venerdì 9 maggio 2008

Il libro della settimana: Tilman Allert, Heil Hitler! Storia di un saluto infausto, il Mulino, Bologna 2007, pp. 98, euro 10,00. 

https://www.mulino.it/isbn/9788815124654


Questo libro di Tilman Allert, docente di sociologia nell’Università di Francoforte, crediamo sia uno di quei testi capaci di suscitare vocazioni sociologiche. Perché oltre ad essere un lavoro documentato e ben scritto, si mostra capace di collegare, per così dire, il micro con il macro: i fenomeni concreti con la teoria sociologica. O detto in altri termini di ricondurre un fenomeno particolare, anche se storicamente rilevante, come il saluto nazista, alle costanti generali del comportamento sociale dell’uomo. Soprattutto, come vedremo, in termini di rapporto tra angoscia e politica. Di qui la possibilità di provocare interesse verso le “costruzioni” sociali e sociologiche, soprattutto nei giovani lettori curiosi di scoprire il reale funzionamento della società
Ma lasciamo la parola allo studioso tedesco:

“Le formule di saluto costituiscono un microcosmo, una piccola incarnazione dei rapporti sociali, e ciò che il nostro studio ha inteso suggerire è che è possibile arrivare a comprendere le perversioni del nazionalsocialismo senza ricorrere allo stereotipo di un presunto carattere nazionale dei tedeschi, intrinsecamente antisemiti, predisposti all’autoritarismo e portati a sentirsi vittime della storia. Abbiamo invece potuto seguire il crollo del senso dell’io che ha permesso loro di dissociare le azioni presenti dalle conseguenze future, promuovendo l’indifferenza verso il presente. Questi due fenomeni - la perdita del senso di sé e l’indifferenza morale - formavano un circolo vizioso che impediva ai tedeschi di interagire realmente gli uni con gli altri e li incoraggiava ad anteporre i rituali agli effettivi contatti umani. La storia del saluto hitleriano è la storia di come i tedeschi tentarono di sfuggire alla responsabilità del normali rapporti sociali, rigettarono il dono del contatto con gli altri, permisero che i costumi sociali decadessero e rifiutarono di ammettere la natura necessariamente aperta e ambivalente dei rapporti umani e dello scambio sociale” (pp. 96-97).

Pertanto l’istituzionalizzazione del famigerato “Heil Hitler!" favorì la rimozione collettiva di un' interazione con l’Altro (a cominciare dal normale saluto...), ritenuta come sorgente di insicurezza e angoscia. E soprattutto sintetizzò storicamente la speranza collettiva, irrazionale e mal fondata, che il potere del carisma di Hitler, racchiuso nell’ossessiva ripetitività del saluto nazista (a scuola, in ufficio, tra vicini, eccetera), avrebbe liberato il popolo tedesco da un futuro minaccioso. In questo modo (ma non solo) attraverso l'istituzionalizzazione del saluto nazista come esorcismo gestuale capace di curare le angosce quotidiane, un singolo partito riuscì a impadronirsi della cultura politica e sociale di una intera nazione. Ciò che era lo straodinario per pochi (il saluto come distinzione e opposizione rispetto al resto della società) divenne l'ordinario per molti (il saluto come riconoscimento di una comune "fede" liberatrice da ogni angoscia). Si creò così uno "spazio comunicativo" in certo senso egualitario, fermo restando il ruolo decisivo del "capo" rispetto alla comunità.
Curiosamente il saluto “Heil Hitler”, nei suoi due significati (“A te Hitler, auguro la salvezza” e “Hitler ti salvi”), rinviava a una modernità livellatrice ma segnata dalla forza messianica, e perciò semireligiosa, sgorgante dalla figura di Hitler, quale suprema divinità politica. Scrive Allert:

“Nonostante la sua stilizzata forma arcaica, il saluto hitleriano- considerato nel contesto della storia delle forme di saluto - rappresenta la modernità radicale dell’ordine nazista. Era l’equivalente sul piano degli incontri individuali di ciò che i raduni del partito erano per le masse: l’offerta dell’illusione di un potere magico. Introduceva lo straordinario nell’esistenza di ogni giorno […]. Fu questo a far sì che lo scambio di saluti si trasformasse nel trasferimento da una persona all’altra della fede nel potere messianico dei Führer e dell’attestazione di fedeltà verso di lui. Introdotto tra le pratiche comuni della vita quotidiana, come una sorta di carta di identità verbale e gestuale, il saluto nazista definisce e determina la percezione della realtà che hanno i tedeschi in modo così potente che l’espressione di un dubbio in proposito arriva ad essere vista come una posizione inaccettabile, in qualche modo inverosimile. Così il saluto esercita un’azione continua, automatica, che porta alla soppressione di ogni dubbio, diffonde l’indifferenza verso le implicazioni del saluto stesso” (p. 55).

Forza del gesto politico? Bisogno di identificazione sociale? Potenza della mimesi collettiva? O del conformismo di massa nei riguardi del "capo". Difficile dire. Di sicuro dietro la diffusione di massa del saluto hitleriano vi era il rifiuto di relazionarsi gli uni agli altri secondo modalità normali (fin dal “Buongiorno”, “Buonasera”, eccetera). Certo frutto di tempi difficili. Ma di riflesso, come in tutte le fasi di crisi, esito di una necessità di abbandonarsi a una sorta di Fratello Maggiore, onnipresente e sostitutivo di un Altro-da-Sé giudicato (hobbesianamente) come pericoloso e perciò fonte di insicurezza. Fenomeno tipicamente moderno, legato al ricorrente rifiuto del diverso, quale fonte di angoscia politica. Che alcuni fanno iniziare con l'egualitarismo giacobino, imposto dall'alto, ma gradito in basso, a colpi di deità "civili", cittadinanza e calendari repubblicani, leva di massa e ghigliottina come suprema regolatrice dell'invidia sociale dei molti verso i pochi.

In conclusione, si tratta di un fenomeno, e non parliamo solo del "saluto", che potrebbe ripetersi. Magari assumendo altre forme, apparentemente più morbide.

Carlo Gambescia 

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