venerdì 26 marzo 2010

Sociologia del reduce


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Chi è il reduce? Secondo i dizionari è colui che torna o è tornato dopo una lunga assenza da una prigionia o da un’impresa difficile o pericolosa. Si pensi, ad esempio, al reduce di guerra. A quello che rappresentò il “reducismo” combattentistico all’indomani della Prima Guerra Mondiale. Oppure alla figura ottocentesca (prima metà) del reduce napoleonico, da molti storici collegata alle origini della leggenda sviluppatasi intorno al “Grande Corso”.
Ma il reducismo è anche una forma di mentalità. Si pensi ai reduci del Sessantotto, degli Anni di Piombo. O andando ancora più indietro ai partigiani comunisti e a certo fascismo oltranzista repubblichino.
In genere il reduce ideologico, come in questi ultimi casi, mitizza il passato, minimizza gli errori, e soprattutto appaga quello che potremmo definire il narcisismo del reduce: quell’ “Io c’ero, voi no”.
Sul piano del dibattito politico il reducismo fa più male che bene. Soprattutto perché il reduce ideologico sale in cattedra e si mette ad assegnare voti a tutti. Si pensi a certi rottami del comunismo e del fascismo che cercano di tuttora di difendere l’indifendibile.
Il reducismo è una forma di nostalgia? Sì e no. Perché la nostalgia è desiderio di qualcosa che il “nostalgico” sa che non potrà tornare. Il reduce, invece ci crede, e si "prodiga"… Ad esempio, si pensi solo ai legami ideologici, spesso ammessi dagli stessi interessati senza alcun problema, tra brigatismo rosso e partigiani comunisti. Oppure tra terrorismo nero e brigatismo repubblichino.
Possono le società fare a meno del reducismo? Sì e no. Diciamo che c’è un livello fisiologico legato alla normale necessità di tenere vivi i simboli comunitari. Si cade invece nel patologico, quando i simboli riguardano un’esperienza del passato, magari tragicamente conclusasi, rifiutata dall'intera collettività e quindi politicamente morta e sepolta.
In genere il reducismo riguarda comunità ristrette, di tipo settario. Sotto questo aspetto la Rete è una specie di serra calda. Dal momento che vi proliferano, in modo particolarmente rigoglioso, intere famiglie di “reduci ideologici”.


Il termine “famiglia” non viene evocatocasualmente. Perché il reducismo, se integralmente vissuto introiettato nell'ambito provenienza, tende, anche se non di regola, a passare di padre in figlio. O ad essere veicolato fusionalmente all'interno di una comunità di "pari" politici, sentita come famiglia dalla varie generazioni di "militanti". E tutto ciò spesso spiega, sul piano psicologico, le figure del “giovane” con la “mentalità” del reduce fascista o comunista.
Discutere di qualsiasi argomento con un “reduce ideologico”, di destra come di sinistra, si trasforma in impresa titanica: perché chi crede di avere la verità in tasca, pretende sempre di avere sempre ragione... Ovviamente, in alcuni, la condizione di reduce, soprattutto se in età ancora giovane, aggrava il rapporto percettivo con la realtà e incide sulla normale formazione della personalità. Soprattutto quando si tratta di caratteri con forti tratti narcisistici costitutivi. Comunque sia, il reduce, una volta "giunto a maturazione" si rifiuta patologicamente di capire perché "l' altro" non voglia capire: “Uno gli porta la verità” - spesso ripete - e si vede sbattere la porta in faccia”… Il reduce non accetta una fisiologica diversità. Di qui isolamento, eventuale cooptazione degli eguali (i forum sotto questo aspetto sono molto interessanti e indicativi), una crescente aggressività verbale.
Prendendo spunto dal Freud de L’interpretazione dei sogni, il reduce è uno che sogna a occhi aperti. E questo è l’aspetto più pericoloso, perché scambia i sogni per la realtà, la notte per il giorno, aggirandosi tra di noi come un fantasma. O peggio un perfetto, si fa per dire, zombie delle idee.

Carlo  Gambescia

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