lunedì 13 febbraio 2006


Mario Monti e la contraddizione di fondo del liberalismo puramente economico



L' editoriale di Mario Monti apparso ieri sul "Corriere della Sera" rappresenta una buona occasione per chiarire una fondamentale contraddizione del liberalismo puramente economico, altrimenti noto come liberismo. Al quale di solito alcuni aggiungono l'aggettivo selvaggio.   Di qui la necessità di un commento. 
Mario Monti parla di "primato del consumatore", vecchio luogo comune liberista. Tesi che risale alla teoria della "mano invisibile" di Adam Smith. Il succo dell'editoriale è il seguente: il consumatore, trae vantaggio, dalla concorrenza fra il maggior numero di operatori economici. Più imprese sono presenti sul mercato, più il consumatore si avvantaggia, perché la concorrenza abbassa costi e prezzi. Pertanto, il nuovo governo, queste le sue conclusioni, dovrà favorire al massimo la libera concorrenza. Monti però non specifica come.
Non parla di leggi antimonopolistiche. Che implicherebbero, almeno in linea teorica, lo "smembramento" di quelle numerose grandi imprese italiane, presenti in campo automobilistico, bancario, finanziario, eccetera. Monti invoca misure di liberalizzazione solo nel campo della distribuzione dei farmaci e di servizi pubblici, come i taxi. Il che potrebbe essere oggetto di facile ironia. Anche perché, curiosamente, reputa "non essenziale" e controproducente, addirittura l'eliminazione degli ordini professionali, che come invece è noto servono solo per far crescere i costi dei servizi forniti al consumatore.
Pertanto il liberismo di Monti, come ogni altra forma di liberismo, è di pura facciata. Perché? Perché il mercato, come ogni altra istituzione sociale, tende naturalmente alla concentrazione del potere, e in particolare quello capitalistico. Un processo che può essere limitato(e mai eliminato completamente) solo attraverso un controllo non formale, come quello ex post dell'antitrust, ma sostanziale, come quello di leggi antimonopolistiche e di effettivi "smembramenti" delle grandi imprese egemoni. Il che richiederebbe, tra l'altro, quell'interventismo statale, nemico di ogni libertà economica, e così temuto dai liberisti.
Di riflesso le liberalizzazioni in difesa del consumatore proposte da Monti, sono puramente superficiali. E inutili. Anche perché, e questo Monti, come "pratico" lo sa benissimo, la riduzione delle dimensioni delle imprese, piaccia o meno, attualmente sarebbe nociva sul piano delle concorrenza internazionale, dove più le imprese sono grandi, più di fatto sono "competitive" (spesso all'Italia, in sede europea, si rimprovera un certo "nanismo" imprenditoriale). In realtà, l'economia internazionale, si regge non tanto sugli interessi, quanto sulla volontà di potenza economica delle grandi imprese transnazionali. Di qui il necessario liberismo di facciata di Monti, a uso interno.
E più in generale, la ragione della presenza all'interno del liberismo economico di una contraddizione tra teoria e pratica: tra proclamazioni di teorico liberismo e pratiche di fatto monopolistiche. Pratiche necessarie per competere sul piano internazionale. Il capitalismo liberale è un cane che si morde la coda: predica quella libertà, che è costretto a negare nella pratica, se vuole svilupparsi e crescere... Il capitalismo è sostanzialmente una teoria della crescita. Lo stesso Smith, a dire il vero, paventò il pericolo di un "associazionismo" tra produttori ai danni dei consumatore. Ma come Monti, non si spinse più in là nelle critiche, e soprattutto nella descrizione analitica di rimedi concreti, al di là dei generici e blandi divieti associativi. Anche per lui l'imperativo era quello della crescita a ogni costo.
Che poi i grandi monopoli sul piano dei prezzi non facciano l'interesse del consumatore è verissimo, ma è altrettanto vero che il capitalismo, come insegna Adam Smith, si regge sull'interesse dei singoli. Ma perché il capitalismo, storicamente ha sviluppato pratiche monopolistiche? Gli individui non sono tutti economicamente uguali, come invece ritengono per convenzione gli economisti liberali. E i più forti se ne approfittano. E una volta al potere è difficilissimo scalzarli. E a dirla tutta, non sempre, le classi dominanti, purtroppo, come dimostra la storia, lo hanno ceduto con le buone maniere. Da questo punto di vista il teorema della concorrenza perfetta, può essere giustificato sul piano teorico-economico delle formule astratte, ma non su quello sociologico dei concreti rapporti di forza.
In definitiva, piuttosto che sull'interesse ( o comunque non solo), il capitalismo si regge sulla volontà di potenza. Di pochi.

Ma questa è un'altra storia.

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