giovedì 10 settembre 2020

Il cinema post coloniale di Gianfranco Rosi Tutta colpa dell’Occidente Non andremo a vedere “Notturno” di Gianfranco Rosi, osannato a Venezia. Il cinema del dolore, che con la scusa della cinepresa obiettiva accusa l’Occidente di ogni colpa. Anzi, per meglio dire, il cinema del senso di colpa ha bisogno di vittime e carnefici. E i carnefici sono sempre gli occidentali. Qui la trama del film: "Girato nel corso di tre anni sui confini fra Siria, Iraq, Kurdistan, Libano, Notturno mette a fuoco, da diverse prospettive, buio e luci della vita quotidiana delle popolazioni locali nella martoriata regione del Medio Oriente, fra la riconquista di Mosul e Raqqa – strappate all’ISIS nell’estate-autunno 2017 –, l’offensiva turca contro il Rojava curdo-siriano nell’autunno 2019, e l’omicidio a Baghdad nel gennaio 2020, da parte statunitense, del generale iraniano Soleimani. Il film, tuttavia, non è un reportagesull’interminabile guerra che insanguina la regione perlomeno dall’invasione americana dell’Iraq (2003) e il conflitto civile siriano (scoppiato nel 2011 durante la primavera araba), bensì una narrazione per immagini e incontri ravvicinati che costruisce un’unità “umana” al di là delle divisioni geografiche. Di questo stato di tragedia permanente Rosi mostra gli effetti accompagnando al tempo stesso con discrezione ed empatia donne, bambini e uomini in momenti cruciali delle giornate, lasciando a loro la parola, registrata in presa diretta, fra interni intimi e drammatici (case, carceri, ospedali) ed esterni segnati dalle divisioni, dai conflitti, da durezze e fatiche, ma anche da momenti di toccante condivisione. " (https://it.wikipedia.org/wiki/Notturno_(film_2020). Qual è il senso politico di un film del genere? Lo stesso che si rimproverava a Gualtiero Jacopetti, ma in senso contrario: nei suoi film sull’Africa girati negli anni Sessanta del secolo scorso. Jacopetti filmava la fine del colonialismo, rimpiangendolo. Rosi film la “tragedia permanente” del “postcolonialismo”. Se il cinema di Jacopetti proponeva una soluzione, sbagliata o meno (qui non interessa): l’Occidente deve restare in Africa, Rosi non propone alcuna soluzione, se non quella del singhiozzo dell’uomo bianco. Del senso di colpa, come dicevamo: dell’eterno fardello dell’uomo bianco, ma solo come eredità negativa e cosmica. Deve il cinema proporre soluzioni? Quando affronta temi politici, sì. Altrimenti no. Ma questa è un’altra storia. Carlo Gambescia

Il cinema post coloniale di  Gianfranco Rosi
Tutta colpa dell’Occidente


Non andremo  a vedere “Notturno” di Gianfranco  Rosi, osannato a Venezia. Il cinema del dolore, che con la scusa della cinepresa   obiettiva  accusa l’Occidente di ogni colpa. Anzi, per meglio dire, il cinema del senso di colpa  ha bisogno di vittime e carnefici.  E i carnefici sono sempre gli occidentali.     
Qui  la trama del film:

Girato nel corso di tre anni sui confini fra Siria, Iraq, Kurdistan, Libano, Notturno mette a fuoco, da diverse prospettive, buio e luci della vita quotidiana delle popolazioni locali nella martoriata regione del Medio Oriente, fra la riconquista di Mosul e Raqqa – strappate all’ISIS nell’estate-autunno 2017 –, l’offensiva turca contro il Rojava curdo-siriano nell’autunno 2019, e l’omicidio a Baghdad nel gennaio 2020, da parte statunitense, del generale iraniano Soleimani. Il film, tuttavia, non è un reportagesull’interminabile guerra che insanguina la regione perlomeno dall’invasione americana dell’Iraq (2003) e il conflitto civile siriano (scoppiato nel 2011 durante la primavera araba), bensì una narrazione per immagini e incontri ravvicinati che costruisce un’unità “umana” al di là delle divisioni geografiche. Di questo stato di tragedia permanente Rosi mostra gli effetti accompagnando al tempo stesso con discrezione ed empatia donne, bambini e uomini in momenti cruciali delle giornate, lasciando a loro la parola, registrata in presa diretta, fra interni intimi e drammatici (case, carceri, ospedali) ed esterni segnati dalle divisioni, dai conflitti, da durezze e fatiche, ma anche da momenti di toccante condivisione.   

Qual è il senso politico di un film del genere? Lo stesso che si rimproverava a Gualtiero Jacopetti, ma in senso contrario, nei suoi film sull’Africa girati negli anni Sessanta del secolo scorso.  Iacopetti filmava la fine del colonialismo, con rimpianto.  Rosi invece "filma"    la  “tragedia permanente” del “postcolonialismo”.  Se il cinema di Iacopetti  proponeva una soluzione, sbagliata o meno (qui non interessa):   l’Occidente deve restare in Africa, Rosi  non propone alcuna soluzione, se non quella del singhiozzo dell’uomo bianco. Del senso di colpa, come dicevamo: dell’eterno fardello dell’uomo bianco, ma  solo come eredità negativa e cosmica. 
Deve il cinema proporre soluzioni? Quando  affronta temi politici, sì. Altrimenti no. Ma questa è un’altra storia.

Carlo Gambescia

  

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