giovedì 2 luglio 2015

Il libro della settimana: Cinzia Rita Gaza, Morire, uccidere: l’essenza della guerra,  prefazione di Luigi Bonanate, Franco Angeli, Milano 2014, pp. 176,  Euro 21,00. 



La guerra in una società psichicamente e sociologicamente demilitarizzata, come la nostra,  è argomento indigesto,  anzi,  politicamente scorretto:  roba per  pochi  specialisti universitari, assediati, in  un  mondo  accademico  dove proliferano con il sorriso stampato sulla faccia   istituti per lo studio  scientifico della pace.  Per non parlare degli input mediatici alla valeriana  e di certo diffuso sentire arcobaleno a colpi ( e non)   di bandiere pacifiste. 
Perciò ben vengano libri di taglio scientifico,  capaci di affrontare senza ipocrisie  lo studio di un fenomeno che, piaccia o meno,  innerva la storia umana.  Di qui,  la giusta  necessità, di capirne costanti antropologiche, sociologiche, politiche,   nel quadro di una dinamica multiforme, dove caso e necessità condizionano  l’andamento delle vicende umane. Senza per questo dover dividere il pane con i guerrafondai di ogni colore politico
In  particolare, pensiamo a  Morire, uccidere: l’essenza della guerra (Franco Angeli), libro ora sulla nostra scrivania: un bel saggio, agile, asciutto, avvincente (le tre A), scritto da Cinzia Rita Gaza, dottore di ricerca  in Scienze strategiche e docente presso la Scuola  di Studi Superiori  dell’Università di Torino.  Parliamo  di una monografia introdotta limpidamente da Luigi Bonanate, in cui si   punta   al bersaglio  grosso: i fatti nudi e crudi.  Gaza, per limitarsi alla storia événementielle,  picchia  più duro  di un pugile di Gragnano: mandando a tappeto Churchill  a proposito  dell' area Bombing,  triste privilegio britannico (e Guernica allora?), ma anche i  baby boomers  incollati a frigorifero e televisione.  Gaza si avvale anche di uno  stile brioso  ai limiti di una divertente e piacevole scapigliatura linguistica, capace di coniugare registri alti e bassi. Tanto per capirsi: 

“ Mentre la causa [della guerra, Ndr], si presenta nelle sue epifanie storiche  come valore in franchising, omologante e cogente” ; oppure “la causa  [della guerra,  Ndr], in ultima analisi  ne costituisce una rappresentazione esteriore, una semplificazione prêt-à-porter” (p. 44). O ancora: “non gli si chiede [al soldato, Ndr] se per la patria è pronto a uccidere, perché tale prerequisito non è in discussione, è il minimo sindacale” (p. 158,  i corsivi sono nostri).   

Abbiamo tra le mani un lavoro  ben strutturato, organico,  corredato  da una più che accettabile  bibliografia,   diviso in due parti: “Morire” e “Uccidere”: ciò che la guerra in ultima istanza ci chiede, come ben sottolinea Gaza.  Ripartite,   rispettivamente in  sei e cinque capitoli:  Parte Prima.  “1. Morire in guerra”; “2. Morire per la causa”; “3. Il sacrificio; “4. La giovane e bella morte eroica”; “5. onore di pianti”; 6.Ossimoro di guerra” .  Parte Seconda: “7. Uccidere, uccidere in guerra”; 8.L’onore del soldato”; ”9. La fiera campionaria della crudeltà”; “10. Beep-and-boom”; “11. Dopo la guerra”. Ogni parte, e seguita da Conclusioni.  Ovviamente,  non manca l’”Ultima conclusione” (pp. 163-165.  In particolare però, si raccomanda la lettura e rilettura delle "Seconda conclusione" (pp. 158-161): un concentrato stratigrafico delle tesi sostenute nel libro.  Eccellente. 
Troppo pedanti? Abbiamo addirittura  esposto,  quasi compitato,  l' Indice, titolo per titolo...  Forse. Ma come altrimenti far annusare  ai possibili lettori  la profondità tematica  del volume? Un testo   che non tralascia un solo aspetto del questione?  Insomma,  nel nostro caso, pedanteria  come  sinonimo di invito perentorio alla lettura.
Quali sono le tesi del libro?  Una volta ridotta la guerra alla sua essenza: morire e uccidere, mettendosi  sulla scia del realismo antropologico, Gaza  riconduce le  due costanti, declinate culturalmente ( quindi non in chiave brutalmente biologistica),  a forme archetipiche, che si solidificano di volta in volta  in modelli istituzionali (ad esempio,   lo stato-nazione),  simbolici ( del cittadino in armi)  collettivi (la solidarietà di gruppo), però sempre storicamente determinati. Un approccio metodologico forma-contenuto, che condividiamo: forma archetipica, contenuti storici. Sullo sfondo teorico, ricco di nomi importanti (con iceberg analitico,  Jung e Hillman),  il non citato Simmel del conflitto nella cultura moderna?  Forse.  Ovviamente stiamo semplificando.  Il libro, ripetiamo,  è ricco di  spunti, stimoli, notazioni.  Solo per fare un esempio: perché l’Occidente non vuole battersi più? Per farla breve:  cultura del figlio unico in carriera.  Gaza riprendendo le taglienti  tesi di   Luttwak  osserva:

“ Se la scarsità di un bene  (in questo caso i figli) ne aumenta il valore, questo non significa un maggiore apprezzamento  dei combattenti in quanto ridotti di numero e pertanto ‘economicamente’  preziosi: lo scenario non è quello della fine della potenza spartana a causa della strage  degli spartiati non rimpiazzabili dal normale ricambio generazionale. Il problema non riguarda nei termini di un eventuale rischio di depauperamento del patrimonio demografico nazionale, bensì in un problema di natura squisitamente emotiva: la società non  è più in condizioni di accettare perdite, anche in numero estremamente ridotto rispetto a quello relativo alla guerre del passato. Ribaltando i termini della questione, si potrebbe sostenere che il regime  a bassa natalità tipico delle società del benessere  non è causa  della maggiore dedizione alla prole  ma conseguenza:  in altre parole, i figli  non sono preziosi  perché pochi ma pochi perché preziosi, perché vogliamo dare loro  il massimo possibile in termini di benessere, salute, formazione, esperienze, cioè convogliare grandi energie di natura economica e affettiva su di un numero limitato di individui” (pp. 84-85)         


Perciò gli ultimi  seguaci di Marinetti sono avvisati…  Non c’è più materia prima, né culturale né materiale.  Per dirla, parafrasando al contrario la famosa tesi di Bouthoul, oggi l'Occidente pratica il differimento sine die  dell'infanticidio differito... Anche se, il libro, alla fin fine, è possibilista. La storia umana è fatta di revisioni culturali. Mentre la  pericolosità dell'uomo (Hobbes) incombe sempre.
Un punto infine. Osserva giustamente Gaza:

La ragione (o il complesso di ragioni) per cui gli uomini sono disposti a morire in guerra o, al contrario, sono riluttanti a mettere a repentaglio  la loro vita è, in prima istanza, connessa con la fortuna o il declino  a cui è storicamente soggetta l’idea di un valore  condiviso e aggregante, capace di trascendere l’individuo, che richiede di essere strenuamente difeso o ardentemente esaltato. Che si chiami patria  o nazione, fede o ideologia, è un valore  che viene recepito come atemporale e totalizzante, tanto che  porta gli uomini a relativizzare il valore della loro vita  singola e transitoria. Si può forse rinvenire una sorta di sinusoide  storica che individua  le fasi nelle quali il principio di appartenenza  sale nella borsa-valori  degli ideali (nella polis greca, nella Roma repubblicana, nelle campagne napoleoniche, nelle guerre nazionali e nazionalistiche)  e fasi nelle quali questo scende. Le prime sono quelle che  determinano una diffusa disponibilità  al sacrificio, che trova rispondenza  nell’approvazione sociale; le seconde sono attraversate da riluttanza, scetticismo e pragmatismo” (89-90).
  

In realtà,  qualcuno  è già volato sul nido del cuculo.  Un tentativo ravvicinato del terzo tipo  (la  sinusoide storica, il valore condiviso, eccetera) -   metodologicamente,  sorta di fusione  a freddo tra sociologia quantitativa e qualitativa -  rimanda non tanto  ai lavori del citato  Bouthoul (grande polemologo, oggi dimenticato, forse talvolta troppo frettoloso e vendicativo nelle conclusioni), quanto all’ opera di Pitirim A. Sorokin: Social and Cultural Dynamics  (1937-1941). Dove il flusso e riflusso tra senso di appartenenza e individualismo (semplificando) in relazione al “fattore  polemico”  (per usare la terminologia di Julien Freund),  viene agganciato alle forme culturali prevalenti:  idealismo, ideazionalismo, sensismo.  E con tanto di  grafici: pieni zeppi dei  sinusoidi di cui sopra... Secondo il grande sociologo russo, naturalizzato americano, più una cultura si fa totalitaria ed egoistica, più è facile  che  diventi polemica. Inoltre  Sorokin,  studia  anche la relazione statistica, tra modelli di interazione sociale (contrattualistico,  familistico, coercitivo)  e dinamica polemologica.  Le sue tesi  (che ovviamente non sono vangelo) hanno trovato  conferma  nelle  indagini di  Quincy Wright, autore del   monumentale A Study of War (1942). In seguito,  l'atteggiamento verso le tesi sorokiniane si è fatto  più critico: si veda al riguardo  William Eckhardt, Transitions, Revolutions, and Wars, in  J.B. Ford, M.P. Richard C. Talbutt, Sorokin and Civilization. A Centennial Assessment (1996). Comunque sia, Sorokin resta un grande pioniere. E non potevamo non ricordarlo.
In conclusione,  un ottimo libro, quello di Cinzia Rita Gaza.  E poi...  Un saggio che   si apre   con una citazione dell’amico Claudio Bonvecchio e si chiude con un' altra di Ernst Jünger...  Il massimo, diciamo così,  dell'anti-mainstream.   Perciò  leggerlo e  diffonderlo  è  un dovere. 
Carlo Gambescia

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