martedì 11 febbraio 2014

Magistratura e politica 
Come finirà?



Ci risiamo. Berlusconi grida al golpe morale-giudiziario... Gli avversari replicano altrettanto duramente... Inoltre, i giudici per alcuni fanno il proprio dovere, per altri no. Come stanno realmente le cose? E non tanto dal punto di vista del "teatrino politico", quanto da quello sociologico. Cerchiamo di capire.
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A proposito di divisione dei poteri...
La divisione dei poteri (in esecutivo, legislativo e giudiziario) è presentata dal pensiero politico moderno, a partire da Montesquieu, come una conquista: il fatto, che la giustizia sia indipendente, dagli altri due poteri favorirebbe l’assoluta neutralità dei giudici e l’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, come impongono i diritti dell’uomo. Tuttavia basta entrare in un’aula giudiziaria per capire che la giustizia non viene amministrata in modo indipendente. Perché il maestoso principio della separazione dei poteri resta di così difficile attuazione?
Innanzitutto, bisogna sempre distinguere tra teoria e pratica. Asserire che la giustizia debba essere amministrata in modo neutrale rispetto ai diversi poteri sociali ha un valore teorico, nel senso che indica la realtà come “dovrebbe essere”. Osservare, invece, che almeno due secoli di storia confermano il contrario, ha un valore pratico, perché mostra la realtà “così com’è”.
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Chi ha e chi non ha
Del resto è sotto gli occhi di tutti il “fatto” che chiunque sia privo di risorse economiche o in contrasto con la società (“politicamente” e “giudizialmente”) dominante, difficilmente vince una causa.Inoltre, la giustizia non può essere amministrata in modo assolutamente indipendente, perché è gestita da un preciso gruppo sociale: quello dei giudici. Che, come ogni altro gruppo sociale tende a dominare altri gruppi, a stabilire alleanze, a dividersi in sub-gruppi politici. Del resto, anche la magistratura, come qualsiasi gruppo sociale ha necessità di risorse ideologiche, simboliche e materiali. Risorse, che nel moderno sistema di economia pubblica e privata basato sul mercato, provengono dallo Stato (stipendi e status) ma anche dalla società civile (onori sociali e professionali). Senza dimenticare che l’ideologia della “neutralità dei poteri”, prima che giuridica è politica. Dal momento che si è storicamente affermata attraverso rivoluzioni politiche, che hanno rafforzato il “potere” dello Stato. Il quale, a sua volta, non è qualcosa di neutrale, ma si compone di gruppi sociali (ad esempio partiti e lobby burocratiche), in conflitto per l’egemonia politica, e spesso dipendenti dai gruppi economici (imprese, sindacati e altri gruppi di pressione) .
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Diritto, ideologia e interessi
Pertanto la distinzione dei tre poteri, in realtà, ignora una lotta - sociologicamente scontata - tra gruppi sociali differenti per ideologia e interessi. Un conflitto all’ultimo sangue, distinto da battaglie, imboscate, armistizi, alleanze più o meno sincere. E dove l’ideologia della neutralità della giustizia, per dirla con Pareto, si trasforma in “derivazione” o giustificazione: un’arma ideologica da usare contro gli avversari e per nobilitare se stessi.Ma non basta. Perché, in questo modo, la neutralità della giustizia finisce per essere frutto di fragili equilibri sociali. Che nascono da alleanze ideologiche e materiali tra gruppi temporaneamente affini: gruppi che reinterpretano ideologicamente, e in proprio favore, l’idea normativa ( o teorica) di giustizia
Pertanto la neutralità viene e verrà sempre perseguita in misura parziale, perché di regola riflette l’egemonia di un’alleanza ideologica, anche occasionale, che premia alcuni e penalizza altri.Infine, la “macchina” della giustizia, risente dei problemi legati alla burocratizzazione: fenomeno tipico delle istituzioni moderne. Si tratta di questioni legate al reclutamento, alla formazione e alla gestione della giustizia. Un iter sul quale influisce inevitabilmente la cosiddetta “routinizzazione” o burocratizzazione delle funzioni professionali: un fenomeno che colpisce tutte le grandi organizzazioni moderne, come mostrano, tra gli altri, gli studi sul cosiddetto comportamento amministrativo. E che si ripercuote sulla “piccola giustizia” di tutti i giorni. E spesso negativamente, come in Italia, dove un processo civile, se va bene, dura quindici anni…

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La guerra tra poteri
Di conseguenza, lo scontro tra Berlusconi e i giudici è l’ennesimo episodio di una lotta tra due “sub-gruppi”, di destra e sinistra, all’interno dei gruppi contrapposti di giudici e politici. Un conflitto alimentato, a livello mediatico, da altri gruppi, probabilmente economici, legati all’informazione e anch’essi vincolati ideologicamente a fazioni politiche contrapposte. E il bello, anzi il brutto, è che tutti ( gruppi e sub-gruppi) difendono la neutralità della giustizia, ovviamente sempre da un punto di vista particolare…Purtroppo, ripetiamo, bisogna accettare un fatto sociologico: all’interno delle società liberali e di mercato, basate sul pluralismo dei gruppi sociali ed economici, la cosiddetta ideologia dell’indipendenza della magistratura, è una pura e semplice risorsa simbolica, da usare nella lotta per l’egemonia sociale e politica tra i vari gruppi, incluso quello dei magistrati. E tutto sommato, il nostro “sistema” è “relativamente” migliore di quello in uso nelle società prive di pluralismo o totalitarie, dove la giustizia è assoggettata a un unico gruppo politico e i magistrati reclutati esclusivamente sulla base della fedeltà ideologica al “partito unico”, in nome del quale devono esercitare la giustizia.
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La vita naturale dei gruppi sociali
Se ci si passa la metafora, si possono immaginare i diversi gruppi sociali (magistrati, partiti, lobby, eccetera), come veri e propri organismi biologici, con una loro vita naturale: si espandono se non trovano ostacoli, e si bloccano o regrediscono se ne incontrano. Ma per espandersi servono risorse economiche proprie. E il gruppo sociale “magistratura”, come braccio del moderno stato liberale, non ne ha mai possedute, come del resto ogni altro corpo amministrativo. Ha perciò sempre dovuto confidare in poteri più forti: che pagano i conti ma pretendono… Ad esempio, in Italia, i giudici si sono sempre divisi tra minoranze ( o sub-gruppi) politicizzate di destra e sinistra (più di destra, almeno fino agli Sessanta del Novecento) e maggioranze politicamente indifferenti, pronte però a ubbidire, come ogni altro dipendente statale, a chiunque fosse capace di aprire o chiudere i cordoni della borsa (in termini di offerta politica di mezzi e risorse istituzionali).
In questo senso i giudici sono sempre stati ligi al potere, anche nascente. E perciò attenti a ingraziarsi le stesse forze politiche di sinistra, come negli anni di Tangentopoli, quando sembrava che i post-comunisti fossero sul punto di conquistare il potere. Ovviamente, ripetiamo, tutte le forze politiche in campo hanno sempre issato la bandiera dell’indipendenza della magistratura. Qualsiasi riforma, come ogni controriforma, è tuttora presentata come “tesa a ripristinare la libertà e l’indipendenza dei giudici”.

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Il difficile armistizio
Gli inviti al dialogo tra politica e magistratura - si pensi agli ultimi interventi del Presidente Napolitano - fanno parte di una specie di repertorio dei luoghi comuni del costituzionalismo moderno, da utilizzare nei conflitti istituzionali. "Derivazioni", per dirla con Pareto. Come se la politica fosse puro dibattito pubblico, una specie di minuetto settecentesco, e non duro contrasto amico-nemico, talvolta all'ultimo sangue. Napolitano, o finge o vive sulla Luna. Ed è un peccato, perché così dimostra di aver completamente dimenticato Lenin...
Insomma, la questione è squisitamente politica. Sarebbe perciò più onesto parlare di proposte armistiziali, soprattutto politiche, per arrestare la guerra in corso per il controllo della magistratura. Ma sarà mai possibile fermare la lotta eraclitea tra i diversi gruppi sociali?

Infine, di fatto, c'è qualche partito, al momento, in grado di impegnarsi? E di andare oltre il muro contro muro?


Carlo Gambescia

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