giovedì 6 dicembre 2012

ll libro della settimana: Richard Sennett, La cultura del nuovo capitalismo, il Mulino, Bologna 2012, pp. 145, euro 12,00.

http://www.mulino.it


I libri di Richard Sennett, sessantanovenne sociologo americano, sono sempre  segnati da brillanti  incursioni teoriche su argomenti classici, come dire,  da manuale.  E sotto questo aspetto  anche La cultura del nuovo capitalismo non delude.   Nel libro, uscito nel 2006 e opportunamente ristampato dal Mulino,  ci si occupa di flessibilità,  senza inutili demonizzazioni, ma anche senza fare sconti intellettuali.   Sennett si (e ci) propone  di ricondurre il lavoro flessibile nell'alveo del welfare: tentativo che in qualche misura  ricorda quello di Durkheim, rivolto a facilitare l'integrazione sociale dei lavoratori di fine Ottocento alle prese con la moderna divisione sociale del lavoro. Infatti,   i due studiosi si interrogano  su un evergreen sociologico :  come introdurre elementi di solidarietà all'interno di società prive di calore comunitario?
Durkheim, che viveva nella Francia della Terza Repubblica,  propose un comunitarismo repubblicano e democratico su basi corporative. Una specie di "pre- welfare state" fondato sul mutualismo sindacale e di mestiere. E con lo stato repubblicano e i professori universitari, come supremi garanti di un'etica sociale severa ma giusta. Sennett, si muove in un contesto diverso, dove la divisione sociale del lavoro, non riguarda più stati e nazioni, ma l'economia-mondo . Il capitalismo, rispetto ai tempi di Durkheim, dispone di tecnologie avanzatissime che favoriscono la delocalizzazione produttiva su scala mondiale. Inoltre, sembra essersi  fatto più aggressivo e  meno attento agli imperatici etici e sociali,  soprattutto sul versante borsistico e finanziario.  La "cultura del nuovo capitalismo" offre più libertà economica, meno sicurezza e, cosa più grave,  presta il fianco agli attacchi  speculativi.   Il che, per le figure lavorative penalizzate dalla flessibilità, significa non poter più pianificare l'esistenza.  Ma veniamo alle proposte di Sennett.

Innanzitutto, va garantita tra un lavoro e l'altro una dignitosa continuità assistenziale e previdenziale: il lavoratore "flessibile" non deve mai sentirsi solo, o peggio, abbandonato. Intorno a lui deve essere creata una rete comunitaria che ne garantisca la "continuità biografica", o per farla breve, la sua identità personale e sociale di cittadino. Dopo di che, va di nuovo attribuita rilevanza sociale al lavoro: il lavoratore, soprattutto se flessibile, deve tornare a sentirsi socialmente importante. Infine,  va pubblicamente incoraggiata nei singoli la consapevolezza del lavoro ben fatto. E questo a prescindere dai lavori che possano essere via via svolti. Sennett parla addirittura del recupero di una "sensibilità artigianale" come "impegno interiore" - tema cui ha dedicato un libro,  L'uomo artigiano (Feltrinelli):   il lavoratore deve credere nel valore oggettivo del proprio fare, "al di là dei propri desideri e perfino al di là delle ricompense date da altri" .

Queste proposte possono essere criticate. Resta però un fatto indiscutibile: nelle nostre società, così prigioniere di un individualismo spesso molto  aggressivo, Sennett orgogliosamente ribadisce la necessità di riscoprire lo spirito comunitario, indicando alcune piste. L'economia da sola non risolve tutto:  non è un "destino".  Insomma,   non è più accettabile, soprattutto in tempi di crisi,   la pretesa  di  dover  convertire sistematicamente ogni rapporto umano in merci e denaro. Il che però non può tradursi nell''eccesso opposto: il rifiuto della modernità economica (punto sul quale anche Sennett sembra non transigere).
Va, più semplicemente ( si fa per dire...),   "allargata"  la nostra  mentalità.  Occorre  capire,  come già sosteneva Durkheim, e ancora prima Proudhon, che  non basta dire all'altro: "Ti ho pagato, hai quel che ti spettava, ora sparisci...".  La società, in ultima istanza,  si regge su valori  più profondi: senso di appartenenza, rispetto e solidarietà. 
Concludendo: tornare, via Sennett,  a Durkheim?  Sì.  Magari però senza professori... 
Carlo Gambescia

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