martedì 17 settembre 2013


Riflessioni  (non a caldo) sulla Mostra del Cinema e dintorni 
Venezia affonda
di Carlo Pompei




Abbiamo seguito con "rassegnato" interesse l'evoluzione della kermesse cinematografica veneziana. Ne parliamo a qualche giorno dalla conclusione per non lasciarci influenzare dai giudizi a caldo ed evitiamo le polemiche lette qua e là su Bertolucci, la settantesima edizione, il fatto che in tale ricorrenza doveva per forza vincere un film italiano, passerelle, star e starlette, etc. Qualche frecciatina, però...
Partiamo, quindi, dall'idea di cinema e del suo rapporto con il cugino nobile, il teatro. "Fare cinema" oggi è formalmente più facile, ma sostanzialmente più difficile, vedremo dopo perché, mentre "fare teatro" ha mantenuto immutate le difficoltà tipiche di una rappresentazione dal vivo, che comporta sempre una responsabilità immediata e diretta. È più probabile che venga chiesto il rimborso del biglietto a teatro o ad un concerto, non tanto perché dal cinema escano tutti soddisfatti, ma perché sapere che gli autori, gli attori e i cantanti  sono nei pressi -  come dire, anche  a portata di “cazzotto” -   ci autorizza psicologicamente a farlo.
Ma che cosa potrebbe indurre uno spettatore a chiedere il rimborso?
Vediamo insieme.
Innanzitutto diciamo che è più semplice dire alle persone quel che vogliono ascoltare, a prescindere dalla loro reazione emotiva, tenendo sempre presente che far ridere intelligentemente è molto più difficile che far piangere stupidamente.
Pensiamo ad un "cinepanettone" o a un filmetto per quindicenni, noteremo che l'ago della bilancia si sposta sull'asse qualità-quantità: se l'obiettivo è il botteghino, non abbiamo scelta, qualche battuta greve e pruriginosa, qualche situazione da primo bacio tradito e il gioco è fatto. 
Sul fronte opposto troviamo la cinematografia impegnata radical-chic della quale devi per forza parlar bene, altrimenti, come direbbe Paolo Villaggio, sei fuori del salotto  della contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare...  Per questi motivi i giudizi di critica e di pubblico sono spesso contrastanti e il gradimento è inversamente proporzionale in funzione della qualità e della platea di riferimento, anche perché gli spettatori pagano, mentre i critici cinematografici non pagano, anzi spesso mangiano un tramezzino, bevono un aperitivo, assaggiano due patatine e ricevono in regalo l'ennesima pendrive usb da 2gb contenente il comunicato stampa e il materiale fotografico per scriverne ogni bene. Spettacolo ai limiti del decoro quello che ruota intorno alle cosiddette attività culturali interpretato da questi pseudo intellettuali onnipresenti dagli occhiali con la "montatura rossa". E il Lido non ha costituito eccezione.
Allora torniamo a Venezia.
"Sacro GRA", il film risultato vincitore, in realtà è un documentario che sfrutta l'emozione popolare di pasoliniana memoria. Sulla base di ciò proviamo ad immaginare una platea-tipo che assiste alla proiezione. Un minuto di raccoglimento. Bene, ci siamo capiti. No? Allora ci spieghiamo. Se conosciamo quella realtà, paghiamo un biglietto per vederla? Se non la conosciamo, ci interessa veramente? Se sì, ci interessa per quale motivo? Curiosità, morbosità, derisione? Oppure siamo alla ricerca dell'ennesimo mercato da sfruttare?
Paolo Villaggio, con i suoi  personaggi, gli indimenticabili  Fracchia e Fantozzi,  ha già dato al cinema quanto e più di Pasolini, ma, nonostante le sue simpatie politiche, viene relegato nell'ambito della comicità, poiché quello è, semplicisticamente, il traino.
Gli spaccati sociologici che ne fuoriescono, invece, disturbano chi in quei personaggi ci si riconosce, mentre divertono chi, per età o estrazione sociale, non conosce quel mondo reale di oppressi, repressi, frustrati ed aguzzini cialtroni ed ignoranti.
In sintesi, se parliamo, scriviamo, recitiamo, cantiamo, dobbiamo avere qualcosa da dire, altrimenti, nella migliore delle ipotesi, produciamo inutile documentazione fine a se stessa. Fellini, per scomodare l'anticonformista per antonomasia, può non piacere, ma è innegabile che fosse un visionario che imponeva le proprie storie con coraggio. Viaggi onirici trasformati in pellicole memorabili, alcune più alcune meno, ma sempre originali. Oggi, invece, piace lo stile didascalico. È gradito sia agli autori/produttori che ai fruitori, poiché non costituisce rischi per i primi e dà sicurezza illusoria ai secondi, ma equivale a pensare che i Beatles dovessero cantare "Papaveri e papere" della pur bravissima Nilla Pizzi, poiché lo stile musicale in voga era quello, oppure che Caravaggio nei suoi quadri dovesse utilizzare più colori e meno luce a contrasto, come facevano i suoi contemporanei.
Il cinema moderno ha, poi, un altro problema che è legato ai supporti di registrazione, stesso problema che affligge la musica, la fotografia e la televisione.
Un piccolo capolavoro in proposito è rappresentato da "Boris", la serie televisiva parodistica sul mondo delle fiction, che recupera le figure fantozziane della pubblica amministrazione e le proietta rielaborate nel televisivo parastatale o privato.
Poter girare e scattare migliaia di impressioni e registrare su supporti magnetici evoluti a costo zero, ha tolto poesia e professionalità: è sempre più raro un "buona la prima", si produce una quantità impressionante di materiale, ma paradossalmente a scapito della qualità e le eccezioni si contano sulle dita di una mano.
Per ovvi motivi, nelle rappresentazioni teatrali o nei concerti dal vivo questi problemi vanno risolti a monte con immediato beneficio della qualità e della professionalità, anche perché, come dicevamo all'inizio, si rischia di persona... 

Carlo Pompei


Carlo Pompei, classe 1966, “Romano de Roma”. Appena nato, non sapendo ancora né leggere, né scrivere, cominciò improvvisamente a disegnare. Oggi, si divide tra grafica, impaginazione, scrittura, illustrazione, informatica, insegnamento ed… ebanisteria “entry level”.

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