mercoledì 2 settembre 2020

Il voto del 20 e 21 settembre
Un referendum che consacra il populismo


Cari lettori, vi sembra politicamente  normale (nel senso della democrazia liberale)  il  titolo del “Fatto Quotidiano”? Chiunque usi ancora la testa non può che rispondere no. Per quale ragione? Perché siamo davanti alla quintessenza del populismo, alla bieca  e scorretta  giustificazione  della forza schiacciante  del numero: dei molti contro i pochi, ossia le “odiate” élite (parlamentari e non). 
I populisti  non credono nella forza di gravità politica,  ritengono, per usare un’ abusata metafora, che le acque di fiumi e torrenti risalgano dal basso verso l’alto.  Insomma, in altri termini, credono che le élite siano un’invenzione di qualche genio cattivo e non una costante metapolitica, storicamente, sociologicamente e geograficamente constatabile ovunque,  a prescindere dal regime politico.  Di qui la balzana  idea populista  di invertire il corso delle acque  della storia e della sociologia, puntando sulla democrazia diretta e la soppressione,  per ora  fin dove possibile, delle élite dirigenti, cominciando da quelle politiche. Una lotta, come detto, contro la forza di gravità della politica.  Una lotta che, storicamente parlando, è sempre  sfociata nel  potere assoluto di comitati di salute pubblica, dittatori e tiranni.                     
Il populismo, come si evince dal titolo del “Fatto Quotidiano”, rimanda ideologicamente a un mix di demagogia, complottismo, risentimento, arroganza, ignoranza. Ciò significa che  il referendum del 20 e 21 settembre -  attenzione,  il solo porlo -   rappresenta la  "consacrazione"  politica dell’ideologia populista.   
Entriamo nei dettagli.
La demagogia risiede  nel far credere alla gente  che il taglio secco  di 345 deputati su 945 sia la via più breve alla democrazia. Sul piano cognitivo  ciò significa  rifiutare qualsiasi ragionamento astratto e complesso,  per diffondere l’idea, molto concreta ma semplicistica, quindi comprensibile per tutti, che tagliare una testa o delle teste, per ora in senso metaforico, sia la via più facile per far funzionare un sistema politico. In realtà,  dietro la demagogia si nasconde la semplificazione cognitiva, tipica proprio delle forme referendarie: un Sì o un No, senza tanti ragionamenti. O se si preferisce, siamo davanti al trionfo della democrazia emotiva sulla democrazia ragionata (e ragionevole), tipica della democrazia rappresentativa di ispirazione liberale.       

Il complottismo rinvia a una visione a dir poco parziale e malevola della realtà economica e sociale. I sindacati non sono forse un gruppo di pressione? Un “potere forte” che  in larga parte è  per il Sì ai tagli. Allora anche questo  è un complotto contro il popolo? La Rai monopolio  pubblico e per due terzi abbondanti nelle mani del Governo, quindi schierata  per il Sì,  non è un potere forte? Anche qui si tratta di  un complotto ?
Il risentimento rimanda a un atteggiamento,  a dire il vero assai diffuso tra la gente,  frutto di una altrettanto estesa  credenza  nell’obbligo che l’uguaglianza dei punti di partenza debba essere sostituita dall’uguaglianza dei punti di arrivo. Un obiettivo impossibile da conseguire, perché gli individui sono profondamente diversi, gli uni dagli altri, per volontà,  intelligenza e altre qualità morali. Si tratta di un’utopia che però  serve a consolare falliti e incapaci. Fantasie che tuttavia, piaccia o meno, contribuiscono  alla crescita  del risentimento sociale verso chiunque ce l’abbia  fatta. 
L’arroganza  rinvia al senso di superiorità che viene fatto risiedere nel valore assoluto di un’idea e nella conseguente necessità di farla trionfare. Nel caso in particolare si tratta di  una concezione semireligiosa della sovranità popolare. Ci si nasconde dietro la parola popolo, come un tempo dietro la parola dio, per perseguire i suoi nemici, come una volta si dava la caccia a diavoli e streghe.  Pertanto un referendum, come quello del prossimo 20-21 settembre, viene arrogantemente presentato come una specie di moderno  giudizio di dio, con il “popolo” ovviamente al posto di quest’ultimo.
L’ignoranza rinvia alla scelta, intenzionale o meno, di ignorare tutta la letteratura scientifica che dimostra come la democrazia rappresentativa dipenda non tanto dal numero dei deputati ma dalla qualità. Una questione che rinvia alla formazione  e selezione, quindi  circolazione,  delle élite dirigenti ( non solo politiche).  In Italia purtroppo  la bassa  qualità degli studi,  frutto, sul piano delle idee sociali,  della sostituzione dell’uguaglianza di partenza con quella di arrivo (diplomi e lauree facili per tutti),  nonché  certo familismo amorale  distruttore di qualsiasi senso dello stato  (di diritto), non hanno permesso,  soprattutto negli ultimi  venticinque anni,   ai meccanismi di selezione sociale delle élite di funzionare come invece dovevano. 
Da ultimo,  resta veramente singolare, a partire dalla linea politica del “Fatto quotidiano”, e dei populisti in genere ( a destra come a sinistra),  il riferirsi gaiamente al fatto che anche altri paesi europei, dalla Francia alla Germania, si appresterebbero a tagliare i deputati.
Il punto è che il populismo ormai detta l’agenda politica, addirittura sul piano mondiale, come attesta il successo di  un bizzarro personaggio come Trump.  Di conseguenza i partiti tradizionali, pur di non perdere voti, a loro volta “populisteggiano”.  O meglio, per dirla  in termini politologici,  cercano di  legittimare il populismo, puntando sulla mimesi politica, seppure per ora in maniera selettiva. 
Tecnicamente, si ripete l’errore commesso dalle democrazie liberali  con Mussolini e Hitler. Allora si tentò di recepire alcuni contenuti politici dei loro movimenti  sperando, per un verso di riguadagnare il favore popolare, per l’altro di costituzionalizzare gli estremisti.
Però, la debolezza politica, come noto, non pagò.

Carlo Gambescia