giovedì 15 aprile 2010

Il libro della settimana: Robert Spaemann, Rousseau cittadino senza patria. Dalla "polis" alla natura, Edizioni Ares, Milano 2009, pp. 160, euro 14,00.


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La filosofia di Robert Spaemann, importante filosofo tedesco cattolico, oggi ottantenne, può essere così condensata: l’uomo è interiorità. Il filosofo parla di una plasticità spirituale capace di manifestarsi in una vita sociale densa di significato ultramondano. Dove l’uomo sia finalmente capace di ritrovare il senso del suo vivere pratico, collegando esistenza e provvidenza. Ciò che non avviene oggi.
Piaccia o meno, non siamo davanti a un pensiero debole. Spaemann, molto letto anche in Italia, ha pubblicato numerosi libri. Qualche titolo: Concetti morali fondamentali (Piemme 1993), Per la critica dell’utopia politica (Franco Angeli 1994), Le origini della sociologia dallo spirito della restaurazione, Laterza 2002), Natura e ragione. Saggi Antropologia (Edizioni Università della Santa Croce 2006).
La sua opera è un corpo a corpo intellettuale con il pensiero illuminista. Da Spaemann “sezionato” in modo instancabile. Ma con cuore puro: alla luce del tentativo di ritrovare nelle aporie di una ragione, che spesso si vuole o trionfante o decadente, gli spiragli di una filosofia della pratica rispettosa dell’argomentazione razionale come della fede.
Per moderni e postmoderni il cammino di Spaemann può essere giudicato inutile. Mentre, in realtà, si tratta di un pensiero profondo che si muove con grande perizia intorno ai sottili confini della modernità. Di qui l’importanza di leggerlo. Magari partendo proprio dal suo Rousseau cittadino senza patria ( Edizioni Ares, Milano 2009, pp. 160, euro 14,00). Volume, fresco di stampa, che si avvale di un’ottima prefazione di Sergio Belardinelli cui fa pendant l’eccellente postfazione di Leonardo Allodi, al quale si deve anche la fedelissima traduzione.
Rousseau per Spaemann non è la soluzione ma il problema. Perché “il problema del rapporto tra emancipazione e integrazione è ciò che Rousseau ha lasciato in eredità alle generazioni successive”.
Infatti, per un verso il filosofo ginevrino ha contrapposto la natura buona dell’uomo alla società cattiva, per l’altro ha avanzato, senza sciogliere i dubbi, la possibilità di creare un uomo nuovo, “ipersocializzandolo”.
Due obiettivi, contrastanti ma paralleli, che i filosofi e i politici dei secoli successivi perseguiranno, puntando sia sulla costruzione dell’uomo nuovo nella società senza classi (la società comunista), sia sull’edificazione del cittadino nuovo nella società con le classi (la società borghese).
Secondo Spaemann, Rousseau invece guardava altrove, perché auspicava il superamento delle contraddizioni umane per altri vie: quelle di un’interiorità capace di apprezzare il sacro, rifiutando però il trascendente. Qui il suo limite implicito e dunque insuperabile.
Tuttavia “ mentre la teoria rousseauiana, con il suo pathos della liberazione, diventa determinante per i movimenti rivoluzionari fino al marxismo, la sua teoria sociale e il suo concetto di ‘natura della cosa’ attraverso Bonald, diventa determinante per la teoria positivistica della società”.
E la “natura della cosa”, per essere chiari, non rinvia altro che alle cose come sono: alla realtà fisica come appare all’uomo. Realtà che se non può essere modificata “socialmente” dal rivoluzionario, può però essere manipolata “meccanicamente” dallo scienziato. Attività, quella scientifica, che diventa così norma universale fino al punto di trasformare gli scienziati nei membri di una nuova casta.
Mentre per Spaemann, come nota Allodi, “il modo” in cui l’uomo vive la natura delle cose, non è rivoluzionario né scientifico o peggio scientista, bensì determinato dal fatto “che egli non coincide mai” con la propria natura “ma la possiede” tenendosi a distanza.
Ed è proprio la capacità di “distanziarsi” che fa essere l’uomo persona. Capacità che si chiama interiorità. E che acquisisce senso e significato solo grazie a un disegno che trascende il mondo, non umano ma divino.

Carlo Gambescia

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