lunedì 16 settembre 2024

Open arms. L’infame sorrise

 


Sul processo Open Arms, per andare oltre la polemica cavalcata dalla destra sui giudici politicizzati, crediamo sia prima utile ricordare i fatti.

« Il primo agosto 2019 una nave della Open Arms, in due interventi di salvataggio, prende a bordo 124 persone; il giorno seguente viene chiesto un porto sicuro in Italia, ma viene notificato il divieto di ingresso nelle acque territoriali. Il 9 agosto i legali della ONG chiedono al competente tribunale di Palermo di far sbarcare i minori; Il 10, con un nuovo intervento di salvataggio, vengono imbarcate altre 39 persone; i trasferimenti sulla terraferma vengono consentiti solo per motivi di salute. Solo il 14, dopo un pronunciamento del Tar del Lazio la nave fa rotta verso Lampedusa pur non avendo il permesso di entrare in porto. Nei giorni seguenti vengono comunque portati a terra 32 minori e altre persone bisognose di cure mediche; alcuni migranti si gettano dalla nave per tentare di arrivare a nuoto nell’isola. Il 20 agosto, infine, il procuratore di di Agrigento sale a bordo della nave e dopo un’ispezione dispone lo sbarco e il sequestro preventivo d’urgenza della nave; lo stesso giorno la nave attracca nel porto di Lampedusa con gli ultimi 83 migranti » (*) .

Tecnicamente, ai migranti, che senza l’intervento di un privato, Open Arms, avrebbero rischiato la vita, non fu “data terra”. Cioè la fu data solo dopo venti giorni. Sul punto si legga la Memoria della Procura di Palermo.

«Di per sé indubbia in ossequio alle leggi del mare secondo cui “bisogna dare terra ai naufraghi”, ha impegnato il dibattimento nella ricerca capillare di qualsiasi elemento idoneo ad evidenziare la eventuale non configurabilità di quell’obbligo o il suo venir meno o, più semplicemente, la possibilità di un suo adempimento postergato. Analisi questa che, di converso, ha dovuto considerare l’eventuale corrispondente insorgenza del diritto delle 147 parti offese a vedere immediatamente garantito, da parte dello Stato italiano ove erano sopraggiunte, il bene giuridico della loro libertà personale che la Repubblica tutela nell’art. 13 della sua Carta Costituzionale» (**)

Va però detta un’altra cosa. E non per difendere Salvini. Personaggio politicamente abominevole. All’epoca il governo giallo-verde, il Conte I, lasciò politicamente fare, permettendo a Salvini, dal momento che erano note le sue idee razziste su ciò che egli ora chiama “difesa dei confini”, di dare un esempio politico, nascondendosi o meno dietro la burocrazia del Ministero dell’Interno. A proposito della corresponsabilità politica del Movimento Cinque Stelle – non penale, però a dirla tutta, “sentire” anche Conte, no? – non si dimentichi che, mesi prima, nel giugno del 2019, il Consiglio dei ministri aveva approvato il “decreto sicurezza bis”, che prevedeva pesanti sanzioni amministrative e penali proprio per impedire alle ONG di svolgere attività umanitarie in favore dei migranti in stato di pericolo.

Inoltre è interessante riflettere sulla tesi di fondo avanzata dalla procura palermitana. Si tratta, come acutamente osservato dai magistrati,  del classico contrasto tra forza e diritto. Non è una questione di processo alla linea politica. Messa così. Anche Hitler aveva una linea politica sugli ebrei. Ci piacerebbe conoscere la votazione riportata dalla dottoressa Bongiorno (avvocato di Salvini), che difende questa tesi, all’esame di Filosofia del diritto.

 Ma torniamo al contrasto. Si legga qui:

«Non è accettabile l’idea di anteporre la protezione dei confini nazionali ai diritti umani […] . C’è un principio chiave non discutibile: nel nostro ordinamento, per fortuna democratico, i diritti umani prevalgono sulla protezione della sovranità dello Stato [… ]. La persona in mare va salvata ed è irrilevante la sua classificazione: migrante, componente di un equipaggio o passeggero [ perché] per il diritto internazionale della convenzione Sar anche un trafficante di essere umani o un terrorista va salvato, poi se è il caso la giustizia fa il suo corso» (***).

Ora, ripetiamo, al di là delle polemiche politiche per smuovere l’elettorato, dell’ipocrisia della destra razzista, e delle passate complicità politiche del Movimento Cinque Stelle, con il quale il Partito democratico ha governato (Conte II) e si propone di tornare a governare ( il famoso “campo largo”), il vero punto è nella sacrosanta reintegrazione giuridica di un diritto umano che Salvini, all’epoca Ministro dell’Interno, ha calpestato. Usando la forza contro il diritto. Una scelta, come asserisce, di cui continua ad essere  felice e orgoglioso.

Per dirla con un classico della letteratura italiana, oggi purtroppo  dimenticato, l’infame sorrise. E sorride ancora.

Carlo Gambescia

(*) Qui (Wikipedia): https://it.wikipedia.org/wiki/Proactiva_Open_Arms .

(**) Scaricabile qui: https://www.giurisprudenzapenale.com/2024/09/15/processo-open-arms-ministro-matteo-salvini-imputato-per-sequestro-di-persona-la-requisitoria-della-procura-di-palermo/ .

(***) (**) Qui: https://www.ansa.it/sicilia/notizie/2024/09/14/open-arms-il-pm-chiede-6-anni-di-reclusione-per-salvini.-meloni-totale-solidarieta_1653504a-c9db-4f61-a1e6-06577ea5d2e8.html .

domenica 15 settembre 2024

Le nuove invasioni barbariche

 


I nuovi barbari sono fra noi. Perciò invitiamo i lettori a documentarsi. Come? Andando in edicola, come si faceva un tempo, per comprare e leggere “La Verità”. Cosa durissima da mandare giù. Ma se si vuole toccare con mano…

Una lettura attenta, perché  “La Verità” è la punta di lancia di quel blocco ideologico-giornalistico che riunisce, “Libero”, “Il Giornale”, “Il Tempo”, e altre testate minori. Un quotidiano abilissimo nel diffondere, di regola con la clava, il nuovo pensiero unico della destra.
Una destra barbarica, urlante, selvaggia, estranea alla civiltà liberale che sta prendendo piede in Occidente, in Europa come negli Stati Uniti.

Si prenda la prima pagina di oggi del quotidiano fondato e diretto da Belpietro. Si apre con una difesa a spada tratta di Matteo Salvini, un barbaro che non ha mai nascosto il suo razzismo. Anzi se ne fa scudo. Si parla di “difesa di confini”. Un’ espressione che non si sentiva più dai tempi barbarici del fascismo. Ovviamente, “La Verità” sottolinea l’unità di azione tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini: un specie di blocco tribale unico in difesa della patria, intesa come suolo e sangue.

Borgonovo, più sotto, rivendica il carattere unico della religione cattolica. Il suo è un mellifluo elogio dello stato confessionale, quindi tribale: il braccio armato della chiesa cattolica. Quindi dopo la patria, dio. Il dio degli eserciti. Che ha bisogno di soldati. Di famiglie riproduttrici di guerrieri. Per la destra dio e famiglia sono fattori funzionali alla grandezza della patria-tribù.

Veneziani, parla nuovamente di egemonia culturale. Un linguaggio vecchio, totalitario, tribale, da “cinema, l’ arma più forte del regime”. Veneziani scorge nella cultura un’arma per costringere gli altri membri della tribù, cioè la gente comune, a cambiare idea, a uniformarsi. La cultura come modello e modellamento dell’individuo. Quindi cultura come danza della guerra. Per ora culturale.

Poi si irride al piano Draghi, si macchiettizza Maria Rosaria Boccia, si ironizza su Bill Gates. Propaganda ordinaria basata sul richiamo della foresta antisinistra. Il solito giochino delle contraddizioni: tipo “quando fa comodo alla sinistra, eccetera, eccetera”.

Quale visione del mondo “La Verità” trasmette ai suoi lettori? Che gli unici valori veri, ai quali uniformarsi, sono la patria, dio e una cultura che difende, con il martello di Thor, la famiglia, rigorosamente etero. Veneziani, mostrando una faccia di bronzo stellare, ama ergersi a paladino delle belle famiglie italiane di un tempo. Invece nel pezzo di oggi cerca di elemosinare l’attenzione di Massimo Cacciari, ormai leone spelacchiato. Profeta di una rivoluzione fatta fare agli altri. Che, dall’alto di due o tre pensioni, si interroga sul declino dell’Occidente. Invece di preoccuparsi di quello dell’Inps.

Visione del mondo, abbiamo detto. Ma quale può essere la reazione dei lettori? Di essere, e in modo granitico, dalla parte dei valori eterni: dio, patria e famiglia. Che c’è di meglio di una bella danza comunitaria intorno totem dopo aver tagliato la gola ai nemici?

L’egemonia della destra è particolarmente pericolosa perché disprezza profondamente la libertà individuale, che schiaccia sotto il peso di una visione totalitaria. Per parlare difficile: siamo davanti a una visione olitistica, da òlos ( gr. tutto, totalità), Il tutto (dio, patria, famiglia) deve sempre prevalere sulla parte (individuo). Il lettore memorizzi. Sappiamo di ripeterci, ma è questione cognitiva fondamentale per capire la distanza che corre tra la civiltà liberale e le orde barbariche.

Si è criticato il politicamente corretto. Si critica la cosiddetta cultura Woke. Si rifletta bene su un punto. Il politicamente corretto e il revisionismo storico-politico, partono comunque dalla difesa dell’individuo, che ovviamente viene difeso nel modo sbagliato, affidandosi al ruolo dello stato “redistributore” diritti. Quindi ricadendo nell’olismo.

Però la sinistra parte dall’individuo e da questioni che riguardano l’esercizio della libertà individuale. E questo è il lato positivo. Un aspetto sconosciuto alla destra barbara, che parte dall’olismo e torna all’olismo. Come? Rivendicando, a prescindere, il valore assoluto di entità esterne all’individuo come patria, dio e famiglia, nega la libertà individuale. Dipinta falsamente come apportatrice di decadenza, corruzione dei costumi, eccetera, eccetera. In questo modo si recidono le radici di una società liberale, aperta, lontana anni luce  da ogni forma di tribalismo, patriarcalismo e fondamentalismo.

Si potrebbe parlare de “La Verità” come di un specie di “gazzetta” delle nuove invasioni barbariche. E non parliamo dei poveri migranti. Ma di gente come Trump, Musk, Salvini, Meloni, dei quali “La Verità” è la cassa di risonanza.

Leggere per credere.

Carlo Gambescia

sabato 14 settembre 2024

Letteratura in bianco o nero

 


Umberto Eco ha venduto 50 milioni di copie de Il nome della Rosa (1980). Una giovane scrittrice italiana, un tempo si sarebbe detto di romanzi rosa, Felicia Kinglsey (al secolo Serena Artioli) ha invece venduto, dal 2016 (anno di uscita del suo primo romanzo) più di 1 milione di copie. Ne ha scritti una quindicina, tradotti anche all’estero.

La regina di questo tipo di letteratura, romance, magari innobilita con un poco di pepe culturale, resta al momento Susanna Tamaro, con i 14 milioni di copie di Va dove ti porta il cuore (1994). Ma in Italia si tratta di una tradizione che da Liala e Peverelli giunge fino ai romanzi d’appendice pubblicati da Carolina Invernizio. Oppio secondo alcuni critici. Ma amato. Il dolce naufragar, eccetera, eccetera. Il mondo è complicato. Con i flussi coscienza, anche popolari, è difficile ragionare. E peggio ancora salire in cattedra.

Sul piano della saggistica il generale Vannacci in meno di un anno ha venduto più di 500 mila copie de Il mondo al contrario. Ha trovato più acquirenti in un anno, di quelli intercettati dal Mein Kampf (1925-1926) fino al gennaio del 1933, quando Hitler agguantò il potere: 241 mila copie.

Ne Il Nome della rosa, un cervellone come Eco, professore, bibliofilo, conversatore brillantissimo, eccetera, fece astutamente alcune concessioni ai gusti del popolo. Lo schema del libro è quello del giallo popolare, vittime, colpevole, scoperto all’ultima pagina o quasi.

Questo per dire che i gusti della gente comune sono semplici. Non si vuole pensare troppo. Resta celebre quel passaggio di “C’eravamo tanto amati”, quando una graziosa Giovanni Ralli, figlia di un becero costruttore, non ancora acculturata, rivolta al marito Vittorio Gassman, scettico blu, definisce I tre moschietteri un libro tosto.

Gli storici ci informano, che nelle trincee italiane della Prima guerra mondiale, i libri più letti erano quelli di Guido da Verona, quello di Mimì Bluette fiore del mio giardino, un D’Annunzio minore, che però, a differenza del Vate, non avvertiva la necessità subculturale di saccheggiare altrui raccolte di versi e dotti vocabolari specializzati, come impietosamente provò quel mezzo diavolo di Mario Praz ( e che il lettore non porti mano…)

Tutto questo spiega il successo del libro del generale Vannacci: bianco e nero. O se si preferisce: bianco o nero.

L’ uomo comune così vede il mondo. Non ama le sfumature e non sa che farsene delle allusive punture di spillo (così le vede) della Recherche proustiana. Chi scrive, ricorda una conoscente, fans di Raffaella Carrà, che non riuscì mai ad andare oltre la prima pagina di Guerra e Pace: grandissimo romanzo però fitto fitto di sfumature, che probabilmente, andando oltre le intenzioni di Tolstoj, invitano a riflettere sul ruolo che il caso e la necessità giocano negli eventi umani. Un romanzo complesso. Ovviamente non per chi in fila, davanti alla cassa, sia uso fissare il sedere della signora davanti. Il lettore di Tolstoj, anche in quei momenti, continua a vagare con le mente. C'è ma non c'è.

La “gana” del bianco o nero, del Nodo Gordiano da tagliare a tutti costi, ma per interposta persona, spiega la fortuna editoriale dei legal thriller americani, dei cicli tipo Il Signore degli Anelli”, Harry Potter e dei trenta milioni di copie di Via col vento (1936).

Ripetiamo: bianco o nero, trattato però in modo romanzesco. Ma entro certi limiti, perché il lettore più che capire vuole immedesimarsi. E da lontano, meglio se in un caldo lettone. Il romanzo come proiezione di un Io comune, collettivo, e perciò identitario, fin troppo semplice, addirittura banale. Si potrebbe parlare del romanzo dell’ “Io semplice”.

Per contro, Il saggio – in senso editoriale – se troppo semplice, se rivolto all’io serializzato, può essere pericoloso. Soprattutto se di taglio politico-ideologico. I danni del Mein Kampf sono tuttora sotto gli occhi di tutti. Un’opera che sembra abbia venduto addirittura ancora di più dopo la caduta di Hitler (fino al 1945, 12 milioni di copie). Chi parla di cento milioni di copie. Chi centocinquanta, chi duecento. Insomma, tante, forse troppe, rispetto ai 35 milioni di copie del Diario di Anna Frank (*).

Ovviamente la Bibbia, resta il libro più venduto in assoluto, dai cinque ai sette miliardi di copie. Però se ci si pensa bene: dentro c’è di tutto , soprattutto per i palati meno fini: la giustizia e la vendetta, la guerra e la pace, l’amore e l’odio, il dio giusto e il dio ingiusto, il dio buono e il dio giustiziere.

Insomma, esistono due Bibbie, la Bibbia degli studiosi e la Bibbia del popolo. E in quest’ultimo caso si ritorna alle risposte semplici alle questioni difficili. Bianco o nero.

Sotto questo aspetto il libro del generale Vannacci è una piccola Bibbia del populismo. Dà risposte, più che semplici, semplicistiche a questioni complicate. Il metodo è quello del Nodo Gordiano. Bianco o nero.

E visto che siamo in Italia, patria di Mussolini, inventore del fascismo, una specie di romance ideologico, finito malissimo, autore e opera vanno tenuti d’occhio.

Esageriamo? La parola al lettore.

Carlo Gambescia

(*) Per i dati sulle vendite, per comodità del lettore rinviamo qui: https://it.wikipedia.org/wiki/Libri_pi%C3%B9_venduti . Sul Mein Kampf, (titolo cumulativo), che si divide in due tomi (I. Resa dei conti e II. Il movimento nazionalsocialista, rinviamo qui: https://encyclopedia.ushmm.org/content/it/article/mein-kampf .
Si veda anche la nostra recensione, qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2017/04/in-libreria-la-prima-edizione-critica.html . Le cifre sul suo venduto dopo il 1945 sono ipotetiche ( fonti varie).

venerdì 13 settembre 2024

L’Unione Europea e l’appuntamento mancato con la democrazia parlamentare

 


L’idea del riconoscimento all’Italia di un  ruolo importante sostenuta da Giorgia Meloni è qualcosa di semplicistico. Una specie di lagna infantile che tramuta una questione, che potrebbe essere gestita in termini di par condicio istituzionale, cosa normalissima in una democrazia parlamentare, in una battaglia nazionalistica, che fa indubbiamente il gioco della destra. Perché semplifica fin troppo le cose e non aiuta gli elettori a capire la differenza tra la democrazia liberale e l’antidemocrazia dei rapporti di potenza tra gli stati.

Di cosa parliamo? Il principale problema delle istituzioni parlamentari europee è legato a un fatto molto semplice: al non aver mai superato il conflitto tra le nazioni, tra le forze centrifughe. Cioè, è vero che esistono gruppi parlamentari, distinti per colore politico, conservatori, centristi, progressisti, ma è altrettanto vero che questi gruppi continuano tuttora a rispondere al richiamo della foresta nazionalista. In realtà sotto questo aspetto la sinistra, internazionalista per Dna, è più avanti della destra, anzi di certa destra di ascendenza fascista, legata ai mitemi nazionalisti.

Infatti, la sinistra pone all’ingresso della destra di Fratelli d’Italia in quello che potrebbe essere una specie di governo europeo – la Commissione – un no di tipo politico, quindi non di natura nazionalista. Tradotto: non vi vogliamo nel “governo” non perché siete italiani ma perché siete di destra, una destra che, cosa ancora più grave, non ha mai fatto i conti con il fascismo.

Si tratta di una opzione politica, giustificatissima dal punto di vista della democrazia parlamentare. Una scelta che rinvia all’idea di maggioranza politica, di cui ovviamente non può fare parte un membro dell’opposizione. Altra cosa sono invece gli incarichi istituzionali, dove è necessaria una par condicio (la presidenza di una della due camere, di una commissione, eccetera, eccetera).

Il problema di fondo è che il Parlamento europeo non è una democrazia parlamentare, perché la scelta della Commissione, una specie di governo europeo – per non parlare del Consiglio Europeo – risponde a criteri nazionalistici, di equilibrio, duramento ricercato, tra potenze.

Il che spiega, le rivendicazioni antiparlamentari e nazionaliste di Giorgia Meloni, che pretende che all’Italia sia data l’importanza che le spetta non sotto il profilo parlamentare, ma sotto quello dell’equilibrio di potenza. Però, per capirsi, dal punto di vista della democrazia parlamentare, sarebbe come se in Italia, Il Partito democratico, rivendicasse la vicepresidenza del consiglio o un dicastero nel governo Meloni…

Il grande equivoco rimane proprio questo: il voltafaccia europeo, fin dal lontano giugno del 1979 quando si votò per la prima volta. Detto altrimenti: il sacrificio del principio della democrazia parlamentare sull'altare delle  ragioni nazionalistiche degli stati.

Invece di puntare sulla dinamica ottocentesca dello stato unitario, costituzionale, con al centro il parlamento nazionale, come meraviglioso momento di fusione centripeta, politica, cioè di superamento dei particolarismi, si è puntato su una specie di pasticcio politico tra nazionalismo e parlamentarismo sotto tutela. Tra forze centripete e centrifughe. Se l’Unione Europea, così come è oggi, fosse un vino sarebbe imbevibile.

Un appuntamento mancato con la vera democrazia parlamentare sfruttato dalle destre sovraniste. Si pensi ad esempio all’accusa di anti-italianismo rivolta da Fratelli d’Italia agli avversari interni ed esterni. E al conseguente dilemma che agita il cuore politico della Schlein, che appare condizionata dall’accusa di essere anti-italiana in caso di un mancato appoggio a Fratelli d’Italia. Una cosa terribile, il cancro nazionalista è il nemico principale di qualsiasi sana pratica parlamentare, perché tramuta, ripetiamo, il no politico in alto tradimento.

Qualcosa di anacronistico. E che denota la stessa arretratezza culturale manifestata in Italia dalle varie leghe settentrionaliste e meridionaliste.

Purtroppo esiste un filo rosso che accomuna l’egoistica  protesta identitaria, che va dal più piccolo comune allo stato nazionale.

Per contro, l’esperimento liberale otto-novecentesco, attraverso la centralità delle istituzioni parlamentari e il libero confronto tra partiti politici “rappresentanti” della nazione e non mandatari delle consorterie regionali, a cominciare da una fisiologica divisione in destra e sinistra, favorì la fusione di interessi e valori sul piano nazionale. Fu un passo avanti politico.  Ed è ciò che invece non è accaduto nel processo di “unificazione” europea. Dove prevalgono ancora le consorterie nazionali. Il nazionalismo è una specie di malattia infantile  che quando si cronicizza può intralciare il cammino della democrazia liberale.

Per quale ragione questo mancato appuntamento?  Ripetiamo,  perché si è privilegiata, fin dall’inizio, la redistribuzione del potere politico per nazioni invece che per partiti politici, sottovalutando il creativo ruolo fusionale di un Parlamento europeo capace di esprimere ministri europei, non italiani, francesi, tedeschi, eccetera. E cosa ne è venuto? Il controllo dall’alto – e qui si pensi nuovamente al ruolo del Consiglio europeo – con il bilancino dell’equilibrio tra potenze, attraverso l’interazione tecnocratica, o comunque tra burocrazie, centrale e nazionali, altamente specializzate: mandarini capaci di muoversi negli stretti spazi lasciati liberi degli egoismi nazionali.

Insomma, all’aria aperta dei grandi ed eroici dibattiti parlamentari dell’Ottocento si è sostituita l’aria viziata del confronto tra capi di stato, tecnocrazie e burocrazie.

In sintesi, il “governo” europeo, la Commissione, per non parlare del Consiglio europeo, non sono espressione di maggioranza politiche ma di istanze nazionali, spesso nazionalistiche, sempre di tipo particolaristico. Di conseguenza il Parlamento europeo ha un valore più decorativo che funzionale.

Di qui le stupide ed egoistiche discussioni sul ruolo dell’Italia, dell’Ungheria e degli altri corifei di un nazionalismo che un’ autentica democrazia parlamentare, ovviamente nel tempo, avrebbe mitigato se non addirittura spazzato via.

E invece? Ora il “male ” è talmente avanzato, al punto che potrebbe essere troppo tardi per intervenire.

Così è.

Carlo Gambescia

giovedì 12 settembre 2024

Potrà bastare l’appello al “citizen” di Kamala Harris?

 


Abbiamo l’impressione, che al di là delle risate, risatine, battute e battutine social, sia sfuggito ai più, e in particolare ai mass media, il senso profondo di quanto dichiarato da Trump, con ghigno pseudohitleriano, davanti a un pubblico mondiale, sulla strage di gatti (semplificando) a Springfield, Illinois, che vede inevitabilmente colpevoli migranti haitiani al centro di un programma speciale, quindi regolari, eccetera, eccetera (*).

Trump rilancia, in modo spudorato, una fake news, messa in circolazione da influencer dell’ estrema destra repubblicana (*).

Qual è il senso profondo di tutto ciò? Che c’è chi crede a queste cose e c’è chi le usa politicamente. E che questo accade, dopo la sbornia propagandistico-totalitaria, che avvelenò il XX secolo. A cominciare dal quel capolavoro (si fa per dire) di purissima disinformazione politica, rappresentato dal Mein Kampf. Uno spaventoso fuoco di menzogne sugli ebrei. Credute però da milioni di persone fino all’ultima parola.

Che dire?

Si può fare, con Pareto, un discorso sui meccanismi psichici dell’uomo, sul famoso istinto delle combinazioni. Cioè riflettere sulla necessità umana di proporre gli accostamenti argomentativi più bizzarri pur di dare una spiegazione pseudorazionale alle cose. Si tratta come insegna Pareto di un residuo profondo, tipico del comportamento sociale.

Si può evocare la distruzione della ragione, frutto di interessi illeciti e valori inumani, come punto di arrivo della disgregazione morale del mondo borghese.

Si può proclamare la morte di dio, la catastrofe finale della folla solitaria, eccetera, eccetera, ma resta il fatto, il duro fatto, che c’è chi crede a queste fandonie  e chi le usa più o meno spregiudicatamente per agguantare il potere. E, ripetiamo, è creduto. Rabbiosamente creduto.

Se Kamala Harris, rappresenta, ciò che un sociologo tedesco naturalizzato americano, Alfred Schütz, seguace di Weber e Husserl, definiva il “cittadino bene informato”, tollerante, che legge, ragiona, discute civilmente, mai risentito. Il citizen posato insomma. Donald Trump chi rappresenta?

Alcuni osservatori, piuttosto superficiali, definiscono Trump come il portavoce dell’uomo dimenticato (forgotten men). Dimenticato da chi? Da una democrazia liberale e da un mercato libero mondiale che in realtà, si dice, non sono tali. Che illudono, corrompono, eccetera, eccetera. Ma cosa c’entrano le presunte ingiustizie politiche ed   economiche  con la fake news sui gatti sterminati? Nulla.

Facendo un passo indietro, allora anche Hitler, a sua volta, rappresentava l’uomo dimenticato dalla Repubblica di Weimar. Un paladino della giustizia sociale.   Che però – ecco il punto dolente della “teoria” – una volta inquadrato da Hitler, si dedicò, in modo attivo o passivo, ad altre forme di sterminio. Altro che giustizia sociale.

In realtà il vero punto della questione è che la retorica sull’uomo dimenticato è pericolosa. Giustifica  una visione distorta della realtà. Non ci sono uomini dimenticati al cento per cento. Il confine tra fallimento individuale e fallimento sociale è molto sottile. L’attribuzione di responsabilità ha natura politica. Molto spesso propagandistica, folcloristica, moralistica. Ciò che per alcuni osservatori è fallimento sociale, per altri è individuale.

Inoltre l’uomo per natura sociale tende quasi sempre ad attribuire in modo codardo a soggetti esterni il proprio comportamento, giusto o errato che sia. L’esame di coscienza individuale, come patrimonio laico esteso a tutti gli uomini, ha pochi secoli di storia: il miracoloso portato del protestantesimo e dell’individualismo moderno. E deve tuttora sedimentare.

Si dimentica che il cosiddetto uomo dimenticato è un ignorante, credulone, spesso un fallito, che addebita i propri errori a entità esterne, dalla società a dio. Sotto questo aspetto l’idea trumpiana di un’ America più grande, rimanda al “Deutschland über alles”, condiviso e rilanciato dai nazionalsocialisti e dai milioni di volenterosi carnefici di Hitler.

L’ idea di un’ America più grande rappresenta l’entità esterna abbracciata dall’esercito di falliti che vuole votare Trump. Il quale indica loro il capro espiatorio: il migrante, Washington e il complotto federale, le élites ricche e corrotte, l’Europa pigra  e insolvente, e così via.

Si dirà, che chi scrive è senza cuore, e che dimentica che talvolta l’uomo, pur non avendo nulla da rimproverarsi, precipita comunque verso il basso. Vero. Ma la percentuale di sfortunati e falliti, a meno che non si creda ancora nella pseudoteoria marxiana sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, si è fortemente ridotta negli ultimi secoli. Il nostro mondo non sarà perfetto, ma resta, in cinquemila anni di storia documentata, il migliore dei mondi possibili.

Giochiamo sui grandi numeri? In fondo anche il nostro è una sorta di provvidenzialismo, come spesso si legge, “liberal-capitalista”? Predichiamo la rassegnazione? Giudichi il lettore.

Resta però il fatto che dietro la fake news sui gatti, dietro i creduloni, dietro i successi elettorali di Trump, si nasconde un elemento di risentimento sociale. Per alcuni giustificato, per altri no.

Alla sua base c’è, piaccia o meno, un fattore psicologico-morale, ricorrente nell’uomo, di tipo sentimentale, non controllabile, frutto, crediamo, dell’istinto paretiano delle combinazioni, un residuo sociale che rende il presunto forgotten men molto pericoloso, perché  in cerca di capri espiatori. E quanto più lo si blandisce o giustifica, tanto più diventa rabbioso. Proprio come negli anni di Weimar, quando nazisti e comunisti, complice il disarmato pietismo di socialdemocratici e democratici, affondarono la Prima repubblica tedesca. E Trump sembra essere assetato di potere, proprio come Hitler. Ovviamente non è il suo clone, ma è  molto  pericoloso. Non solo per gli Stati Uniti ma per l'intero Occidente.

Se la situazione è questa, potrà bastare l’appello al posato citizen di Kamala Harris?

Carlo Gambescia

(*) Sulla fake news  si veda qui: https://www.today.it/mondo/trump-harris-fake-news-gattini-oche-mangiati-haitiani-springfield.html .

mercoledì 11 settembre 2024

La “purga” di Palazzo Chigi

 


L’allontanamento dei poliziotti dal piano dove si trovano gli uffici  di Giorgia  Meloni a Palazzo Chigi non è di routine. Si tratta di una “purga” che non ha precedenti.

Il fatto merita perciò alcune considerazioni.

In primo luogo, va rilevata la contraddizione principale. Un partito, Fratelli d’Italia, che rimprovera agli altri partiti l’assenza di senso dello stato e delle istituzioni, che invece  non si fida della polizia, istituzione tra le principali. Se si rifiuta la presunzione di legalità, cioè la convinzione, a prescindere, che il poliziotto faccia il suo dovere, si aprono gli spazi moralmente incustoditi per un’ idea di polizia politica, di parte, o peggio partitica, che è lì – nel caso a Palazzo Chigi – solo per proteggere il partito al governo, o per spiarlo. Il che, comunque sia, fuoriesce, e nettamente, dal quadro della liberal-democrazia e dello stato di diritto, perché si introduce l’elemento Gestapo o Kgb.

In secondo luogo, la sfiducia è dettata dalla paura, e la paura, come insegna Gugliemo Ferrero ( e ancora prima, per i moderni, Montesquieu), rimanda alla difficile condizione del tiranno, che, vivendo nella e di illegalità, teme di cadere da un momento all’altro e quindi scorge complotti ovunque. E perciò, ripetiamo, vive nella paura. Si dirà che Giorgia Meloni è andata al potere legalmente, non violando alcuna legge, e che di conseguenza, è improprio evocare il concetto di tirannia. Certo. Però le radici politiche di Fratelli d’Italia, rinviano al Movimento Sociale, partito fiero delle sue origini fasciste. E il fascismo fu una tirannia. Che visse nella paura, sparse sangue,  e cadde in un mare di sangue. Sono cose che non vanno ignorate.

In terzo luogo, è inquietante l’atteggiamento di un governo che sembra vedere nemici e complotti ovunque. Ora, è vero che a pensare male, eccetera, però una cosa è prendere atto dell’esistenza in politica del “colpo basso”, un’altra ridurre la politica al “colpo basso”. E qui si apre il capitolo su come “questa” destra dipinge la sinistra dal 1994, dal cosiddetto “sdoganamento” berlusconiano. Si rifletta. Se fosse vera la narrazione (oggi si dice così) della destra, di una sinistra composta di giornalisti, magistrati, ricchi snob, pronti a complottare tutti insieme, la destra, tra il 1994 e il 2024, non avrebbe governato, a varie riprese, per 13 anni, pareggiando i 13 della sinistra (quattro anni su trenta “toccano” invece ai governi tecnici, Dini, Monti, Draghi).

Quanto alla Prima Repubblica fu proprio la destra a chiamarsi fuori ( gli sdegnosi "esuli in patria") e  a esibire tutto il campionario:  dai tentativi di colpo di stato al terrorismo. È vero che anche la sinistra ha dato il suo contributo, per così dire, soprattutto nelle sue frange rivoluzionarie, ma sul piano del terrorismo. Cosa terribile, con grande spargimento di sangue, che però nel caso della sinistra si è sviluppata senza connivenze interne alle istituzioni dello stato.

Se qualcuno ha complottato, ma nelle famose fogne, inquinando le istituzioni, questa è proprio la destra dalle radici fasciste.

Il che ci riporta alla mentalità complottistica di Giorgia Meloni. E di conseguenza all’allontanamento dei poliziotti dal piano nobile di Palazzo Chigi. Alla “purga insomma.

I fascisti sono fatti così.

Carlo Gambescia

martedì 10 settembre 2024

Draghi e la via europea al protezionismo

 


A leggere i giornali di oggi, anche quelli economici, in teoria amici del libero mercato, sembra sia sfuggito un aspetto fondamentale del Rapporto Draghi sulla Competitività (The future of European competitiveness), presentato ieri, circa quattrocento pagine, divise in due volumi.

Cosa è sfuggito? Il suo presupposto. Quale? Che l’era del libero scambio mondiale, segnata dal multilateralismo, stia finendo. E che quindi l’Unione Europea debba tornare quanto prima al bilateralismo e al protezionismo. Si legga qui:

The era of open global trade governed by multilateral institutions looks to be passing, and the EU’s trade policy is already adapting to this new reality. The global trading order based on multilateral institu¬tions is in deep crisis, and it remains uncertain whether it can be brought back on track. While the EU should continue efforts to reform the WTO – and especially to unlock the dispute settlement mechanism – the EU must adapt its trade policy to a new reality. This process is already underway. The EU has also continued to expand its bilateral trade network negotiating over 40 individual trade agreements with different countries and regions The EU has also continued to expand its bilateral trade network negotiating over 40 individual trade agreements with different countries and regions” (*)

Draghi non lo dice apertamente. Ma va da sé che gli Stati Uniti e quella parte di mondo alleata all’Occidente pagheranno pegno, con l’ esclusione. O comunque saranno guardati, soprattutto gli Usa, come avversari e non più partners. E – non si dimentichi mai – la trasformazione dell’ avversario in nemico è un attimo. In particolare se in Europa le destre nazionaliste dovessero guadagnare altro terreno.

Il Rapporto Draghi, in particolare questa parte, meriterebbe di essere studiato sotto l’aspetto del realismo politico a breve termine (a quo). Un realismo schiacciato sul presente. Che rischia (anche qui si noti la sottovalutazione degli effetti perversi delle azioni sociali: si vuole il bene si consegue il male) di fornire al nazionalismo la giustificazione teorica per combattere il libero mercato su due versanti: quello del protezionismo nazionale e quello del protezionismo europeo in chiave antimericana e di “Europa Nazione” (non “delle nazioni” eventualmente), vecchia idea neofascista.

Il realismo dalla vista corta di Draghi (a quo), a differenza del realismo politico ad quem che guarda alle conseguenze future del protezionismo (la guerra di tutti contro tutti), si fonda, come per il famoso apprendista stregone, sulla ottimistica idea di poter gestire le forze protezioniste scatenate da Draghi stesso (**). Purtroppo non è così.

In primo luogo, Draghi, di colpo, cancella un patrimonio di valori comuni tra Stati Uniti ed Europa e seppellisce l’idea stessa di libero scambio multilaterale.

In secondo luogo, Draghi sembra ragionare come il Keynes della metà degli anni Trenta, quando propose per l’Impero britannico un sistema autarchico (***). All’isolazionismo americano e al nazionalismo arrembante in Europa, Keynes, altro realista politico a breve termine, rispose con l’idea di chiusura, cioè con lo “splendido isolamento” commerciale. L’idea, a dire il vero già diffusa negli ambienti politici dell’epoca, accrebbe l’odio verso la “Perfida Albione”. Inutile ricordare come andò a finire. La guerra mondiale che si voleva evitare, chiudendosi ermeticamente in casa, esplose comunque e per la Gran Bretagna, e lo stesso Impero, soprattutto in Asia, fu una prova durissima.

E come la si superò? In primo luogo con la vittoria sul campo. Frutto, in secondo luogo, dell’ aiuto determinante degli Stati Uniti. Sia bellico che economico. Uno sforzo gigantesco che nel dopoguerra, attraverso il “Piano Marshall” e altre misure, favorì la rinascita di una comunità di interessi e valori tra le due sponde dell’Atlantico. Un' onda lunga, non solo economica, che porterà a un lungo periodo di pace e benessere, che causerà,  sulla base di un inevitabile  confronto  tra stili di vita,  la delegittimazione sociale  e  il crollo politico-ideologico, dell’Unione Sovietica.

Pertanto la definizione di “Piano Marshall”, a proposito delle misure economiche che dovrebbero affiancare l’idea protezionista rispolverata da Draghi, non ha nulla in comune con lo storico piano economico: il primo univa Stati Uniti ed Europa, il secondo divide.

Si dirà che sono gli Stati Uniti, per primi, a non voler sentir parlare di comunione di interessi e valori con l’Europa. Soprattutto un bizzarro e pericoloso personaggio come Donald Trump (2017-2021). In realtà, poco più di dieci anni fa, ai tempi di Obama presidente (2009-2017, per due mandati), si ragionava della formazione, anche sul piano istituzionale di un gigantesco mercato transatlantico, tra Stati ed Europa. Non chiuso ma aperto in termini multilaterali con il resto del mondo (****). Un’idea meravigliosa, avversata però da quell’area di pensiero e di azione “rossobruna”, per usare un termine giornalistico.

Cosa è successo? Che la pressione dei nazionalismi (oggi si chiamano sovranismi) si è fatta più forte. Il mandato di Trump è stato devastante sotto questo profilo perché ha riabilitato l’idea protezionista. E se Trump vincesse a novembre le cose potrebbero peggiorare, dando ragione a Draghi per il presente ma non per il futuro. Perchè la dinamica nazionalista, anche se a livello di Unione europea, rischia di scatenare la guerra di tutti contro tutti, a cominciare dai grandi blocchi: una guerra non solo economica.

In qualche misura Draghi si pone, volente o nolente, sulla scia di Trump, come del resto lo stesso Biden, che sebbene non in modo smaccato, per ragioni elettorali, ha dovuto cedere sul piano delle tariffe per la protezione di alcune merci americane.

Oggi di TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) idea accarezzata dal presidente Obama, come dicevamo, non si parla più.

E Draghi, da buon realista a quo, a breve termine, si è adeguato.

Si può fare qualcosa? Difficile dire. Quando si mettono in moto i determinismi metapolitici, non è facile fare marcia indietro. Una cosa però è certa, il Piano Draghi, per dirla alla buona, “aiuta per la discesa”.

Carlo Gambescia

(*) Qui: vol. I, p. 12 (grassetto nel testo): https://www.corriere.it/economia/finanza/24_settembre_09/draghi-il-report-2024-sulla-competitivita-il-testo-integrale.shtml .
(**) Su questa terminologia, da noi coniata, si veda C. Gambescia, Il grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico, Edizioni Il Foglio, Piombino (LI) 2019, pp. 23-31.

(***) J.M. Keynes, Autosufficienza nazionale (1933), in Id, Come uscire dalla crisi, a cura di P. Sabbatini, Editori Laterza, Roma-Bari 1983, pp. 93-106.

(****) Su questi aspetti si veda la nostra recensione all’ interessante raccolta di studi in argomento, Europa Stati Uniti. La sfida del mercato transatlantico (2014). Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/search?q=la++sfida+del+mercato+transatlantico .

lunedì 9 settembre 2024

Spesa pubblica. Il coraggio dire la verità

 


A Cernobbio Elly Schlein ha parlato di sinistra unita, di programma comune e di tante altre belle cose. Come ad esempio di stanziare 4 miliardi per la Sanità. Sull’altro fronte, pur di difendere la politica di Sangiuliano, caduto sul campo dell’amore (la destra, quella dura e pura avrebbe preferito quello l’onore), si magnificano i suoi tagli al cinema. Si parla di “razionalizzazione”.

Ecco la destra “razionalizza”. Il che in realtà significa, come nel caso del cinema , meno aiuti a chiunque non si pieghi alla destra, a cominciare da produttori e attori di sinistra, già però  beneficiati dall' Ancien Régime  Franceschinien (pardon per il francese maccheronico). Per contro, la sinistra vuole gettare altri soldi in una Sanità che non funziona, spesa che invece, come proclama la destra, andrebbe “razionalizzata”.

Parola vuota perché, attenzione, anche la destra, vuole investire nella Sanità, si parla di uno o due miliardi. Con buona pace delle “razionalizzazioni”.

Si dirà che destra e sinistra pensano di guadagnare voti puntando sulla spesa pubblica. Il che è esatto, come del resto provano gli studi sul ciclo politico-elettorale quando asseriscono che la spesa pubblica cresce prima delle elezioni, per aumentare dopo, per poi tornare e a diminuire e così via. 

Fermo restando il costante innalzamento dell’asticella spesa pubblica verso l’alto.  Si noti il fatto che non  forniamo dati numerici. Il lettore si fidi di noi. Comunque  sia,  a grandi linee, il debito pubblico sfiora i 3 mila miliardi, mentre la spesa pubblica annuale ha sfondato i  1000 (il 50 per cento del Pil).  In definitiva, quel che conta  sono i concetti. E di questo, qui, ci occupiamo

Per farla breve: destra e sinistra “usano” il bilancio del stato per “acchiappare” voti. Di conseguenza il ruolo dello stato, nei vari ambiti, di elezione in elezione, non muta. Destra e sinistra pari sono. E infatti, come detto, il grafico del debito pubblico e della spesa pubblica indica una situazione di crescita costante, con rari scostamenti, verso l’alto o il basso, almeno a far tempo dalla nascita della Repubblica. Spendo e mi indebito, mi indebito e spendo. Ecco il ragionamento.

Si può invertire questa tendenza? Qui le cose si fanno complicate. Perché nessun partito, dalla destra alla sinistra, pensa di tagliare l’albero della spesa e del debito sul cui ramo più alto è seduto.

Le stesse istituzioni europee, a cominciare, dalla Bce, parlano di riduzione del debito e della spesa pubblica. Come dire? Di andarci piano. Cioè, nonostante le accuse della propaganda sovranista, l’Ue considera la spesa pubblica e il conseguente indebitamento, non mali in sé, ma mali necessari. Da tenere sotto controllo.  Il "medico" Ue di guarigione  non parla... Posizione che alla fin fine è la stessa di Mattarella. Tagliare ma non troppo.

Pertanto il dibattito su debito e spesa tra istituzioni europee, destra e sinistra, ha assunto un tono surreale. Qualcosa che oltrepassa la realtà per quello che è.

E che dice la realtà? Che lo stato, su questa strada, rischia la crisi fiscale. Di non coprire più le spese. E per varie ragioni. Ad esempio, tra le più importanti, il calo demografico e il crollo della produttività. Per dirla alla buona, siamo di meno, siamo più pigri. E dinanzi allo stato esattore, che vuole sempre più, ci si presenta con le tasche sempre più vuote.

Risultato finale, crisi fiscale: lo stato non sa più dove prendere i soldi per finanziare debito e spesa. Se non indebitandosi ulteriormente, e così via.

Ovviamente, poi ci sono le ricette magiche , partitiche e sindacali, “razionalizzazione” (destra) come dicevamo sopra; recupero dell’evasione fiscale (sinistra). Ricetta ancora più mitica, perché si gonfia il peso dell’evasione a piacere, non considerando, che oltre un certo livello la pressione fiscale, già altissima in Italia, uccide la produttività, e che di conseguenza l’evasione si trasforma in una forma di legittima autodifesa.

Pertanto destra e sinistra dovrebbero fare un passo indietro. Tagliare debito e spesa e responsabilizzare i cittadini. Tradotto: lavorare di più aspettarsi di meno, molto di meno, dallo stato. In questo modo, se proprio necessario, lo stato potrebbe concentrarsi di più sulle persone che hanno realmente bisogno.

Maggiore produttività, significa maggiore competitività, quindi crescita, torta più grossa, anche sul piano del mercato del lavoro, per coloro che cercano fortuna in Italia.

Ma nessuno ha il coraggio di dire la verità.

Carlo Gambescia

domenica 8 settembre 2024

L’8 settembre e il Risorgimento liberale

 


Oggi è l’8 di settembre. Data dell’armistizio del 1943. Argomento storico e politico che tuttora divide. Ma fino a un certo punto come vedremo.

In realtà l’Italia, seppure pasticciando, quel giorno, in termini di trascendenza storica (pardon per il parolone), cioè di qualcosa di epocale che prescinde dai fatti contingenti, tornò alle origini risorgimentali. Francia e Gran Bretagna avevano infatti favorito il miracolo storico dell'unificazione, come apertura ai valori del liberalismo e della modernità. Certo, seguendo modalità storiche diverse: con le truppe Parigi, con la diplomazia e la pubblica opinione Londra.

Ripetiamo l’8 settembre fu un fatto epocale. L’Italia, se ci passa l’espressione, tornava a casa. Tra le democrazie liberali. Chiudendo ovviamente un occhio su Stalin.

A proposito di divisioni sarebbe interessante chiedere a Giorgia Meloni e ai ministri di Fratelli d’Italia, incluso il neoministro Giuli, cosa tuttora rappresenti per loro l’8 settembre.

Domanda antipatica. Soprattutto per chi proviene da un partito neofascista come il Movimento Sociale che non ha mai fatto veramente i conti con il passato.

La Meloni, con quella sua linguetta, strabuzzando gli occhi, respingerebbe subito la domanda, asserendo che sono cose accadute ottant’anni fa. Quindi inutile tornarci sopra. Secondo i professori di storia e politica si chiama strategia dell’afascismo. Non si parla della “cosa” anche se si pensa continuamente alla “cosa”. Puro opportunismo politico.

Giuli, che vede nel fascismo, per dirla con Evola, “pensatore” che è alle origini della sua formazione intellettuale, risponderebbe, con aria di sufficienza, che il fascismo non fu che una reincarnazione imperfetta, transeunte, molto plebea della Tradizione ( con la T maiuscola, non sia mai), e che quindi il fascismo, sequestrato da un pugno di parvenus storici, Mussolini escluso ( l’ “ultimo Antico Romano”, come disse Hitler), non poteva non finire in una sanguinosa liti tra facchini. L’antifascismo dei tradizionalisti, come Giuli, di tipo metastorico, confonde le acque, ravviva ideali malriposti, getta ponti pericolosi con il nazismo, che Evola ammirava. Ma questa è un’altra storia.

E cosa risponderebbero i Lollobrigida, i Musumeci, i Mollicone, i Donzelli? Quelli del “buca, sasso, buca con acqua, buca con fango”? Che l’Italia tradì. Chi? L’ “alleato germanico”.

Si tratta di una leggenda cara ai fascisti prima e dopo e Mussolini. Perché leggenda? Per la semplice ragione, che si dà per scontato che l’alleanza con la Germania nazista, apertamente imperialista e antisemita, e con il militarismo giapponese, mezzo fascista, mezzo tradizionalista, fosse un’alleanza come un’altra. Di qui la leggenda del tradimento di un alleato, che però “normale” non era. “Particolare” che ovviamente si omette.

Per capirsi, non si può evocare “la guerra del Sangue contro l’Oro”, parola d’ordine così cara al nazifascismo, e giudicare traditori coloro che si rifiutarono di restare fedeli a un progetto storico di sterminio di una parte dell’umanità.

Ovviamente, la Monarchia Savoia fece i suoi bassi calcoli, cercò di salvare se stessa, eccetera. L’8 settembre, l’esercito italiano si sbandò, privo di ordini. Però ecco il punto: le questioni organizzative (semplifichiamo) non vanno mescolate con le questioni ideali, ripetiamo, addirittura epocali. Perché l’8 Settembre l’Italia riabbracciò la civiltà liberale. O comunque, vista l’ingombrante presenza di Stalin, si incamminò di nuovo verso il mondo moderno, verso la società aperta, rinunciando al tribalismo nazifascista.

Ora, insistere sull’idea del “tradimento” significa non capire questo valore epocale, ripetiamo, dell’8 Settembre.

E qui si apre la questione dell’ antifascismo, molto diviso al suo interno proprio sulla difesa dell’ “Oro”. E qui pensi all’anticapitalismo marxista dell’epoca e di riflesso ai cattivi maestri stalinisti, ma anche a certi cattolici “sociali” sviati dalle venti righe con cui Maritain liquida il liberalismo in un libro sopravvalutato come Umanesimo integrale.

L’antifascismo non si è mai interrogato fino in fondo sull’importanza epocale del liberalismo moderno. Tra cattolici e comunisti prevaleva l’idea di un liberalismo come altro volto del fascismo. I cattolici vi vedevano la maledetta continuazione dell’individualismo protestante, i comunisti la lebbra dell’individualismo proprietario. Non si ravvisava nella tradizione liberale un grande patrimonio comune, capace di unire al di là delle differenza ideologiche e partitiche. I fascisti, e non sempre a torto per carità, erano visti come la guardia bianca del capitale.

Di conseguenza, l’antifascismo, soprattutto nelle sue componenti maggioritarie, catto-comuniste (per dirla con Augusto Del Noce), ha trasmesso agli italiani un’ immagine distorta dell’8 settembre, di certo non liberale: come ultimo sussulto di coloro che erano da parte dell’ “Oro”. In questo modo, come si diceva, si tradivano i tedeschi, ma non per aiutare gli italiani, ma solo per salvare i ricchi e potenti. Il che sarà stato pure vero, dal punto di vista “organizzativo”, ma non da quello ideale-epocale. Del cambio di marcia storica, se ci si passa l’espressione.

In questo modo però si favorì tra la gente comune la diffusione trasversale dell’idea del “tradimento” italiano, propugnata al tempo stesso da  neofascisti e catto-comunisti, seppure in questo secondo caso nei termini di un tradimento sociale, diciamo.

Ciò non significa che la Resistenza sia stata inutile. Ci mancherebbe. Però esiste il vizio di origine del rifiuto, ripetiamo, del cambio di marcia liberale. Epocale. Da parte dei fascisti ovviamente, e di larga parte del mondo antifascista.

In realtà, che accadde quel giorno? Morì la pseudopatria fascista, ma rinacque la patria italiana. Però se ne accorsero solo coloro che parlarono di “Secondo Risorgimento Liberale”.

Ma erano in pochi. Qui il problema. Ancora da risolvere.

Carlo Gambescia

sabato 7 settembre 2024

Il Divo Giuli

 


Sangiuliano si è dimesso. Gonfio di rabbia, promettendo querele. Stia però attento alle controquerele. Giorgia Meloni ha parato il colpo. E probabilmente il suo governo potrà continuare ad assolvere la missione storica, di cui dice, e di cui però nessuno si è accorto.

Però i problemi, come scrivevamo ieri, di “società civile” restano. Non c’è classe dirigente da cui attingere professionalità (*). Chi è stato nominato Ministro della Cultura? Alessandro Giuli, un giornalista oggi organico a Fratelli d’Italia. Non si offenda per l’organico. Perché con la Meloni o si è del branco o si è fuori. E senza badge tricolore non si entra. E comunque sia, va riconosciuto, meglio lui, che Federico Mollicone.

Ora chi andrà al MAXXI, Osho? Al secolo Federico Palmaroli disegnatore di vignette, già elettore missino?  Che Sangiuliano prima del ruzzolone aveva cooptato, così dicono i bene informati, nel comitato scientifico di una prossima mostra sul Futurismo?

Giuli, un ragazzo educato, un bel ragazzo, così lo ricordiamo, dai modi persino affettati, non certo da ruspante estremista di destra. Anzi timoroso. Lavorava all’archivio della Fondazione Julius Evola. I suoi articoli su “Linea”, giornale di destra, ma generosamente aperto a tutti i refrattari, uscivano con un nom de plume.

Però non si può dire che già allora studiasse da ministro. Certo ora lo è diventato, ma in fondo senza cambiare casacca. Da riva destra a riva destra. Anche per questo non sembra proprio, come qualcuno ha scritto, un “giornalista prestato alla politica”.

Al "Foglio", dove si è formato, ha scritto per anni di politica, piuttosto bene. Meno interessanti le paginate su Roma antica, il mito, la romanità, come universo compiuto e perfetto. Suoi cavalli di battaglia. Meglio quelli di Gigi Proietti.

Giuli, per quanto ne sappiamo, ha pubblicato sei libri, uno di poesie (Dadafleur), un romanzo (Nigredo), lavori, diciamo, così così. Illeggibile invece il libro erudito su Cibele (Venne la Madre). Sebbene il culto romano di Cibele riservi al lettore spunti piccanti tipo Gay Pride. Introvabile invece il testo sul sovranismo (Sovranismo per esordienti), forse sarà andato a ruba. Comunque non lo abbiamo letto. Nessuno è perfetto. Infine due libri “furbetti” sulla destra postfascista (Il passo delle oche e Gramsci è vivo), quest’ultimo non possiamo perdonarlo. Perché strizzare l’occhio a Gramsci, che neppure la sinistra legge più? Addirittura fin dal titolo? A destra non ne parla più da quarant’anni un cervellone come Alain de Benoist, che lo riscoprì e rilanciò. Oggi, Gramsci, al massimo, è materia per gli storici delle idee.

E poi, diciamola tutta, l’idea di egemonia culturale sa di stantio, puzza  di scuola di partito, di intellettuali che devono suonare il piffero per il Principe, come scrisse quasi ottant’anni fa Vittorini in polemica con Togliatti.

Se la sente Alessando Giuli, che, invecchiando, ricorda  nell' aspetto un imperatore romano da peplum film, una specie di Divo Giuli, se la sente, dicevamo, di suonare il piffero per Giorgia Meloni?

Comunque sia, auguri Ministro. E attenzione alle nuove sacerdotesse di Cibele. Bionde e con gli occhiali.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2024/09/fratelli-ditalia-e-il-divorzio-dalla.html .

venerdì 6 settembre 2024

Fratelli d’Italia e il divorzio dalla società civile

 


Al di là di quel che sta accadendo, e accadrà, il vero problema di Fratelli d’Italia, e delle formazioni di destra che hanno preceduto e “incubato” questo partito (Alleanza Nazionale e Movimento Sociale Italiano) è nella totale assenza di una classe dirigente, cioè di bravi tecnici, laici diciamo, provenienti dalla società civile: professori, alti professionisti, intellettuali di fama riconosciuta, anche all’estero, “industriali” e manager dal respiro non provinciale. Insomma, autorevoli cittadini fieri dei propri diritti e doveri.

Perché questa enorme distanza, se non incomunicabilità, tra l’estrema destra e la società civile? Perché questa assenza di un serbatorio al quale attingere con regolarità e in sicurezza?

Ovviamente non alludiamo alle “alleanze sociali elettorali”, al voto occasionale, mutevole, verso l’alto o verso il basso, e neppure ovviamente allo zoccolo duro ideologico “del neofascista”, per tradizione, famiglia, sovversiva provenienza piccolo-borghese, eccetera, al quale invece il partito attinge, con regolarità, per i quadri politici. Sotto questo aspetto, la carriera di Giorgia Meloni, piccola borghese sovversiva dell’ordine liberale, è esemplare.

Per dirla in modo sintetico Fratelli d’Italia non ha il suo professor Monti, il suo professor Draghi, e così via fino ai manager e burocrati, di (relativamente) basso livello. Non ha una classe dirigente, di persone preparate, credibili, anche internazionalmente, rispettose dello stato di diritto, alla quale, ripetiamo, attingere in modo stabile. Può solo contare sull’effetto bandwagon, che trascina coloro, che ogni volta, dopo le elezioni, scelgono di salire sul carro dei vincitori: un personale, che si compone di arrivisti, quindi inaffidabile.

Fratelli d’Italia, come i partiti suoi predecessori, può solo contare su una classe politica, quindi interna, formatasi all’ombra dei leader storici, susseguitisi nel tempo: puri militanti, giornalisti di partito, avvocati, piccoli imprenditori dediti però alla politica, qualche insegnante di scuola superiore, maestri, commercianti, e un tempo soprattutto reduci di Salò e delle guerre fasciste.

Si tratta di un isolamento, da “esuli in patria”, come è stato scritto, in parte ricercato e voluto, per lo spirito eversivo del partito verso l’ordine incarnato dalla cittadinanza liberale e occidentale; in parte indotto dalle condizioni storiche come ad esempio la disastrosa sconfitta del fascismo e il successivo e giustificato cordone sanitario intorno a un partito che non ha mai rinunciato, sebbene in modo elastico secondo il momento, a scorgere un fondamentale punto di riferimento nella cultura della tentazione fascista

Per fare solo alcuni esempi. Si pensi all’odio feroce di Fratelli d’Italia verso i diritti civili: non è altro che il rifiuto di quel comune spirito di cittadinanza che caratterizza la società civile occidentale. Oppure all’aggressività verso le Ong, appunto perché valorizzano un’idea di cittadinanza o società civile universale.

Attacchi in nome di che cosa? Di una visione populista che al cittadino come individuo pretende di sostituire il popolo come blocco unico e “nazionalizzato”.

Tutto questo spiega l’inconsistenza di un personaggio come Sangiuliano, giornalista di stretta osservanza missina, quindi privo di quel respiro internazionale, solidità intellettuale e vigore civile che distinguono le classe dirigenti, quindi non solo politiche, capaci di parlare al mondo.

Tesi sostenuta da un “fascista” atipico e transigente come Giano Accame. Probabilmente l’unico intellettuale di destra che aveva perfettamente capito, dopo lo sdoganamento berlusconiano, l’inutilità di una integrazione passiva del Movimento Sociale nel sistema liberal-democratico. Ci sembra ancora di sentirlo: o vi si credeva veramente, magari introducendo correzioni sociali, oppure era meglio lasciar perdere e dedicarsi all’ippica. Insomma, mai uccidere la gallina dalle uova d’oro.

L’aspetto veramente grave è nel fatto che a trent’anni dal famoso “sdoganamento”, Fratelli d’Italia, sul piano della formazione di una classe dirigente di riferimento (cioè esterna al partito) sia ancora ai blocchi di partenza. È grave che dopo una generazione, forse due, considerate le distanze generazionali di oggi, Fratelli d’Italia sia ancora una partito isolato.

Giorni fa leggevamo della volontà di Giorgia Meloni di creare una nuova Frattocchie, ma di destra, simile alla scuola quadri del partito comunista ai tempi di Togliatti. Purissima archeologia politica. Invece di aprirsi al mondo, ci si chiude in casa e si butta via la chiave.

Altro esempio: tra i nomi che sono stati fatti, come possibili successori, di Sangiuliano, non ce n’è uno che sia “classe dirigente”. Cioè, un dirigente di riconosciuto e oggettivo valore proveniente dalla società civile.

In questo quadro, già disastroso, non aiuta l’atteggiamento da Fort Apache, assediato dagli indiani, di Giorgia Meloni, che per tradizione organizzativa (da Michelini, Almirante, Fini) si comporta da padrona di Fratelli d’Italia. Anzi lo è. A tale proposito inutile tornare sul partito gestito in famiglia.

Di qui il complottismo, gli appelli di tipo militare all’unità, l’evocazione di improbabili missioni storiche, la caricaturale rappresentazione della sinistra, dipinta, secondo una visione da Figlie di Maria, come “sentina d’ogni vizio”.

Si rifletta sui continui appelli di Giorgia Meloni al popolo. Sono la prova della ricerca di un rapporto diretto con gli elettori senza dover   ricorrere alla mediazione della società civile. Si dirà pura democrazia. No, pura demagogia. La vecchia demagogia, nazional-fascista.

In realtà, Giorgia Meloni fa di necessità virtù. Si rivolge al popolo, perché la società civile, che si compone di cittadini consapevoli dei propri diritti e doveri, ignora Fratelli d’Italia. E Fratelli d’Italia, ricambia, ignorando la società civile, per puntare sulla democrazia emotiva. Un autentico divorzio.

Sicché a trent’anni dallo sdogamento di An ( e quasi ottanta dalla fondazione del Msi), missini dentro come Meloni, La Russa, Sangiuliano, Lollobrigida, Musumeci, e così via, si ritrovano catapultati ai vertici del parlamento e dello stato…

Con i risultati disastrosi che sono sotto gli occhi di tutti.

Carlo Gambescia

giovedì 5 settembre 2024

Sangiuliano e la gogna pubblica del Tg1

 


Oggi desideriamo tornare sulla storia di Sangiuliano. Per evidenziare alcune cose che non ci convincono.

In primo luogo, un’invasata, Giorgia Meloni, che, dinanzi ai suoi, evoca, neppure fosse il discorso di Norimberga, la missione storica di Fratelli d’Italia, alla quale il partito non può sottrarsi. Quindi nessuna debolezza o errore personale sarà perdonato. E in che modo? Gogna pubblica, soprattutto per i Ministri. E quindi per Sangiuliano. Che è stato obbligato a esibire dinanzi alle telecamere della tv di stato le ormai famose ricevute di pagamento. Praticamente un processo televisivo preventivo. Una cosa umiliante. Con Chiocci-Di Pietro. Non dimentichiamo che il direttore del Tg1 si fece un nome al “Giornale” abbattendo Fini a proposito della casa di Montecarlo. Che poi il tele-processo a Sangiuliano si sia risolto con un non luogo a procedere, nulla toglie nulla aggiunge al metodo da giustizialismo mediatico modello Tangentopoli. Non si dimentichi che all’epoca di Tangentopoli, Giorgia Meloni militava nel Movimento Sociale, condividendone le scelte giustizialiste e populiste. E questi sono i frutti velenosi. Si sorvola, per ora, sull’uso partitico, della Rai.

In secondo luogo, torniamo sulla missione storica. Quale sarebbe questa missione storica? La politica economica e sociale del governo è rimasta più o meno simile a quella dei governi passati. I lievi miglioramenti strombazzati, sono frutto del ciclo economico. Anche un governo di sinistra ne avrebbe goduto. Invece l’ unica nota di forte diversità è rappresentata dal giro di vite sui migranti che ha visto: a) la costruzione di quello che si potrebbe definire un campo di concentramento in Albania, un fatto, ripetiamo, che non ha precedenti; b) la violazione di ogni principio umanitario sui soccorsi in mare. Non sono cose di cui vantarsi, a meno che non si condividano idee xenofobe.

In terzo luogo, lascia perplessi sempre a proposito di missioni storiche e giustizialismo, l’insistenza della Meloni, sui conti della serva (le famose ricevute esibite in tv che assolvono, per ora, Sangiuliano dall’accusa di peculato). Ma Fratelli d’Italia non è il partito, che sul piano programmatico, anzi filosofico, difende i valori della famiglia e della religione? E come la mettiamo, con un ministro, San Giuliano, regolarmente sposato, ma con amante . Solo gossip? Fratelli d’Italia, predilige definirsi, il partito dei valori tradizionali per far risaltare le differenza con la sinistra, così dice, libertina. Ne fa, come detto, addirittura una missione storica. Ora, ecco la domanda, il Ministro Sangiuliano fa parte o no di questo storico progetto di edificazione della famiglia italiana? Se ne fa parte deve dimettersi. Altro che peculato e gossip… La grande contraddizione è nell’impossibilità di servire due padroni: la moralità della famiglia tradizionale e il diritto di privacy quando si cornifica il coniuge.

E qui veniamo al quarto punto, che riguarda la reazione della sinistra. Molto debole. Si è evocato, anche giustamente, il diritto alla privacy. Concordiamo, farsi un amante è questione privata. Però in questo modo si favorisce la morale da Tartufo della destra: che celebra famiglia e amore coniugale, per poi libertineggiare. Sicché la sinistra balbetta. Invece di spingere sull’acceleratore della contraddizione a destra tra missioni storiche e infedeltà antistoriche si incarta. Per un verso difende il principio garantista della privacy e per l’altro rispolvera il giustizialismo-mediatico, da processo preventivo (altro che garantista), sui conti della serva, velenosa eredità dei tempi di Tangentopoli. Alla quale Meloni, vecchia militante missina, quindi della partita, ha risposto usando l’arma del telegiornale, con pari se non superiore giustizialismo mediatico. Come dire 1 a 0 per la leader di Fratelli d’Italia. Sintomatica, sempre dal punto di vista di una sinistra in confusione tra pubblico e privato, anche la reazione di Franceschini, che chiamato in causa da Sangiuliano, ha glissato sulla sua storia d’amore, ma non su quella delle chiavi d’oro, ricevute anche da lui. E questo per parare eventuali processi mediatici conti-della-serva. Invece Salvini, altro tombeur de femmes, sulla chiamata di correo per ora tace.

In quinto e ultimo luogo, Sangiuliano ne esce a pezzi. Siamo all’ultimo posto della scala antropologica stilata da Sciascia. Si dice che Sangiuliano sia dalla parte della  ragione sul piano conti-della-serva, e che quindi, giustamente, voglia resistere al ministero. Ma a che prezzo? Quello di subire, come dicono gli etnologi, un vero e proprio rituale di degradazione, imposto da una missina a vita  tuttora di guardia al bidone di Tangentopoli.

Poveretto. Fa pena. Quasi quasi gli perdoniamo la pessima introduzione al Michels (*). Però a una condizione: si dimetta subito per dedicarsi allo studio, questa volta serio, di uno dei padri della moderna sociologia politica.

Carlo Gambescia

(*) Qui: http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2022/09/un-michels-da-incubo.html e qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2024/09/lasino-sapiente-al-ministero-e-la.html .

mercoledì 4 settembre 2024

L’asino sapiente al Ministero e la principessa dei Mau Mau fascisti

 


Ieri abbiamo dato un’occhiata alla lista dei Ministri dei Beni culturali e Ambiente. Questa era la denominazione iniziale, anno di grazia 1974, di quello che da poco più di tre anni si chiama Ministero della Cultura (*).

Anche per noi non è facile ricordarli tutti. La lista è lunghissima, 29 ministri, in cinquant’anni. Da Spadolini, professore universitario, repubblicano, a Gennaro Sangiuliano, giornalista missino.

Quel che emerge è un grigiore generale. Chi ricorda il democristiano Gullotti, che fu con Craxi per quattro anni al Ministero? Nessuno.

Pertanto, a parte qualche professore universitario (Spadolini, appunto, Fisichella, Urbani, Buttiglione, Ornaghi) e un grande giornalista (Vittorio Ronchey), oltre a qualche nome di spicco della politica, Veltroni, Rutelli, l’immancabile Andreotti (ad interim), Melandri, Franceschini, la lista è fitta fitta di nomi di avvocati, insegnanti delle superiori, funzionari pubblici, presidi, alcuni tecnici (ad esempio museali, forse il solo Paolucci, con Dini) e tanti politici di professione, capi o sottocapi di corrente. Il lettore constaterà da solo.

Perciò, a prima vista l’ultimo arrivato, Gennaro Sangiuliano, da alcuni giorni al centro di una tempesta politica, dal punto vista della preparazione specifica non è migliore né peggiore di altri.

Diciamo un mediocre, però, ecco la differenza rispetto ai predecessori, con pretese di saperla lunga. E, quel che è peggio, con una visione ideologica nettamente di destra, destra missina, con radici profonde nella tentazione fascista.

Rispetto al suo mite e colto predecessore, Dario Franceschini (al Ministero per tre anni), Sangiuliano si è finora comportato come il tipico parvenu.

Lo gnomo politico colpito da improvvisa fortuna (perché la destra di nomi presentabili ne aveva pochini) che però continua a comportarsi da maleducato politico. Si legga qui: 

"Cosa credete che facesse Salvini con la Isoardi? E poi con la Verdini, anche prima di stabilizzare la loro relazione? E Franceschini con la De Biase, prima che diventasse sua moglie?" dice ancora. Un paragone, scrive La Stampa, che suona come l'ammissione di un rapporto privato tra lui e Maria Rosaria Boccia. "È il motivo per cui abbiamo bloccato la sua nomina come consigliera per i grandi eventi - dice - Aveva il curriculum e le carte in regola per svolgere quel ruolo, ma quando la nostra reciproca stima professionale è diventata un fatto privato, io per primo ho ritenuto di dover fermare tutto. Dovrebbero applaudirmi per questo" (**).

Capito? "Paco io". Roba da Mario Merola. La butta sul privato. Il pubblico difensore della Famiglia e della Tradizione.  Aspettiamo ora la reazione dei  chiamati in causa con grande eleganza da Sangiuliano. Un vero lord inglese.  
 

Di lui sono note le gaffe, l’arroganza, l’ impreparazione culturale, persino per quel che riguarda la conoscenza della stessa cultura politica da cui proviene. A tale proposito ricordiamo la pessima introduzione a una cattiva riedizione di un libro che la destra dovrebbe conoscere a memoria: La sociologia del partito nella democrazia moderna di Roberto Michels (***), grandissimo scienziato politico, ma con un debole per Mussolini. Nessuno è perfetto. E invece la destra continua a non studiare. La butta in caciara, come Sangiuliano nella sua introduzione. E, come visto, anche in politica:  "Perchè Salvini sì, io no?".

Pertanto l’incidente Boccia, diciamo, era nell’aria. Un asino sapiente, politicamente parlando, finisce sempre per farsi scoprire.

Sembra che l’altro pozzo di scienza di Fratelli d’Italia, dopo Sangiuliano, Giorgia Meloni, non voglia mollarlo. Quindi, per ora, sembra, come per Lollobrigida e Santanchè, niente dimissioni. Perché, come scrivono i retroscenisti compiacenti, dopo seguirebbe un difficile rimpasto, e per il bene della Repubblica, eccetera, eccetera.

In realtà, al di là delle bugie e contraddizioni di Sangiuliano (di questo scrivono i giornali, non solo di sinistra), il lato spiacevole della questione è quello di dover subire il fatto che un asino sapiente resti al Ministero perché Fratelli d’Italia non vuole cedere il passo agli alleati. Volgarissimi calcoli "demo-pluto-giudaici".

Leggevamo su “Repubblica” di “spirito tribale”. Di una Meloni che difenderebbe i suoi fino alla morte, obbedendo al richiamo del ghetto missino-fascista.

Ipotesi suggestiva. Anche perché, come in tutte le tribù, implica il fatto che alla prima occasione propizia la principessa dei mau mau fascisti si libererà di un guerriero pasticcione. Sangiuliano, con un gonnellino di foglie, finirà su un albero, senza cibo e lancia, soccombendo alle intemperie. Oppure dovrà entrare nel fiume nudo e disarmato per sfidare i coccodrilli. Fermo restando il pericolo, per Sangiuliano, di un grande banchetto con le sue appetitose carni, ben bollite.

Chi di tribù ferisce, di tribù perisce.

 

Carlo Gambescia

 

(*) Qui: https://it.wikipedia.org/wiki/Ministri_della_cultura_della_Repubblica_Italiana .
(**): Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2024/09/04/sangiuliano-per-boccia-pagai-sempre-io-non-devo-dimettermi_425999fe-66ff-4dc9-8e3a-604f3a2388b0.html .

(***) Qui: http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2022/09/un-michels-da-incubo.html .