mercoledì 1 giugno 2022

Decostruendo Berlusconi

 


La promozione del Monza in serie A, che appena quattro anni fa giocava in serie C, è passata quasi inosservata. Certo, negli ambienti sportivi si è commentato. Negli altri, soprattutto politici, la cosa è passata in cavalleria. Probabilmente a causa dell’interdetto della cultura di sinistra, egemone sui mass media, che pesa come la lama di una ghigliottina su Silvio Berlusconi: nemico dei lavoratori, fascista, mafioso, corruttore, puttaniere e quant’altro.

Ecco, piaccia o meno, la vulgata condivisa anche dai bimbi delle elementari. Quella del “Berlusconi oggetto di consumo” come scrivono i sociologi alla moda.

Però, con la conquista della serie A, per la prima volta nella lunga storia del Monza, Berlusconi ha provato ancora una volta di essere un buon imprenditore. Lotito, presidente della Lazio, in diciotto anni, ha vinto alcune coppe del nonno.

Però, va pure riconosciuto, che l’abilità imprenditoriale del Cavaliere, ripetiamo, confermata in numerosi ambiti (in primis quello televisivo e delle costruzioni), ha mostrato di essere inversamente proporzionale alla sua abilità politica. Tradotto, grande imprenditore, pessimo politico.

Decostruiamo il punto. Decostruiamo il Berlusconi politico.

Sì, il Cavaliere, in passato ha vinto, ma non ha mai convinto (per usare un espressione da titolo caldo sportivo d’antan). La rivoluzione liberale di Berlusconi, più volte promessa, non è mai arrivata. Anzi, diciamo pure che non è mai partita.

Il Cavaliere non è stato neppure capace, al di là delle chiacchiere statistiche sui decimi di punto, di abbassare radicalmente la pressione tributaria, non solo agli italiani, ma anche, cosa fondamentale, come vedremo, agli investitori stranieri. Pensiamo in particolare al secondo governo Berlusconi  (2001-2006), pur diviso in due fasi governative (2001-2005; 2005-2006): quando comunque, soprattutto nella prima fase, la più lunga, c’erano i numeri anche in Parlamento.

Per fare che cosa? Per puntare su un’Italia tramutata in paradiso fiscale, o quasi. La tanto evocata “Rivoluzione Liberale”, al di là del folclore ideologico di molti finti liberali, significava intervenire drasticamente, pur nel nuovo quadro dell’euro forte (che premiava le importazioni sulle esportazioni), sulla macroeconomia degli scambi sull’estero, alzando più in alto l’asticella dei movimenti di capitali in entrata e in uscita come pure quella meccanismo importazioni-esportazioni.

Come? Abbassando le tasse e favorendo in questo modo potenti iniezioni di capitale estero privato. Investitori stranieri che, allettati dall’idea di benefici fiscali, avrebbero chiuso un occhio anche su un costo del lavoro non proprio basso. Il che avrebbe però rilanciato l’economia italiana, riacceso le esportazioni e favorito al contempo le importazioni.

Si pensi a un gigantesco aumento di capitale dell’ Azienda Italia: con denaro fresco privato e non frutto di indebitamento pubblico. Una svolta epocale: un ciclone di ricchezza, per così dire, si sarebbe abbattuto sull’Italia, sollevando quell’onda virtuosa dei redditi che crescono a vista d’occhio.

Onda miracolosa che avrebbe favorito tutti i ceti, certo, premiando in misura maggiore quelli più in alto, che però promuovono ricchezza, anche per successivo effetto di ricaduta.

Insomma, un circolo virtuoso. E comunque sia, si sarebbe creata liquidità vera, non quella falsa del debito pubblico crescente.

La triste parabola del Ministro degli Esteri Renato Ruggiero, una prestigiosa figura liberale, già direttore generale del WTO, durato in carica sei mesi perché sgradito ai trogloditi economici della Lega (di ieri e di oggi), riassume il più grave errore politico del Cavaliere. Anzi la sua debolezza. L’esatto contrario di una Margaret Thatcher, che sosteneva giustamente l’idea che se non le avesse fatte lei, le riforme, non le avrebbe fatte nessun altro. La Thatcher è entrata nella storia, Berlusconi si è comprato il Monza.

Ovviamente, due dirompenti scelte macroeconomiche, come il radicale abbassamento dei tributi e la rivoluzione del commercio estero, sarebbero andate a colpire gli interessi corporativi dei gruppi di pressione organizzati, imprenditoriali e sindacali, legati a un’economia contrattata nemica del rischio economico. E forse creato pure frizioni con il welfarismo fiscale dell’Unione Europea.

Per non parlare del gigantesco sforzo di razionalizzazione e di modernizzazione, anche mentale, da imporre alla pubblica amministrazione in vista di un afflusso di investimenti esteri da gestire in tempi rapidi.

Berlusconi, in particolare, come detto nel suo secondo governo (2001-2006), non ebbe il coraggio – la vera e unica dote dei grandi statisti – di avviare questa rivoluzione nella macroeconomia degli scambi con l’estero e di sfidare il mostro gelatinoso del corporativismo italiano, sia imprenditoriale che sindacale, costringendolo ad accettare la sfida del grande commercio mondiale. A redditi crescenti il costo del lavoro, diventa questione secondaria: la produzione fa premio sulla redistribuzione, che avviene direttamente tramite il mercato, rendendo così innecessari i patti corporativi, fonti  velenose di rigidità economica.

Qui il suo fallimento, qui i suoi pesanti limiti come leader politico. Tutto il resto è noia, anzi Travaglio, per dirla con un grande filosofo romano del Novecento.

Carlo Gambescia

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