domenica 22 gennaio 2023

Stato e mercato: la lezione (inascoltata) della storia

 


Chi produce ricchezza? Sicuramente non lo stato. Come mostra non solo l’esperienza negativa delle varie forme di socialismo reale, ma soprattutto il cattivo “funzionamento” sociale del mondo precapitalista. Che, se e quando produceva ricchezza, la produceva per pochi individui, divisi in caste: per secoli il tenore di vita per la stragrande maggioranza delle persone è rimasto inalterato: si viveva poco e male.

La storia moderna ha invece mostrato che la ricchezza è prodotta dal mercato e dalle imprese. E di questo ci si è resi conto, sebbene in modo frammentario, solo nel XX secolo. Il tenore di vita, in particolare dalla fine del secolo XIX, è radicalmente cambiato in meglio. Si tratta di un dato storico inoppugnabile, misurabile, quasi ad occhio, per differenza: come si viveva prima, come si vive dopo.

Coloro che oggi sostengono l'idea dello stato produttore di  ricchezza ragionano in modo arcaico. E quel che è peggio ignorano, intenzionalmente o meno, i fatti storici e le enormi e benefiche trasformazioni della vita sociale intervenute nel XX secolo.

E’ vero che i progressi sono stati così rilevanti e rapidi (storicamente parlando) al punto di sembrare quasi miracolosi. Il che spiega, anche se non giustifica, lo scetticismo dei difensori dello stato: un’ istituzione che ha migliaia di anni e che di conseguenza, come vanta la vulgata statalista (per un usare la terminologia giornalistica), non può essere messa da parte.

In effetti i difensori dell’idea dello stato produttore di ricchezza commettono un altro errore: quello dello stato redistributore di ricchezza. Anche questa è un’idea arcaica, che perciò  ha secoli  e secoli  dietro di sé. Si è in qualche misura consolidata nel tempo attraverso l’attribuzione allo stato di compiti redistributivi prima di natura religiosa e morale, poi politica e sociale. Parliamo di una’idea che ha origine antichissime nella spartizione di un bottino frutto di conquiste militari. L’unico modo in cui lo stato può produrre ricchezza. Estorcendola al nemico sconfitto.

Pertanto resta molto difficile contrastare idee secolari che riemergono, anche in modo inconsapevole, ogni volta che si vuole mettere in discussione il ruolo del mercato e delle imprese. Una dinamica che invece ha cambiato il mondo e in meglio, producendo ricchezza in modo pacifico. Quando si è usata la spada, la si è usata contro il mercato o per difendersi dai nemici del mercato. Nell’economia di impresa predomina la competizione che, nonostante i suoi nemici si sforzino di equipararla alla guerra, non è tale, perché rimanda al meccanismo dei prezzi, che non è quello della trincea. Anche uno stupido capirebbe, eppure…

Purtroppo, da sempre, i “contemporanei”, regolarmente, non si rendono conto di ciò che accade intorno a loro. Un atteggiamento che vale soprattutto per la gente comune, portata, a causa delle trasformazioni fisiche individuali, a rimpiangere nostalgicamente il passato e a temere il progresso. Concetto, quest’ultimo, che infatti ha solo alcuni secoli di vita.

Qui emergono le responsabilità delle élite politiche e sociali che di regola dispongono delle adeguate conoscenze storiche. In realtà, come invece accade, il solo credere, nel XXI secolo, che lo stato produca ricchezza e sia capace di redistribuirla come un’antica monarchia medio-orientale, o, diciamo pure, il solo porre la questione in discussione, indica che la mentalità delle élite contemporanee resta intrisa di arcaicità.

Si veda la questione così: da una parte almeno cinquemila anni di statalismo, dall’altra duecento anni di libertà economica, peraltro contrastata su due fronti: quello del comunismo primitivo, nascostosi dietro un approccio pseudoscientifico e quello del ritorno alla società castale premoderna.

L’archetipo statalista, come modello sociale e politico millenario, ha dalla sua la forza di un’antichissima pressione culturale che rischia di minare un esperimento liberale che in tempi brevissimi ha cambiato e in meglio la vita degli uomini e delle donne.

Usiamo il termine esperimento, perché la società liberale, storicamente parlando, sembra essere ancora gli inizi, fragili inizi, nonostante il progresso sociale, tra l’altro incompreso da masse spesso ingrate.

Sotto questo aspetto gli economisti che criticano l’economia di mercato, anche quando evocano la famigerata e improbabile sintesi tra stato e mercato, non danno certamente una mano. Perché in questo modo si rischia di spianare la strada ai nemici della società liberale. Si pensi a quella specie di Cavallo di Troia della “transizione ecologica”, che nasconde nel suo ventre i peggiori nemici della società aperta: fascisti, comunisti, ecologisti e altri fondamentalisti di ogni estrazione.

Purtroppo, anche se può apparire una banalità, la storia, la musa Clio, famosa maestra di vita, continua ad avere pochissimi alunni…

Sicché il rischio di farsi male e di perdere il treno liberale, anzi il trenino, non è così remoto.

Carlo Gambescia

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