mercoledì 26 ottobre 2011

Pensioni 
La vera posta in gioco
.






Oggi vorremo scrivere qualcosa sulla questione pensionistica, che però vada oltre l’attuale disputa, degna del peggiore teatrino politico. Un tema che abbiamo più volte affrontato, ma, come si dice, repetita iuvant... Entriamo perciò subito in argomento. Quando si discute di pensioni, si dovrebbe evitare di restringere i tempi storici del dibattito alle cosiddette “riforme” degli ultimi 15-20 anni. Per quale ragione? Perché si tratta di un grave errore politico (oltre che storico), dal momento che si finisce per non considerare quel che l’assicurazione pensionistica obbligatoria ha rappresentato nelle politiche economiche e sociali del Novecento: un elemento di pace sociale e di consenso alla società capitalistica. Il che non è poco.
Qualche dato. L’assicurazione pensionistica (insieme con altri programmi sociali) venne introdotta in Europa Occidentale e nell’America del Nord (Stati Uniti e Canada), grosso modo, nella prima metà del Novecento. Ad eccezione della Germania e della Danimarca dove l’assicurazione pensionistica obbligatoria risaliva, rispettivamente, al 1889 e al 1891. Ecco qualche indispensabile dato storico sulla nascita del sistema pensionistico: Austria (1906), Svezia (1913), Italia (1919), Francia (1910), Olanda (1913), Italia (1919), Belgio (1924), Canada (1927), Finlandia (1937), Norvegia (1938), Stati Uniti (1935), Svizzera (1946),
Ovviamente, per ragioni di spazio, ci dobbiamo limitare ad alcune semplificazioni e indicazioni generali, probabilmente noiose, ma utili per capire i veri termini della questione, come il lettore scoprirà più avanti . Chi voglia approfondire, può leggere o consultare in argomento P. Flora e A. J. Heidenheimer, Lo sviluppo del welfare state in Europa e in America, il Mulino 1986: un piccolo classico.
Torniamo a noi. La periodizzazione, sopra indicata (1889-1946), è importante perché fa capire che le pensioni vennero introdotte in un momento di massima pressione delle lotte operaie, e di grande diffusione, dopo la Rivoluzione russa (1917), del cosiddetto pericolo rosso. Il che significa che il capitalismo probabilmente accettò il diritto alla pensione in termini tattici e strumentali. O se si preferisce obtorto collo . E non per convinzione sincera e profonda. Del resto la storia dell’uomo non è, né sarà mai, un pacifico e gentile minuetto…
Altro punto storico importante: a quando risale, il consolidamento del welfare state (e dunque del diritto alla pensione)? Al trentennio post-Secondo Guerra Mondiale. Quando il crescente conflitto con il comunismo russo (e il conseguente pericolo rivoluzionario interno) terrorizza l’establishment capitalistico. E quando, invece, si inizia a mettere in discussione il sistema pensionistico? Quando il pericolo rivoluzionario, diminuisce fino a ridursi a zero, prima negli anni Ottanta, con il riflusso delle lotte operaie in Europa ( avvenute nel decennio1968-1978), e poi con la definitiva uscita di scena dell’Unione Sovietica (1991). Dopo di che, negli anni Novanta, si procede, in tutto il mondo occidentale, al crescente smantellamento del welfare state, invocando ufficialmente motivazioni legate alla spesa pubblica e al calo demografico ( ad esempio, la legge italiana di riforma delle pensioni è del 1995). Da questo punto di vista, le cosiddette rivoluzioni liberiste rivendicate dalla Thatcher e da Reagan, negli anni Ottanta, sotto il profilo della revisione del sistema pensionistico, furono ben poca cosa. La vera svolta avviene solo negli anni Novanta, quando la sinistra si appropria del thatcherismo-reaganismo: si pensi, ad esempio al ruolo del blairismo, e alle forti limitazioni introdotte dal premier laburista nel sistema pensionistico britannico. E, si parva licet, si pensi all’ attuale posizione del Partito Democratico, in particolare alla cosiddetta "ala liberal", favorevole all’ allungamento dell’ età necessaria per andare in pensione.
Ora, nessuno nega che in passato vi siano stati abusi (si pensi alle “pensioni baby”in Italia), e che il problema pensionistico vada riesaminato alla luce dell’evoluzione demografica. Tuttavia, il vero punto della questione è di principio, ossia riguarda il diritto alla pensione. Che attualmente è sotto tiro, nonostante le "rassicurazioni", molto interessate, fornite da questo o quel politico. Cosa sta accadendo?
Per un verso si punta a ridimensionarlo, elevando l’età pensionistica e abbassando il valore delle pensioni, per l’ altro vi si contrappone il diritto al lavoro delle generazioni più giovani, cercando però di estendere la pratica del lavoro flessibile e poco pagato, anche in termini contributivi. Di qui, il rischio della progressiva impossibilità, per i giovani, di “costruirsi” una pensione e un futuro ( considerati soprattutto i bassi emolumenti). E per gli anziani di godersi la pensione da subito e in età ancora decente.
Un vicolo cieco, per tutti: per i pensionati di oggi e soprattutto per i giovani. I quali - è così banale ripeterlo - saranno gli anziani di domani…
Chiunque sia politicamente attento al sociale dovrebbe perciò interrogarsi sulla reale posta in gioco, ossia sulla volontà di certo capitalismo senza scrupoli, che sembra intenzionato a fare un passo indietro verso la prima metà dell’Ottocento. E così cancellare qualsiasi diritto alla pensione. Del resto, per gli imprenditori, come dire, più rapaci, non si tratta di una mission impossible. Considerata, appunto, la possibilità di delocalizzare o comunque di reperire nel Sud del mondo mano d'opera a buon mercato, più che diposta a trasferirsi in Occidente.
Insomma, per l’ideologia mercatista l’uomo dovrebbe lavorare tutta la vita, o almeno fino ad “ esaurimento” fisico. E poi, magari, accontentarsi di una pensione ai limiti della sopravvivenza.
Il che però è veramente contraddittorio. Perché se è vero che l’ iperliberismo continua a blaterare di un “diritto dell’uomo alla felicità privata”, è altrettanto vero, come del resto giustamente sostiene certo liberalismo sociale, che il lavoro “creativo” è una componente necessaria del diritto alla felicità. Di riflesso, ecco la contraddizione, come conciliare, di fatto, il diritto alla felicità privata con l’infelicità pubblica, causata dalla crescente diffusione del lavoro precario e dall’ attacco, ormai sistematico, al diritto a una pensione dignitosa? Come conciliare la crescente produzione di beni di consumo con la riduzione del potere di acquisto di stipendi, salari, e soprattutto pensioni? Come vivere, in questo quadro così incerto, tutti (giovani e anziani), “felici e contenti”?
E non sono domande da poco. Purtroppo.


Carlo Gambescia

Nessun commento:

Posta un commento