sabato 25 maggio 2024

“Cancel culture” e catapulta statalista

 


Ora basta con questa storia del dare addosso alla “Cancel culture”. Ormai cavallo di battaglia della destra, la peggiore destra razzista. Proviamo allora a riformulare la questione.

Cos’ è che ha fatto grande l’Occidente? I classici greci e latini, Dante, Shakespeare, e così via?

Indubbiamente esiste un canone occidentale. Una tradizione letteraria, studiata nelle scuole e nelle università. E dibattuta tra i dotti.

Esiste però qualcosa di più importante che caratterizza l’Occidente: la libertà di pensiero e di parola. Sconosciuta, piaccia o meno, ad altri popoli. Pensiamo non solo agli Indiani, ai Cinesi, agli Arabi, ma anche ai Russi ad esempio, oppure alle correnti reazionarie tuttora presenti nella stessa cultura occidentale: i suoi nemici interni, fascisti, nazisti, eccetera.

Parliamo, in generale, di un mondo che nega espressamente l’eredità liberale. O che per varie ragioni, giustificate o meno, resta estraneo a un pensiero che affonda le radici nell’Illuminismo. Non si tratta di formulare graduatorie, ma più semplicemente di prendere atto, laicamente,  delle rispettive  diversità.

Sotto questo aspetto la “Cancel culture” va oltre la laica accettazione delle differenze, perché si tratta di una rilettura da sinistra del canone occidentale. Lo si giudica come una forma di imperialismo, al quale si oppone un imperialismo di segno contrario: quello anti-occidentale. L’approccio “cancel” rimanda al disconoscimento del principio dei principi: quello della libertà di pensiero e di parola. Ci spieghiamo meglio.

Il vero punto della questione, non è come proclama la destra, ribadire ad esempio la grandezza e l’unicità di Dante , ma di difendere una tradizione politica e culturale che difende la libertà di pensiero e parola. Il problema non è Dante, cioè l’offesa, presunta o meno, a Dante, ma la pretesa di vietare Dante a scuola.

La destra, che non è sicuramente amica della libertà di pensiero, quando ribadisce la grandezza di Dante, commette un peccato di imperialismo culturale. Per capirsi: pretende che Dante sia studiato a scuola in quanto Dante. In qualche modo fa il gioco della sinistra, che non vuole che Dante sia studiato a scuola, proprio perché Dante. Il contenuto delle prove addotte dagli uni e dagli altri qui non interessa.

In realtà quel che andrebbe evitato è proprio la discussione – da credenti politici (tifosi per così dire) – sulla grandezza di questo o quel pensatore occidentale o di qualsiasi altra provenienza. Per quale ragione? Perché esiste un pericolo. Quale? Dello stato-catapulta. Cioè che attraverso l’intervento dello stato si impedisca la discussione stessa dando ragione, di volta in volta, agli amici o ai nemici di Dante.

Insomma, non si può mettere Dante (o altro pensatore, anche non occidentale) ai voti: una volta vietarlo, una volta permetterlo secondo le indicazioni di una specie di ragion politica occidentale o anti-occidentale.

Un giudizio letterario non può essere trasformato in giudizio politico. 

La grandezza dell’Occidente è nella separazione tra cultura da una parte, e politica e religione dall’altra. Nella sua  volontà di   secolarizzazione. Un processo che rimane alla base della libertà di pensiero e parola.

Di conseguenza questa destra e questa sinistra, pro o contro Dante, tramutano la cultura in politica o peggio ancora in religione politica. Il che, in pratica, significa razionalizzazione-giustificazione della letteratura. La si piega a scopi politici.

In questo modo la libertà di parola e pensiero diventa libertà di parola e pensiero al servizio del potere politico. Quindi, ripetiamo, si discute non più della libertà di discutere Dante, ma della superiorità o inferiorità di Dante rispetto alla superiorità o inferiorità di un’idea politica. Le polemiche tra “occidentalisti” di destra e “anti-occidentalisti” di sinistra ruotano intorno al mezzo (Dante) e non al fine (la libertà di pensiero e di parola).

La destra che è dalla parte dello stato-catapulta legislativa, quanto la sinistra, usa Dante, come una pietra di due o trecento chili da scagliare contro le mura della città anti-occidentalista. I cui difensori, a loro volta, rispondono con lanci di pietre altrettanto violenti. Pronti a contrattaccare, con pari durezza, e così via.

Si dirà ma allora il voto del popolo, la tanto declamata libertà di pensiero, eccetera? Risposta: si può mettere un pensatore ai voti? No. Si può approvare per legge la grandezza letteraria? No. Quanto alla libertà di pensiero è ovvio che non può consistere nell’opprimere quella del nostro interlocutore, comunque la pensi.

Come uscirne? Separando la letteratura dalla politica. Evitando ogni forma di religione politica, “occidentalista” e “anti-occidentalista” (per semplificare). Soprattutto in chiave di catapulta statalista.

Cosa che da almeno tre secoli, diciamo a far tempo dall’Illuminismo, si tenta di spiegare al popolo. Che però non sempre sembra capire l’essenza del liberalismo.

Che la libertà di pensiero e di parola sia per pochi?

Carlo Gambescia

 

4 commenti:

  1. Condivisibile analisi ma, mi permetto di dire, forse un po' troppo sbrigativa.
    Evidentemente, al di là di un'astratta libertà di pensiero e di parola, esiste l'inaggirabile questione di cosa siano, all'atto pratico, la comunità, l'identità, la verità. Va da sé che faremmo molta fatica ad accettare che ai nostri figli venga insegnato che eliocentrismo e terrapiattismo sono teorie con il medesimo grado di dignità scientifica. Allo stesso modo, non accetteremmo, spero, che schiavismo, pulizia etnica e forni crematori venissero proposti come possibilità storiche e politiche, senza alcun giudizio morale. Si dirà: l'identità dell'Occidente non riposa su Dante e Shakespeare, ma sulla possibilità di accettarli o criticarli o addirittura rifiutarli. Spiegazione accettabile, ma solo fino a un certo punto, quello in cui il relativismo culturale fa cortocircuito fino a negare se stesso. Si dirà: in un'ottica liberale e sussidiaria quel che si insegna nelle scuole è una libera scelta della società civile, e accettiamo pure questo approccio, che purtuttavia non ci mette al riparo da scelte difficili. La questione del canone non può essere liquidata troppo semplicemente. Un conto è il lavoro di revisione storico-culturale che porta rivedere con occhio critico opere e autori del passato, ma in base a cosa un insegnante esonera dallo studio di Dante due studenti musulmani? Un conto è adottare uno sguardo critico sul passato (evitando, ancora una volta, il rovesciamento della storicizzazione, che è per definizione relativizzazione, nel suo contrario, cioè nell'assolutizzazione della sensibilità corrente - che è la cifra della cancel culture), un conto è cedere alla ipersuscettibilità culturale delle minoranze. Lo dico non per portare la discussione su un piano di "cultural war", ma semplicemente per dire siamo di fronte a un groviglio difficile da districare. Una comunità è tale se ha un'identità e tale identità non può essere solo letta in negativo, come spazio vuoto riempito dalla sommatoria delle preferenze e delle decisioni individuali. Non può non essere, cioè, una condivisione. Non solo di regole ma di valori, simboli, di Dante, Shakespeare, Beethoven.

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  2. Innanzitutto grazie per il tempo che mi ha dedicato. E ovviamente dell’acuto commento. Le lascio l’ultima parola. Solo una piccola chiosa rivolta ai miei lettori. L’insegnante che esonera i due studenti musulmani rinvia al rischio ontologico (fondativo) che purtroppo deve correre una società libera. Mi spiego meglio: se gli studenti esentati da due diventano alcuni milioni, allora il problema si fa sociologico; se diventano maggioranza il problema si fa politico. Se ci aggrediscono, si fa militare. Perché allora fare un caso – scorgere un rischio - dove il problema non è sociologico, né politico, né militare ? L’essenza di una società liberale è nella cognizione del rischio rispetto ai differenti spazi interstiziali di manifestazione dei fenomeni sociali in senso quantitativo. Quanto più una società è matura in senso liberale tanto più sa cogliere il senso delle diversità interstiziali. Di qui la natura ontologica del rischio (Carlo Gambescia)

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  3. Grazie a lei della risposta. Le chiederei di approfondire un momento, se lo ha, il concetto di natura ontologica del rischio, il cui senso forse intuisco ma non afferro in pieno. In attesa di capire meglio, azzardo una replica, e non me ne voglia se manco clamorosamente il bersaglio: lungi da me avventurarmi in evocazioni del fatidico piano inclinato, per cui una volta concesso il dito dell'esenzione dantesca qualcuno si prenderà il braccio dell'obiezione di coscienza alla lezione di storia o, perché no, di matematica e del suo autoritarismo che pretende di imporre a tutti il suo 2+2=4. Però, battute sceme a parte, non esistono più le questioni di principio? Dagli esempi che fa, mi par di capire che per lei i due studenti siano un fenomeno quantitativamente trascurabile e sicuramente gestibile da una società matura. D'accordissimo. Meno d'accordo sulle proiezioni quantitative. Se fossero due milioni, sarebbe già un problema politico oltre che sociologico. Se fossero maggioranza (come si immagina Houellebecq in uno dei suoi ultimi romanzi) il problema per certi versi non si porrebbe già più. Ad ogni modo mi pare significativo che il climax immaginato a partire dal rifiuto di Dante per - è bene ricordarlo - motivi religiosi, includa l'ipotesi di una sua trasformazione in aggressione militare. Di fatto lei negando l'esistenza di un rischio, lo evoca. Intendiamoci: ritengo che la xenofobia allarmista sulle "invasioni" dei migranti sia patetica nel migliore dei casi e miserabile nella maggior parte degli altri, quando per esempio vaneggia di sostituzione etnica et similia. Cioè: non mi spaventano centomila nuovi stranieri all'anno, figurarsi due studentelli affetti da zelo religioso. Arrivo persino ad ammirare la sensibilità dell'insegnante in questione, ma resto ugualmente con un forte senso di disagio non tanto per la scelta in sé, che è senz'altro una forma di rispetto per sensibilità diverse, ma per la mancanza di criteri chiari, oltre al buon senso, che orientino questo tipo di decisioni: se invece di due fossero stati sei o sette, o tredici o quattordici, nella stessa classe? Che dignità e che status concedere alle sensibilità individuali e collettive? Non auspico obblighi da far rispettare coercitivamente (per di più mi rendo conto che del caso concreto non so praticamente nulla, quindi giudico da una prospettiva molto ristretta). Però in qualche modo mi immagino che esista un qualche processo di integrazione che passa, diciamo così, anche per una condivisione del canone. Sono pensieri in libertà, piuttosto confusi, perché non ho le idee chiare. Quindi di certo non mi interessa avare l'ultima parola, e le sarei grato se volesse dirla lei.

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  4. Grazie del commento. E dell’impegno profuso. Scrive cose interessanti, sebbene i nostri piani siano diversi. Il suo sicuramente più alto e nobile. Diciamo di etica dei principi, io invece mi fermo all’etica dei mezzi (o della responsabilità). E non è detto che le mie “coordinate” siano più solide delle sue. Anzi…
    E’ ovvio, dal punto di vista del processo di integrazione, che debba esistere una condivisione di un qualche canone. Il problema rinvia alla predisposizione degli attori in situazione e al dosaggio del canone. Mano invisibile o mano dello stato? Quantità o qualità? Sui punti credo di avere già risposto nell’articolo. Comunque sia è una sfida che va accettata. Laicamente. No a chiusure e idee forza tramutate in slogan. Sul punto, credo, siamo d’accordo.
    Quanto al termine “avere l’ultima parola”, devo dire che non appartiene neppure al mio vocabolario cognitivo ed esistenziale. Perché? Per la semplice ragione che il rischio, in senso ontologico, quindi costitutivo della nostra condizione di esseri umani, sospesi tra caso e necessità, implica anche il rischio di non poter mai dare risposte definitive. Mi si può accusare di glissare? Ne prendo atto. Accetto il rischio… Mi limito solo a dire che esploro, ipotizzo, suggerisco, tento. In fondo, non è che la logica della ricerca scientifica. Non aspiro ad altro. Lo chiami pure amore della scienza per la scienza. Non voglio vincere né stravincere, e neppure convincere. Voglio solo studiare. Torre eburnea? Forse. Nessuno è perfetto.
    Grazie ancora per il tempo che mi ha dedicato.

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