Il libro della
settimana: Cinzia Rita Gaza, Morire,
uccidere: l’essenza della guerra,
prefazione di Luigi Bonanate, Franco Angeli, Milano 2014, pp. 176, Euro 21,00.
La guerra in una società
psichicamente e sociologicamente demilitarizzata, come la nostra, è argomento indigesto, anzi,
politicamente scorretto: roba
per pochi specialisti universitari, assediati, in un
mondo accademico dove proliferano con il sorriso stampato sulla faccia istituti per lo studio scientifico della pace. Per non parlare degli input mediatici alla valeriana e di certo diffuso sentire
arcobaleno a colpi ( e non) di bandiere pacifiste.
Perciò ben vengano libri di
taglio scientifico, capaci di affrontare
senza ipocrisie lo studio di un fenomeno
che, piaccia o meno, innerva la storia umana. Di qui, la giusta necessità, di capirne costanti antropologiche,
sociologiche, politiche, nel quadro di una dinamica multiforme, dove
caso e necessità condizionano l’andamento delle vicende umane. Senza per questo dover dividere il pane con i guerrafondai di ogni colore politico
In particolare, pensiamo a Morire,
uccidere: l’essenza della guerra (Franco Angeli), libro ora sulla nostra scrivania: un bel saggio, agile,
asciutto, avvincente (le tre A), scritto da Cinzia Rita Gaza, dottore di ricerca in Scienze strategiche e docente presso la Scuola di Studi Superiori dell’Università di Torino. Parliamo di una monografia introdotta limpidamente da Luigi
Bonanate, in cui si punta al bersaglio grosso: i fatti nudi e crudi. Gaza, per limitarsi alla storia événementielle, picchia più duro di un pugile di Gragnano: mandando a tappeto Churchill a proposito dell' area Bombing, triste privilegio britannico (e Guernica allora?), ma anche i baby boomers incollati a frigorifero e televisione. Gaza si avvale anche di uno stile brioso ai limiti di una divertente e
piacevole scapigliatura linguistica, capace di coniugare registri alti e bassi. Tanto per capirsi:
“ Mentre la causa [della
guerra, Ndr], si presenta nelle sue epifanie storiche come
valore in franchising, omologante e cogente” ; oppure “la causa [della guerra, Ndr], in ultima analisi ne costituisce una rappresentazione
esteriore, una semplificazione
prêt-à-porter” (p. 44). O ancora: “non gli si chiede [al soldato, Ndr] se
per la patria è pronto a uccidere, perché tale prerequisito non è in discussione, è il minimo sindacale” (p. 158, i corsivi sono nostri).
Abbiamo tra le mani un lavoro ben strutturato, organico, corredato da una più che accettabile bibliografia, diviso in due parti: “Morire” e “Uccidere”:
ciò che la guerra in ultima istanza ci chiede, come ben sottolinea Gaza. Ripartite,
rispettivamente in sei e cinque
capitoli: Parte Prima. “1. Morire in guerra”; “2. Morire per la
causa”; “3. Il sacrificio; “4. La giovane e bella morte eroica”; “5. onore di
pianti”; 6.Ossimoro di guerra” . Parte Seconda: “7. Uccidere, uccidere in
guerra”; 8.L’onore del soldato”; ”9. La fiera campionaria della crudeltà”; “10. Beep-and-boom”;
“11. Dopo la guerra”. Ogni parte, e seguita da Conclusioni. Ovviamente, non manca l’”Ultima conclusione” (pp. 163-165. In particolare però, si raccomanda la lettura e rilettura delle "Seconda conclusione" (pp. 158-161): un concentrato stratigrafico delle tesi sostenute nel libro. Eccellente.
Troppo pedanti? Abbiamo addirittura esposto, quasi compitato, l' Indice, titolo per titolo... Forse. Ma come altrimenti far annusare ai possibili lettori la profondità tematica del volume? Un testo che non tralascia un solo aspetto del
questione? Insomma, nel nostro caso,
pedanteria come sinonimo di invito perentorio alla lettura.
Quali sono le tesi del libro? Una volta ridotta la guerra alla sua essenza: morire e uccidere,
mettendosi sulla scia del realismo
antropologico, Gaza riconduce le due costanti, declinate culturalmente ( quindi non in chiave brutalmente biologistica), a forme archetipiche,
che si solidificano di volta in volta in modelli istituzionali (ad esempio,
lo stato-nazione), simbolici (
del cittadino in armi) collettivi (la
solidarietà di gruppo), però sempre storicamente determinati. Un approccio
metodologico forma-contenuto, che condividiamo: forma archetipica, contenuti
storici. Sullo sfondo teorico, ricco di nomi importanti (con iceberg analitico, Jung e Hillman), il non citato Simmel del conflitto nella cultura moderna? Forse. Ovviamente stiamo
semplificando. Il libro, ripetiamo, è ricco di spunti, stimoli, notazioni. Solo per fare un esempio: perché l’Occidente
non vuole battersi più? Per farla breve:
cultura del figlio unico in carriera. Gaza riprendendo le taglienti tesi di
Luttwak osserva:
“
Se la scarsità di un bene (in questo
caso i figli) ne aumenta il valore, questo non significa un maggiore
apprezzamento dei combattenti in quanto
ridotti di numero e pertanto ‘economicamente’
preziosi: lo scenario non è quello della fine della potenza
spartana a causa della strage degli
spartiati non rimpiazzabili dal normale ricambio generazionale. Il problema non
riguarda nei termini di un eventuale rischio di depauperamento del patrimonio
demografico nazionale, bensì in un problema di natura squisitamente emotiva: la
società non è più in condizioni di accettare perdite, anche in numero
estremamente ridotto rispetto a quello relativo alla guerre del passato.
Ribaltando i termini della questione, si potrebbe sostenere che il regime a bassa natalità tipico delle società del
benessere non è causa della maggiore dedizione alla prole ma conseguenza: in altre parole, i figli non sono preziosi perché pochi ma pochi perché preziosi, perché
vogliamo dare loro il massimo possibile
in termini di benessere, salute, formazione, esperienze, cioè convogliare
grandi energie di natura economica e affettiva su di un numero limitato di
individui” (pp. 84-85)
Perciò gli ultimi seguaci di Marinetti sono
avvisati… Non c’è più materia prima, né
culturale né materiale. Per dirla, parafrasando al contrario la famosa tesi di Bouthoul, oggi l'Occidente pratica il differimento sine die dell'infanticidio differito... Anche se, il libro, alla fin fine, è possibilista. La storia umana è fatta di revisioni culturali. Mentre la pericolosità dell'uomo (Hobbes) incombe sempre.
Un punto infine. Osserva
giustamente Gaza:
La
ragione (o il complesso di ragioni) per cui gli uomini sono disposti a morire
in guerra o, al contrario, sono riluttanti a mettere a repentaglio la loro vita è, in prima istanza, connessa
con la fortuna o il declino a cui è
storicamente soggetta l’idea di un valore
condiviso e aggregante, capace di trascendere l’individuo, che richiede
di essere strenuamente difeso o ardentemente esaltato. Che si chiami
patria o nazione, fede o ideologia, è un
valore che viene recepito come
atemporale e totalizzante, tanto che
porta gli uomini a relativizzare il valore della loro vita singola e transitoria. Si può forse rinvenire
una sorta di sinusoide storica che
individua le fasi nelle quali il
principio di appartenenza sale nella
borsa-valori degli ideali (nella polis
greca, nella Roma repubblicana, nelle campagne napoleoniche, nelle guerre
nazionali e nazionalistiche) e fasi
nelle quali questo scende. Le prime sono quelle che determinano una diffusa disponibilità al sacrificio, che trova rispondenza nell’approvazione sociale; le seconde sono
attraversate da riluttanza, scetticismo e pragmatismo” (89-90).
In realtà, qualcuno è già volato sul nido del cuculo. Un tentativo ravvicinato del terzo tipo (la sinusoide storica, il valore condiviso, eccetera) - metodologicamente, sorta di fusione a freddo tra sociologia quantitativa e
qualitativa - rimanda non tanto ai lavori del citato Bouthoul (grande polemologo,
oggi dimenticato, forse talvolta troppo frettoloso e vendicativo nelle conclusioni), quanto all’
opera di Pitirim A. Sorokin: Social and
Cultural Dynamics (1937-1941). Dove
il flusso e riflusso tra senso di appartenenza e individualismo (semplificando)
in relazione al “fattore polemico” (per usare la terminologia di Julien Freund), viene agganciato alle forme culturali prevalenti: idealismo, ideazionalismo, sensismo. E con tanto di
grafici: pieni zeppi dei sinusoidi di cui sopra... Secondo il grande
sociologo russo, naturalizzato americano, più una cultura si fa totalitaria ed
egoistica, più è facile che diventi polemica. Inoltre Sorokin, studia anche la
relazione statistica, tra modelli di interazione sociale (contrattualistico, familistico,
coercitivo) e dinamica polemologica. Le sue tesi
(che ovviamente non sono vangelo) hanno trovato conferma nelle indagini di Quincy Wright, autore del monumentale A Study of War (1942). In seguito, l'atteggiamento verso le tesi sorokiniane si è fatto più critico: si veda al riguardo William Eckhardt, Transitions, Revolutions, and Wars, in J.B. Ford, M.P. Richard C. Talbutt, Sorokin and Civilization. A Centennial Assessment (1996). Comunque sia, Sorokin resta un grande pioniere. E non potevamo non ricordarlo.
In conclusione, un ottimo libro, quello di Cinzia Rita Gaza. E poi... Un saggio che si apre con una citazione dell’amico Claudio Bonvecchio e si chiude con un' altra di Ernst Jünger... Il massimo, diciamo così, dell'anti-mainstream. Perciò leggerlo e diffonderlo è un dovere.
In conclusione, un ottimo libro, quello di Cinzia Rita Gaza. E poi... Un saggio che si apre con una citazione dell’amico Claudio Bonvecchio e si chiude con un' altra di Ernst Jünger... Il massimo, diciamo così, dell'anti-mainstream. Perciò leggerlo e diffonderlo è un dovere.
Carlo Gambescia
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