mercoledì 16 aprile 2025

La pistola a tappi di Vittorio Emanuele Parsi

 




Ascoltavamo ieri sera Vittorio Emanuele Parsi, ospite de “Il cavallo e la torre”.

Innanzitutto uno studioso non può cavarsela parlando in modo così generico dell’influenza di Montesquieu sulla Costituzione americana. Nel Federalist, che ai tempi del devastante trumpismo va tenuto sulla scrivania, ci sono passi precisi dove si discute acutamente della teoria della divisione dei poteri.

Ad esempio nel saggio 47° (su 85), Madison proprio partendo da Montesquieu, parla della pericolosità della riunione in una sola persona dell’esecutivo e del legislativo. Proprio ciò che sta facendo Trump. Quindi la citazione precisa era necessaria per comprendere la svolta epocale antiliberaldemocratica di Trump (*). Pregna di gravissime conseguenze. Per capirsi: Trump vs Madison (e Montesquieu). Non è una cosa da prendere alla leggera.

Ma il punto non è questo ( o non solo). E qual è allora? Che Parsi, pur sottolineando giustamente la necessità di difendere la società aperta, non riesce a pensare la guerra.

Per quale ragione? Perché il suo è il classico realismo politico standard, diffuso, “mediamente” accettato. Insomma da salotto televisivo o aula universitaria: realismo accademico, un pizzico (non sempre) dottrinario, rispettoso delle buone maniere: in primis di un pacifismo di  centro diciamo, ma pacifismo.  Un realismo al passo con il pensiero politicamente debole del nostro tempo. Debole soprattutto in Europa, si badi bene.

Al di là di certe rapsodiche ruvidezze, l’argomentazione di Parsi riflette un approccio realista che però si ferma, per dirla con Gozzano, alle soglie della guerra. Teme di varcarle. Se ci si passa la battuta, si pensi alla pistola a tappi.

Nel caso specifico: Parsi spera, proiettando sugli attori politici il suo desiderio di pace e di tran-tran quotidiano ( casa-università, università-casa), che Trump e Putin si fermino, magari per ragioni interne o perché improvvisamente resipiscenti. Insomma che rinsaviscano di motu proprio. Di propria iniziativa. La cosiddetta forza della ragione. Che però spesso si addormenta...

Un realismo che in fondo non decide perché si ferma alla minaccia in attesa dello scambio per evitare il conflitto. Un conflitto, quello russo-ucraino, già in corso da tre anni.

Si rifletta. Il realista standard, nel senso di un realismo politico schiacciato sul presente, del salvare il salvabile, che non contempla la guerra se non come “minaccia”, non riesce a cogliere il ruolo della guerra guerreggiata, proprio come atto capace di rafforzare la credibilità della minaccia.

Quindi Parsi mette in discussione la “fattibilità” della guerra, dimenticando una cosa fondamentale: che per essere credibili la guerra almeno una volta bisogna farla. E si deve vincere.

Cosa sarebbe successo se ad esempio, dopo l’aggressione russa, diciamo nei primi due-tre mesi, si fosse risposto sul campo inviando truppe Nato?

Una cosa da attraversamento delle Alpi da parte di Annibale? Per respingere gli aggressori, usando armi convenzionali, senza per questo puntare – dichiarandolo pubblicamente – all’ invasione della Russia?

Che Mosca, una volta presa alla sprovvista, dalla rapidità della reazione occidentale, avrebbe perso l’iniziativa e capito che l’Occidente euro-americano non aveva paura di fare la guerra, perché ne aveva iniziata una in riposta alla sua aggressione. E che perciò la Russia – questo il messaggio delle truppe sul campo – doveva ridimensionare i suoi obiettivi.

Un bel rischio si dirà. Perché Putin minacciava l’atomica, eccetera. Certamente. Ma la Russia avrebbe di sicuro fatto marcia indietro, per quei solidi motivi interni di autoconservazione del potere che sconsigliano alle dittature di lanciarsi in guerre in cui le possibilità di vittoria sono scarse o nulle.

Cosa vogliamo dire? Che la paura dell’autocrate di perdere il potere è un fattore che le democrazie non devono sottovalutare quando confliggono con le autocrazie. Però, attenzione, non si tratta di qualcosa che germina in modo spontaneo all’interno di un’autocrazia, deve essere favorito dalle sconfitte sul campo.

Qui l’errore di Biden, della Nato e dell’Unione Europea.

Il realismo standard è un realismo a quo, schiacciato sul presente, della sopravvivenza, quindi disposto a cedere, sulla potenza e sui valori, pur facendo finta di non voler cedere. Per contro, il realismo, vero e proprio, ad quem, che guarda al futuro, temendo di veder accrescere la potenza dei nemici e per la sorte dei suo valori, non è mai disposto a cedere. Non fa finta.

Per il realista ad quem la guerra è un atto dimostrativo non la minaccia di un atto dimostrativo: Churchill, realista ad quem, che guardava al futuro, all’indomani della sconfitta della Francia, non si arrese al realismo a quo di Lord Halifax, alla guida fino al gennaio del 1941 del Foreign Office, schiacciato sul presente, quindi pronto a una pace “onorevole” con Hitler (**).

Si dirà, deridendo, che il nostro ragionamento ricorda quello del Dottor Stranamore. Può darsi. Però resta il fatto che il ragionamento di Parsi rimanda a un realismo spuntato, standard, che vuole difendere l’Occidente a colpi di proclami e sanzioni economiche. E che alla fin fine ricorda quello di Lord Halifax pronto al compromesso con Hitler pur di sopravvivere. Tanto rumore per nulla.

Eppure nel 2022 Trump, reduce da un primo mandato disastroso sotto il profilo liberale, incombeva. Insomma si poteva fare molto di più.

Adesso con Trump al potere, che condivide con Putin una visione politica che fa strame di Montesquieu, tutto è più complicato. Le autocrazie funzionano così: o confliggono o si mettono d’accordo tra di loro per divorare le entità politiche minori o più deboli. Si chiama logica di potenza: dagli Assiri a Hitler. Alla quale è inutile opporre la logica del contratto, già nota secondo Jacques Pirenne, ai tempi del liberalismo babilonese.

Ed è quel che sta accadendo con l’Ucraina che Trump ha scaricato per favorire Putin, come ai tempi del patto Molotov-Ribbentrop sulla spartizione della Polonia. Un accordo scellerato al quale l’Europa assiste impotente, ieri come oggi. Salvo poi, corsi e ricorsi (per dire una banalità), lo svegliarsi anche questa volta all’ultimo minuto, già con l’acqua alla gola.

In questo scenario da ultimi giorni di Pompei scorgiamo Parsi che impugna la pistola a tappi del realismo standard da salotto o da lezioso seminario accademico: un realismo a quo, incapace di pensare la guerra come azione dimostrativa.

Certo, il passaggio all’atto può essere costoso in termini di vite umane. Ma rimane necessario. Sempre che, ciò che resta dell’Occidente dopo l’avvento di Trump, non aspiri a tramutarsi nel Quaquaraquà di cui scrisse Sciascia.

Carlo Gambescia

(*) Si veda A. Hamilton, J. Jay, J. Madison, Il Federalista, intr. di G. Ambrosini, Nistri-Lischi, 1955, pp. CVII-CXII,  pp. 325-333.

(**) Abbiamo approfondito la questione nel nostro Il grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico, Edizione Il Foglio, 2019.



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