mercoledì 2 aprile 2025

Dazi. L’altra faccia della guerra

 


Cosa pensano i pacifisti dei dazi? Per ora tacciono. Eppure i famigerati dazi di Trump, annunciati per oggi, sono l’altra faccia della guerra. Dimenticavamo, adesso si parla di “tariffe”. Ma se non è zuppa è pan bagnato.

Il giro del nostro ragionamento è lungo. Ma merita.

Intanto va sottolineato che negli ultimi ottant’anni, dopo trent’anni di guerre e frontiere chiuse, si è fatto il possibile, riuscendovi in larga parte, per favorire la libera circolazione di uomini e merci. Fino all’inizio degli anni Dieci del nostro secolo, grazie all’illuminato pensiero di Obama, si è perseguita la grande idea di creare un’area di libero scambio, transatlantica, tra Europa e Stati Uniti (*).

Dopo di che, con il primo mandato di Trump e i tentennamenti di Biden, l’idea è finita in soffitta. Di più: il magnate americano, una volta tornato al potere, ha addirittura dichiarato guerra economica all’Europa.

E qui veniamo a un punto particolarmente interessante, spesso ignorato: il protezionismo non è l’altra faccia del capitalismo, ma il suo nemico principale. Il protezionismo, come vedremo, è l’altra faccia della guerra.

Intanto va sottolineato un aspetto importante. Che dal punto di vista della mentalità culturale la chiusura delle frontiere, o comunque la limitazione delle merci estere, elimina il rischio imprenditoriale che è fonte di profitti.

Cioè parliamo di un rischio capace di generare un flusso di redditi che – lo ammettiamo – può essere incostante. Però senza profitti, se si vuole senza alti e bassi, il capitalismo vegeta, protetto in una specie di serra calda ma dall’aria viziata.

Il capitalismo si fa parassitario perché si lega alle rendite, cioè a un flusso di reddito costante, assicurato però da prezzi artificialmente tenuti alti dalle barriere economiche all’ingresso. Di conseguenza, a perdere la “guerra” economica è il consumatore penalizzato da prezzi più alti per acquistare beni di mediocre qualità, perchè non c’è reale concorrenza economica. A vincere invece sono i produttori nazionali protetti dallo stato, che, al riparo dalle merci straniere, non rischiano assolutamente nulla.

Ci limitiamo, tra i tanti, solo a questi due aspetti economici perché quel che desideriamo sottolineare è il cambio di mentalità culturale legato alla sostituzione dell’imprenditore che rischia con l’ imprenditore parassita.

Sembra incredibile. Si scatena una guerra economica, frutto di un meccanismo a spirale (ai dazi si risponde con altri dazi e così via), che non aumenta la qualità della vita. Anzi la peggiora. Il colmo dell’imbecillità.

Un meccanismo che come prova la storia della prima metà del Novecento favorisce conflitti e guerre. Si badi bene: dietro il protezionismo si nasconde il nazionalismo: il pessimo e stupido gusto di piantare bandierine, a prescindere dal ritorno economico. Cosa molto diversa dall’ottocentesco spirito di nazionalità, oggi difeso in Ucraina dagli artigli dell’imperialismo russo in antieconomico stile  "Terza Roma". Che dire? Magari esistesse veramente il cosiddetto Homo oeconomicus.

La questione dell’imperialismo riporta alla domanda iniziale. Per quale ragione i pacifisti non protestano contro la guerra economica? Perché di regola sono anticapitalisti, in blocco diciamo, e non distinguono tra capitalismo buono (profitti) e capitalismo cattivo (rendite). E soprattutto non intuiscono il nesso tra capitalismo cattivo e guerre. Detto altrimenti: il famigerato imperialismo che avvelenò la vita politica internazionale dalla fine dell’Ottocento fu il prodotto di un velenoso combinato disposto tra nazionalismo e protezionismo.

Il pacifista è contro le guerre ma anche contro il capitalismo, che condanna in blocco come guerrafondaio e imperialista. Il che però spiega l’incongruenza, tipica di certo pacifismo, soprattutto di sinistra (ma anche "rossobruno"), che definisce Trump un liberista selvaggio, glissando, più o meno consapevolmente, sul suo protezionismo.

Trump, in realtà, per parafrasare una vecchia formula marxista, è per il liberismo in un solo paese. Nel senso che, senza tanti complimenti, mette insieme tre fattori: capitalismo parassitario, meno stato all’interno e più stato all’esterno.

Di conseguenza il capitalismo trumpiano è un capitalismo assistito che vuole vivere di rendita e che teme il confronto esterno su un piano di parità, tipico invece del libero scambio. Ma non teme, visto che ne ha i mezzi, il confronto sul piano militare. Trump non dichiara forse ai quattro venti di essere sempre "pronto a  tutto"?  

E qui torniamo al disgraziato imperialismo di fine Ottocento: un venefico mix di nazionalismo e protezionismo che portò a due guerre rovinose.

Dopo di che, come detto, tornarono la pace e il capitalismo del rischio e dei profitti. Per ottant’anni.

E ora un imbecille, votato da altri imbecilli, che ne pagheranno le conseguenze, vuole ricominciare da capo.

Così è.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2014/05/il-libro-della-settimana-italico.html .

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