorno  del costruttivismo, che attinge all’istinto di conservazione degli individui, spesso  portati,  come  natura sociale, a scegliere il certo per l’incerto, sacrificando la creatività della mano invisibile.  Di qui, la prevalenza nelle nostre società di un individualismo protetto dalla stato, che può essere sintetizzato, nel “diritto di avere diritti”. Il che implica la gestione pubblica dei diritti, quindi di costi, tributi, burocrazie e, cosa più grave,  di un ripiegamento nella mistica del sociale, che inevitabilmente sconfina nello statalismo, che è agli antipodi dello spontaneismo della mano invisibile.
L’individualismo protetto porta con sé conflitti redistributivi tra gruppi di pressione,  ristagno economico, sociale, quindi creativo, perché l’egoismo  redistributivo  finisce per prevalere sul bene comune, e di riflesso sulla capacità  produttiva (del Pil come di idee nuove).  Il che implica la sottovalutazione delle questioni esterne al sistema sociale, a cominciare  dall’individuazione del nemico. La politica, insomma, rischia di trasformarsi in pura e semplice gestione dell’esistente. La redistribuzione è monotestica, si basa sul ritorno del medesimo.  Se ci si passa l'espressione, - per banalizzare -  si trasforma  nell' assalto  di torme di incoscienti a una torta che però si fa sempre più piccola. 

Modernità  costruttivista
Non parleremmo perciò di ipermodernità,  ma di modernità costruttivista: uno dei due volti della modernità, quello inquietante. Oggi ben incarnato dall’Unione Europea, assai diversa da quella vagheggiata nei Trattati di Roma.  Un volto che purtroppo rinvia alla regolarità metapolitica istituzione-movimento:  una dinamica che  indica la tensione tra il momento spontaneista e costruttivista  della modernità.
Se la tensione si trasformerà in rottura o sfocerà in  nuovi equilibri è  materia di giudizio personale. Non possediamo alcuna sfera di cristallo. Diciamo però  che le società  hanno necessità sia del momento istituzionale, sia del momento movimentista. Di qui una ciclicità, per contrasti e sintesi,  che in realtà non riguarda solo i moderni, ma ogni dinamica sociale.  Dal momento che le società  non possono essere riassorbite mai interamente nell'uno come nell'altro momento.

Per non concludere
La rivoluzione moderna puntando sul momento creativo (ecco l'esperimento liberale),  ha provocato un contraccolpo costruttivista, anche all'interno del liberalismo stesso. Si pensi al liberalismo macro-archico,  welfarista insomma: una specie di liberalismo protetto. Al quale potrebbe succedere, per reazione,  una rivoluzione creativa e spontaneista, micro-archica o an-archica. Però, come insegna il liberalismo archico, realista,  andrebbe prima individuato e sconfitto  il nemico esterno. Che tra l'altro oggi ci minaccia apertamente. Cosa che il costruttivismo redistributivo, macro-archico ripiegato su se stesso non consente, quale carnefice e complice  di masse crogiolantesi  in un individualismo protetto imbevuto di pacifismo (*).  
E questo può essere un problema. Di sopravvivenza: della modernità in quando tale. E pure del liberalismo.

Carlo Gambescia  
                                       

(*) Su questi temi si veda l'ultimo capitolo del nostro Passeggiare tra le rovine. Sociologia della decadenza, Edizioni Il Foglio 2016.