sabato 8 febbraio 2020

Prescrizione, un approccio sociologico

Il “Corriere della Sera” ha diffuso un sondaggio dal quale risulta che solo il 20 per cento degli intervistati considera la prescrizione "una garanzia per gli imputati",  in mancanza della quale,  come giustamente si legge,  "rischiano di restare sotto processo per un tempo molto lungo" (*).
Cosa pensare? Per farla semplice, diciamo di buon senso,  che  otto italiani su dieci, stando al campione, non sono mai entrati in un'aula di tribunale. Perché chiunque abbia avuto a che fare con la giustizia penale e civile italiana  non può non essere favorevole a  misure, tra le quali la prescrizione, che consentano la fuoriuscita da una specie di girone  infernale.  Dove  un tremendo  mix tra  burocrazia e  spirito di corpo  (dei giudici come degli avvocati) trasforma sempre più spesso i processi nell’ipotesi migliore in conflitti di status tra giudici e legali, nella peggiore in  routine,  dove l'una e l'altra parte  leggono superficialmente gli atti.                           
Ovviamente,  il nostro è un occhio sociologico. Chi scrive  non guarda alle grandi filosofie  della giustizia e della legge, ma allo svolgimento effettivo  delle cose. Non guarda alle eccezioni, che pure esistono,  ma alla famosa verità effettuale. Alla regola, insomma.  E qual è in questo caso?  Che la realtà giudiziaria è molto lontana dall’ideale.  Lo stato di diritto, magnifico strumento creato dalla cultura liberale,  deve purtroppo fare i conti con due fattori:  1) la logica burocratica delle grandi strutture sociali; 2) la  dinamica  della   società di massa, imbevuta di cultura democratica.  
Sicché, per quanto si voglia intervenire sul piano delle riforme,  l’impedimento principale al buon funzionamento dello stato di diritto,  diremmo costitutivo,  resta  rappresentato dai grandi numeri della giustizia democratica. Detto in altri termini:  la burocratizzazione corporativa (il micidiale mix di cui sopra)  è un effetto perverso della dilatazione democratica dello stato e dei suoi poteri, tra i quali c’è quello giudiziario. Dilatazione che però  rinvia a sua volta  alla dilatazione dei poteri di polizia (per la giustizia penale) e alla "cetimedificazione" della litigiosità (per la giustizia civile): due fenomeni, tipici della società di massa, che a loro volta  influiscono sulla dilatazione democratica, che a sua volta, di rimbalzo, eccetera, eccetera.  
Lo stato dovrebbe fare un passo indietro. Ma nelle società a benessere diffuso come le nostre, criminalità e litigiosità vanno di pari passo. Crescono insieme, pur con differenti finalità  funzionali interne. Di qui, comunque sia, la crescente domanda, per così dire democratica, da parte dei cittadini di giustizia, sia penale che civile. Una richiesta cui  la politica, che oggi vive di una macchina per fabbricare divinità  chiamata stato,  non  può sottrarsi, pena la perdita di consensi. E così si procede a colpi di promesse e aspettative crescenti.
Siamo davanti a un circolo vizioso che ha radici sociali piuttosto che politiche. E che spiega il cosiddetto populismo penale, frutto di disinformazione personale ("anche" del  non essere mai entrati eccetera), di processi emulativi,  tipici di un società di ceti medi che può investire in avvocati e giudici, nonché dell' idealizzazione diffusa di una macchina giudiziaria che non potrà mai dare ciò che promette.             

Per questa ragione  ogni misura, anche tampone come la prescrizione, che  può  aiutare il cittadino  a non essere stritolato dalla macchina giudiziaria, va accolta con favore. In qualche misura  è una forma di garantismo sociologico piuttosto che giuridico.  Una forma di resilienza, se si vuole.
Ovviamente, come detto, coloro che non sono mai finiti  dentro quella macchina  non possono capire.  O peggio ancora, come capita di leggere,   si celebra  erroneamente il giustizialismo come  giusta  risposta a un fenomeno che invece, in quanto effetto perverso,  ha profonde radici sociali.  Oppure si spinge sul  pedale di una legificazione che finisce inevitabilmente per avvitarsi su stessa moltiplicando gli effetti negativi inattesi.
Purtroppo a tutto ciò la politica  sembra  tristemente adeguarsi.  A che prezzo però?

Carlo Gambescia