martedì 21 febbraio 2006


Alvi, Bernanke 
e il prezzo della ricchezza




Molti commenti economici si fondano su una "verità" che non è tale. Quale? Che il mercato capitalistico distribuisca e suddivida redditi e patrimoni in modo pressoché giusto, premiando meriti e capacità.
E' perciò difficile trovare qualche commento, che invece asserisca, con lucidità e senza piagnistei pseudospartachisti, quanto il mercato in realtà, soprattutto quello monetario (tassi, banche e dintorni) sia basato e moltiplichi le diseguaglianze di reddito e pratrimonio.
Sotto questo aspetto l'articolo di Geminello Alvi apparso ieri sul "Corriere Economia", Bernanke a rischio bolla (www.corriere.it), rappresenta una eccellente eccezione.
Alvi, riflettendo sulla situazione monetaria statunitense, intuisce che il re è nudo. E va al di là delle questione se continueranno a crescere o meno i tassi di interesse Usa. Secondo l'economista il "prezzo della ricchezza", di case e titoli di stato (e di tutte quelle componenti statiche che vanno a formare i patrimoni individuali) è negli ultimi anni straordinariamente cresciuto, e non solo in America, a spese del reddito (cioè di quel flusso di ricchezza, dinamico, creato dal lavoro umano).
Per Alvi, che concentra il suo interesse sugli sviluppi del mercato immobiliare, tutto ciò significa due cose:
La prima è che la politica (Usa) di bassi tassi di interesse ha determinato un crescita delle liquidità, e quindi una eccessiva disponibilità di denaro, che ha fatto lievitare il mercato dei titoli di stato e il soprattutto il prezzo degli immobili.
La seconda è che una politica del genere, non privilegia chi vive dei propri redditi (del proprio lavoro, qualunque esso sia), ma chi già dispone di ingenti patrimoni, e che perciò è "più avanti" degli altri nella corsa verso l' appropriazione di ricchezze patrimoniali.
Fin qui Alvi.
Che cosa significa questo dal punto di vista sociologico? Che i troppi dollari in circolazione fanno diventare i ricchi più ricchi e i poveri più poveri. Facendo così lievitare il "prezzo" per diventare ricchi (patrimonialmente parlando): più aumenta la domanda di proprietà immobiliari più, ovviamente, ne aumenta il prezzo. E più diventa difficile, per chi vive di reddito e non di patrimonio (di "rendita"), acquisire un immobile (e mantenerlo). Mentre chi già ne possiede per miliardi di dollari, vede il suo patrimonio rivalutarsi in misura crescente, e soprattutto può continuare ad acquistarne ancora... E si tratta di un processo che riguarda non solo l'America ma tutto l'Occidente, per così dire, "dollarizzato".
Quali sono le conclusioni di Alvi? Che una stretta monetaria Usa, più che prevedibile, potrebbe provocare un aggiustamento dei tassi ipotecari e far scoppiare la "bolla" patrimoniale. Ironicamente scrive "che le famiglie americane hanno comprato dei derivati [i mutui ipotecari per comprarsi una casa] e non lo sanno".
Giusto. Ma chi pagherebbe il costo sociale di tutto questo? Quali potrebbero essere le conseguenze sociologiche della stretta monetaria? Dell' "impulso deflattivo"? Le perdite di chi è ricco sarebbero sicuramente inferiori, e di molto, rispetto a quelle di chi vedrebbe crollare il valore di una casa, faticosamente acquistata. E magari costretto a svenderla per far fronte a una improvvisa crisi di liquidità.
Alvi, come pochi, intuisce brillantemente il problema. E dimostra con grande chiarezza come il mercato capitalistico, soprattutto monetario, sia fonte e viva di ingiuste diseguaglianze. E come la moneta non sia mai un velo... Ma, dopo aver scoperto che il re è nudo, preferisce tacere. Nella chiusa infatti, si limita solo a consigliare, che i banchieri (centrali), tengano conto in futuro anche del prezzo della ricchezza e non solo dei prezzi al consumo.
E qui pecca di ottimismo. Perché è come chiedere al famigerato scorpione della gnomica, non solo hollywoodiana, di non pungere. Non può farne a meno: è la sua natura. Così come è natura, o regola, dei banchieri centrali difendere i patrimoni di chi li ha nominati e consacrati. 

Carlo Gambescia

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