Come spiegare in che cosa consiste la differenza tra un leader liberale e un leader statalista? In modo semplice, senza tanti giri di parole?
Si prenda il G20 di Rio. Si è parlato di povertà e fame nel mondo in chiave come al solito decisamente anticapitalista. La cosa però torna utile per spiegare la differenza di cui sopra. Ad esempio la posizione di Giorgia Meloni è più vicina, se non addirittura simile, a quella di Lula, un socialista, quindi statalista tutto d’un pezzo, che a quella di Javier Milei, un liberale, amico della libertà e del libero mercato.
Si legga, in proposito, questa dichiarazione di Milei:
” ‘La maggior parte dei governi moderni, per malizia o ignoranza, insiste sull’errore secondo cui per combattere la fame e la povertà è necessario più intervento statale e più pianificazione centralizzata dell’economia’ , ha esordito Milei. Poi ha aggiunto che ‘ogni volta che uno Stato ha avuto una presenza al 100% nell’economia, che è solo un modo carino di chiamare la schiavitù, il risultato è stato l’esodo sia della popolazione che del capitale e milioni di morti per fame, freddo o crimini’ ” (*).
Per Milei, lo stato non è la soluzione ma il problema. Riesca o meno a trasformare la sua Argentina malata di peronismo, Milei è un liberale. Non c’è da aggiungere altro.
Si legga ora la dichiarazione di Giorgia Meloni:
“ ‘ Se vogliamo raggiungere la sicurezza alimentare, dobbiamo prima di tutto difendere il diritto di ogni popolo e di ogni Nazione di scegliere il modello produttivo e il sistema di alimentazione che reputano più adatto alle proprie caratteristiche’. Ogni Nazione, il ragionamento della premier, ‘ha le sue peculiarità e le scelte non possono che partire dai territori, dalle realtà locali, dalla propria cultura’ ” (**).
Per Giorgia Meloni, al contrario lo stato è la soluzione mentre il mercato il problema.
Si rifletta: qual è il corollario politico del suo ragionamento. Chi difende “le peculiarità ” dei popoli? Lo stato. Quindi in ultima istanza è lo stato che decide se aprire o chiudere al mercato.
Milei fa invece notare che la chiusura al mercato implica “fame, freddo, crimini”.
Chi ha ragione? Milei, che basa le sua tesi su una corretta analisi della storia economica mondiale. Storia che ci insegna che il mercato è apportatore di ricchezza. E che nel 1724 si viveva male. Nulla a che vedere con il 2024 . Di più, la povertà e la fame resistono in quei paesi dove autocrazia, corruzione e protezionismo hanno la meglio, come in Venezuela, Russia, Cuba. O in Africa e Asia dove prevalgono le dittature nazionaliste.
Più ci si chiude “dentro casa”, diciamo così, evocando i demoni dell’identità, più si torna indietro alle economie preindustriali. Quando, in un’economia bloccata, dove i beni non circolavano, bastava un cattivo raccolto per provocare la morte di centinaia di migliaia di persone.
Il libero mercato e diciamo pure la tecnologia alimentare hanno permesso di risolvere ciò che era un problema basico dell’umanità: la popolazione cresceva, però che cosa accadeva? Che a un certo punto, poiché il mercato era frazionato in tanti piccoli stagni (comunali, regionali, nazionali), i prodotti non circolavano, e così non si riusciva a nutrire tutti. Di conseguenza, il sovrappiù sottoalimentato moriva. E si ricominciava, fino a una nuova crisi e così via. E così è stato fino a quando scienza, tecnica e mercato non hanno permesso, negli ultimi tre secoli, una moltiplicazione dei beni che, dal punto di vista retrospettivo, ha del miracoloso.
Pertanto, invece di strapparsi i capelli sui 700 milioni di poveri, oggi esistenti, più o meno la decima parte dell’umanità, e di maledire “il capitalismo”, si dovrebbe ricordare e sottolineare, anche con giusta soddisfazione, che nel 1724, i poveri erano quasi i nove decimi dell’umanità (***).
Il sistema capitalistico funziona. Però per funzionare ha necessità di frontiere aperte e massima libertà individuale di viaggiare, migrare, commerciare, inventare. Ma diremmo pure di conoscersi, amare, ammirare, scoprire.
A tale proposto, non si può non definire inquietante quanto dichiarato da Giorgia Meloni sul rapporto tra tecnologia e beni alimentari. Si legga qui:
“ È ‘fondamentale il ruolo della ricerca’ ma ‘non per produrre cibo in laboratorio’ che significherebbe andare verso un mondo nel quale ‘chi è ricco potrà mangiare cibo naturale e a chi è povero verrà destinato quello sintetico’. E’ uno dei concetti che, secondo quanto si apprende, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ribadito al G20 di Rio de Janeiro, ripetendo che quello non sarebbe ‘il mondo nel quale voglio vivere’ ” (****).
Roba da complottisti alimentari, stupidaggini che partono da due pre-assunti sbagliati. Il primo, antiscientifico che attribuisce al cibo sintetico un valore non nutritivo. Il secondo, classista, che preconizza una futura realtà piramidale di tipo fantascientifico.
Insomma, Giorgia Meloni, naviga intellettualmente (parola grossa) tra pregiudizi antiscientifici e fantascienza. E questo perché la sua cultura della tentazione fascista la spinge inevitabilmente a odiare il libero mercato e disprezzare la libertà tout court. Soprattutto quando parla di difesa delle identità collettive, la Meloni cade nello stesso errore storico del nazionalista che vedeva e vede nella libertà individuale non un’opportunità ma un ostacolo.
Un’ultima cosa. In Italia la sinistra ha vinto le regionali in
Emilia-Romagna e in Umbria. La cosa può anche fare piacere a coloro che
avversano il governo Meloni. Però c’è un fatto: che, al momento,
questa sinistra (a maggior ragione se in “campo largo”) non è
liberale. Addirittura estremizza le sue posizioni anticapitaliste. Si pensi solo alla monomania welfarista.
Detto altrimenti: è lontana da Javier Milei come lo è Giorgia Meloni.
Cosa significa? Nulla di buono. Che la sinistra estrema e la destra estrema si toccano.
E questo è un grosso problema.
Carlo Gambescia
(***) Sul punto si vedano: Sergio Ricossa, Storia della fatica, Armando 1974 (economista) e Piero Melograni, La modernità e i suoi nemici, Euroclub, Milano 1996 (storico). Nonché, Hans Rosling, Factfulness. Dieci ragioni per cui non capiamo il mondo. E perché le cose vanno meglio di come pensiamo, Rizzoli 2018 (medico e statistico).
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