venerdì 11 marzo 2011

Rivoluzionari (dilettanti) 
allo sbaraglio

Le famose "Guerre pacioccone" di Attalo 


Auspicare, come abbiamo letto nei giorni scorsi, che quel che è avvenuto in Libia possa accadere anche in Italia è degno di incolti come Antonio Di Pietro. Oppure di confusionari come Massimo Fini, il piccolo Georges Sorel della Bovisa. Vista la tenacia, ma non il rigore teorico, con cui invoca, quasi ogni giorno su Internet, l’uso della violenza risolutrice contro il Governo Berlusconi.

Violenza e politica
Ovviamente, nessuno disconosce il ruolo della violenza in politica, come mezzo, tra gli altri, per agguantare il potere. Secondo Pareto, Mosca, Michels, che se ne intendevano, la storia è il cimitero delle aristocrazie politiche, anche nel senso dell’ eliminazione fisica. Però una cosa è studiare l’uso della violenza in politica, un’altra farne la quotidiana e stupida apologia. Dimenticando, per dirla con un Padre della Chiesa, che «l’ira è un’erbaccia, l’odio un albero». Detto altrimenti: l’odio resta, l’ira passa. L’odio è una disposizione permanente a infierire sull’altro. Mentre un momento d’ira, di cui dopo ragionando ci si pente, può capitare a tutti, l’odio rischia sempre di trasformarsi in quercia secolare: un albero gigantesco i cui rami impediscono ai raggi della ragione umana di filtrare. Altro che erbaccia…
Ma c’è anche un altro aspetto, ancora più importante. Antonio Di Pietro e Massimo Fini giocano alla rivoluzione: vogliono azione… Se la ridono dei ritualismi della democrazia rappresentativa. E immaginano che le classi dirigenti, nascano come per incanto, spuntando dal nulla come il coniglietto bianco dal cilindro del prestigiatore… Di più: sproloquiano sulla rivoluzione come giusta occasione per sfasciare tutto e ricominciare da capo.

La macchina tritacarne della rivoluzione
Ma come nasce una classe dirigente? Attraverso quali canali si forma e sale a posizioni di comando? Qual è il suo rapporto con l’idea di rivoluzione?
Sono domande fondate, che purtroppo i rivoluzionari un tanto al chilo non si pongono. A Di Pietro e Fini basta sbraitare contro la classe dirigente, anzi dominante, ritenuta inetta, corrotta, eccetera. Purtroppo, per dirla con Camus, che sostanzialmente ripeteva la lezione di Tocqueville, «tutte le rivoluzioni moderne, hanno avuto per risultato un rafforzamento del potere statale» (L’uomo in rivolta). Ciò significa, come aveva intuito anche Joseph de Maistre, ancora prima di Tocqueville e Camus, che «non sono gli uomini che guidano la rivoluzione, è la rivoluzione che guida gli uomini» (Considerazioni sulla Francia). Insomma le rivoluzioni, se sono tali, non si fanno mai a metà… Una volta avviata la macchina tritacarne rivoluzionaria non è facile fermarla.
Ma entriamo nel cuore della questione. Oggi in Occidente le classi dirigenti - semplifichiamo ovviamente - provengono da due canali principali, la politica (i partiti), l’economia (industrie e banche). Sullo sfondo di una società di ceti medi, dove le élite (politiche ed economiche) usano un linguaggio universalista, consumista e democratico. Una retorica politica, dai detrattori definita buonista, che, almeno per ora e nonostante la crisi economica, sembra godere di largo consenso.Per contro, le possibili crepe del sistema vanno ravvisate nell’ eccessiva rilevanza, assunta dalle classi dirigenti economiche su quelle politiche. Uno spostamento di baricentro dalla politica all’economia del resto inevitabile. Perché i canali di formazione delle élite sono economici (facoltà di economia, scuole di specializzazione, banche, imprese industriali, società finanziarie). È perciò ovvio che dirigenti politici, così plasmati, privilegino una visione economicistica, dal momento che - ripetiamo - dipendono strettamente, per dirla in sociologhese, dal sottosistema economico.



Rivoluzioni: istruzioni per l’uso
Ora, dove nascono e si formano - chiamiamole così - le contro-élite rivoluzionarie?Di regola, nascono o sul campo, durante la rivoluzione. E qui l’ esempio classico e quello delle rivoluzioni borghesi (inglese, americana e francese). Oppure provengono da strutture politiche preesistenti, come nel caso della minoranza bolscevica russa, poi costituitasi in partito comunista. Infine, va ricordata, come sintesi delle due forme precedenti, l’esistenza di formazioni armate partigiane, partitiche e ideologiche, come nel caso dei fronti di liberazione nelle guerre di indipendenza nazionale. Naturalmente le contro-élite rivoluzionarie devono rispecchiare una reale situazione di disagio sociale (di ceti e classi a rischio) e attingere a un serbatoio di valori consensuali capaci di mobilitare, altrimenti il pericolo resta quello della rivoluzione di vertice, a base burocratica, in genere guidata dai militari. Di solito ciò avviene nei paesi in cui le forze armate sono l’unica struttura sociale di riferimento. Si pensi a certe rivoluzioni latino-americane, a cominciare dal peronismo (che però fu appoggiato anche dai sindacati), oppure a ciò che ora sta accadendo in Africa. Naturalmente, il rischio-verticismo riguarda anche i partiti rivoluzionari preesistenti a ranghi ridotti, come prova il fallimento del socialismo reale, finito nelle mani di una elefantiaca e improduttiva burocrazia di partito.In ultima istanza, il destino istituzionale di una rivoluzione è legato al grado di effettivo consenso sociale che il nuovo ordine riesce a incarnare e capitalizzare nel tempo. E qui si pensi anche all’ impopolare involuzione burocratico-bellicista - per alcuni già implicita nel Dna - di fascismo e nazismo.
Una capacità che dipende dalla reale volontà delle contro-élite rivoluzionarie di stabilizzarsi, armonizzando bisogni reali e valori, come è avvenuto nel caso delle rivoluzioni borghesi. Una volontà spesso condizionata, ma non determinata, dal gioco delle circostanze storiche.

Dilettanti allo sbaraglio
Resta poi un aspetto sociologico-generazionale, individuato da Ortega y Gasset. Il quale sosteneva che « una rivoluzione dura soltanto quindici anni: un periodo che coincide con l’efficienza di una generazione» (La ribellione delle masse) . Ora, si può discutere sulle cifre fornite dal filosofo spagnolo (quanto dura una generazione quindici anni? Venticinque? Trenta? ), ma non sul principio: perché il vero problema, per la contro-élite rivoluzionaria, non è solo la conquista del potere, ma come trasmetterlo alle generazioni successive, di regola, poco desiderose di bruciarsi le giovani manine al sacro fuoco di una rivoluzione accesa da altri, nel caso specifico da padri liquidati come antiquati.
Per tornare a noi, dal momento che nell’Europa attuale non c’è alcun partito bolscevico, probabilmente le contro-élite rivoluzionarie dovranno, se rivoluzione vi sarà, formarsi sul campo. Ma se la rivoluzione, come alcuni sostengono può nascere solo dal cataclisma economico, quanto più la situazione economica si stabilizzerà, tanto più la rivoluzione diverrà remota. Detto altrimenti: niente rivoluzione, niente contro-élite rivoluzionarie. Da questo punto di vista la credenza che dal disordine (le due crisi: economica e rivoluzionaria) possa nascere spontaneamente l’ordine (le contro-élite rivoluzionarie) ricorda quella cristiana nella provvidenza. Mentre servirebbe - ma molto prima del possibile cataclisma - la presenza di organizzatori del calibro di Lenin o del «Mussolini il rivoluzionario» (fino al 1920), ben descritto dallo storico De Felice.
Insomma, la rivoluzione è cosa troppo seria, per lasciarla nelle mani di dilettanti allo sbaraglio come Antonio Di Pietro e Massimo Fini. 

Carlo Gambescia

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