giovedì 13 ottobre 2011

Ci sono recensioni che aggiungono valore a un libro, indicando piste, e recensioni puramente descrittive, spesso inutili. Ora, lo scritto dell’amico Teodoro Klitsche de la Grange (*) appartiene al primo “tipo”. E quindi siamo onorati di pubblicarlo. Infatti, la sua recensione, al di là dell'esposizione dei contenuti, pur interessanti, de Il golpe inglese, invita a riflettere su un fatto importante, diremmo decisivo, e di regola ignorato da coloro che dividono in angeli e demoni i protagonisti del pluriverso politico: "Le potenze non sono 'buone' o 'cattive' per scelte ideologiche o morali: le potenze proteggono i loro interessi (in fondo è la 'vocazione' degli Stati) e in questo i 'buoni' inglesi equivalgono ai 'cattivi' sovietici o ai 'discoli' americani (e viceversa)". Buona lettura. (C.G.)

.Il libro della settimana: Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella, Il golpe inglese, Chiarelettere, Milano 2011, pp. 354,  € 16,00.






Questo libro, basato quasi interamente su documenti degli archivi di Stato britannici, ha destato qualche sorpresa, non appena uscito, per la tesi di fondo sostenuta; ovvero che “Ogni volta che gli italiani hanno provato a decidere del proprio destino, gli inglesi sono intervenuti”. In realtà ciò che sorprende di più è la sorpresa: la Gran Bretagna, dati gli interessi che aveva nel Mediterraneo, e in particolare la non disponibilità (allora) di risorse petrolifere proprie – quelle del Mare del Nord erano di là da venire – non fece altro che comportarsi secondo la logica da (grande) potenza, influenzando la politica, specie in quei paesi che avevano minori possibilità e/o volontà di opporsi.
In particolare questo è ancora più evidente per i fatti successivi al secondo conflitto mondiale. Scrivono gli autori nell’introduzione “Conclusa la guerra, a differenza degli americani, Londra non considera gli italiani un popolo che ha combattuto la propria liberazione dal nazifascismo al fianco degli Alleati, ma come una nazione sconfitta. E dunque soggetta alle leggi dei vincitori. Il nostro paese non può avere un regime pienamente democratico. Non può provvedere autonomamente alla propria sicurezza. E, soprattutto, non deve seguire una linea di politica estera basata su un proprio interesse nazionale”. Il tutto sintetizzato in un colloquio tra Churchill e il delegato apostolico di Pio XII nel 1945, nel quale lo statista inglese dopo averlo rassicurato che “l’Italia godrà di eccellenti condizioni” (di pace) aggiunge “l’unica cosa che mancherà all’Italia è una totale libertà politica”. E in effetti la guerra si fa, seguendo Clausewitz, per costringere il nemico a fare la nostra volontà: quando questi è sconfitto, è nella logica del “politico” che debba, in misura di maggiore o minore, fare la volontà del vincitore. Per verificare la quale basta leggere tre documenti. Il primo è la dichiarazione di Yalta sull’Europa liberata, nella quale, tra l’altro, le potenze vincitrici U.S.A., Gran Bretagna e URSS si riservano il diritto d’intervento e prescrivono l’obbligo di cambiare la costituzione per i paesi dell’Asse e occupati dall’asse; il secondo è il Trattato di pace tra l’Italia e i vincitori, con clausole che disciplinano l’ordinamento interno (gli autori ricordano l’art. 16, ma non era il solo, come rilevato da Vittorio Emanuele Orlando nella discussione del Trattato alla Costituente); il terzo la stessa Costituzione vigente, che si adegua alle direttive politico-istituzionali dei vincitori.
Che poi a tutto ciò si accompagnasse anche l’influenza politica dei vincitori sul vinto, spesso esercitata con atti riconducibili agli arcana imperii è cosa che non meraviglia: quando lo si enuncia pubblicamente su documenti ed atti pubblici (spesso insolito) a maggior ragione lo si fa con azioni riservate e talvolta illegali.
Che è poi l’argomento di gran parte del libro “Nel dopoguerra, la storia dei conflitti invisibili tra Roma e Londra si snoda lungo un sentiero strettissimo. Delimitato, da un lato, dalle strategie di una gran parte della classe dirigente italiana, desiderosa di entrare a pieno titolo nel gioco delle grandi potenze economiche; dall’altro, dalla dottrina Churchill, con le sue successive rielaborazioni”; e la Gran Bretagna “mette in campo la sua rete d’influenza e le sue quinte colonne, sempre pronte a scattare al minimo segnale di pericolo”. Quinte colonne spesso costituite dagli ex sconfitti, come il Principe Borghese e ambienti neo fascisti; dall’altro dagli ex partigiani vicini agli alleati occidentali, Edgardo Sogno tra i più influenti. Ma anche più spesso da ambienti anglofili (e massonici) legati alla Gran Bretagna da comunanze ideali (ed ammirazione), nonché da interessi. In particolare la politica “sotterranea” inglese prendeva di mira due personaggi, Enrico Mattei e Aldo Moro, e un partito: il PCI.
L’effetto di tale “rete di protezione” è stato (tra gli altri) di occultare la reale influenza inglese negli affari italiani; leggendo i documenti si pensa “al modo in cui gran parte del mondo politico, degli ambienti intellettuali e dell’informazione italiani tendono ancora oggi ad affrontare nodi della nostra storia... accreditati opinionisti che hanno ‘occupato’ ogni spazio dedicato alla memoria per imporre la loro chiave di lettura, ripetuta come un mantra: tutto è nato, si è sviluppato e si è consumato esclusivamente dentro i nostri confini, senza alcuna responsabilità di menti e mani straniere”: questo è un velo calato sulla storia “si poteva dire all’opinione pubblica, per esempio, quanto le vicende interne italiane fossero condizionate dalla dottrina di Churchill?”. Evidentemente no: sarebbe stato un colpo mortale all’agiografia costruita sulla vittoria degli alleati, e sul contributo datovi dagli italiani.
In conclusione il libro è interessante e da leggere perché racconta fatti e argomenta tesi del tutto inconsueti e trascurati, per via della “rete di protezione” e dell’intento agiografico accennato.
Due notazioni per concludere: se è vero che gli inglesi hanno influito nella politica italiana, è vero del pari che metodi simili sono stati ascritti all’onnipresente CIA e al KGB; probabilmente certi ed ancor più verosimili perché rientranti nella prassi politica, in particolare dei vincitori verso gli sconfitti. Le potenze non sono “buone” o “cattive” per scelte ideologiche o morali: le potenze proteggono i loro interessi (in fondo è la “vocazione” degli Stati) e in questo i “buoni” inglesi equivalgono ai “cattivi” sovietici o ai “discoli” americani (e viceversa).
In secondo luogo: credere che i vincitori vogliano fare gli interessi degli sconfitti (talvolta succede o succede che non se ne approfittino troppo) è ingenuo e alla lunga una classe dirigente che lo pratica finisce per chiudere la nazione nella beatitudine dell’impotenza politica, cioè nella prona e volontaria servitù. Rafforzata anche da quella anglofilia, o meglio ammirazione per il sistema liberaldemocratico che nella Gran Bretagna ha visto la propria matrice. Ma a tale proposito è bene concludere realisticamente che se è ingenuo pensare le Nazioni e la prassi politica svincolate dagli interessi, tra tanti “interessati” è meglio, conservando la propria autonomia, intendersi con chi ha nel proprio DNA il rule of law e l’habeas corpus, che fidarsi di coloro che hanno Tribunali rivoluzionari e campi di concentramento.
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Teodoro Klitsche de la Grange

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Teodoro Klitsche de la Grange è avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica "Behemoth" ( http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).

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