giovedì 13 febbraio 2014

Il libro  della settimana: Leonida Bissolati, Diario di guerra. I taccuini del soldato-ministro 1915-1918, a cura di Alessandro Tortato, Mursia 2014, pp. 218, euro 16,00
  
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Bissolati chi era costui?   È sì, il livello è questo.  Oggi, se non per pochi storici e antiquari politici di una mai nata  socialdemocrazia italiana,  è  poco più  di un nome,  al massimo una targa  annerita dal tempo  dedicata  a un distinto signore  socialista dai  baffi fluenti.  Sia chiaro, la cosa non ci piace.  Anche perché, quando Craxi  si involò, accelerando,  con  la macchina socialista e democratica, in cerca di padri nobili  per contrastare gli istinti  leninisti  del Pci  berligueriano  saltò più di una fermata.  Per andare a  schiantarsi  nel circuito di Hammamet…  Ma questa è un’altra storia.
Negli anni, per alcuni  eroici,  del primo craxismo si ripescò Proudhon, pensatore brillante però antiborghese,  ma non Leonida  Bissolati (1857-1920) - o comunque senza la stessa convinzione -   e con lui l’ala riformista,  per così dire, al quadrato,  che aveva accettato ben prima di Turati la democrazia  liberale e  celebrato l’idea di patria senza cedere nulla  alle opposte monomanie  nazionaliste   pacifiste. Quel che  colpisce  del pensiero bissolatiano,  è l’interessante  collegamento fra Risorgimento,  socialismo democratico  e irredentismo, quale coronamento, anche attraverso la “Grande Guerra” -  guerra giusta -   dell’ Unità, dell’emancipazione economica e dell’autodeterminazione del popolo italiano.  Siamo veramente agli antipodi  della tradizione leninista,  così  carica di violenza e odio di classe.  Detto per inciso,  ancora si attende -   a quanto ci risulta  -   un’edizione  filologicamente impeccabile degli scritti di  Bissolati.
Sotto questo aspetto, chiunque ci abbia pazientemente seguito fin qui,  non potrà  non apprezzare  il suo   Diario di  Guerra.  I Taccuini del  soldato-ministro 1915-1918 (Mursia), finalmente  in edizione integrale, con due sontuose appendici (1/Lettere alla moglie;2/Discorsi e carteggi). Il volume è  ottimamente curato e introdotto  da  Alessandro Tortato,  che, da come si legge in quarta,  ha  affiancato alla carriera  musicale  gli studi storici.  Meraviglioso!  Se fosse per noi  obbligheremmo certi aridi cattedratici  a studiare musica proprio per rendere fertile il discorso storiografico, quale magnifico insieme di armonie, movimenti e tempi, ovviamente lenti e veloci.  Che vanno, per farla breve, dal grave al prestissimo…            
Il volume restituisce  i  pensieri  quotidiani di un fondatore del partito socialista, deputato, direttore dell’ “Avanti”, arruolatosi nel 1915,  a cinquantotto anni,  tra gli alpini.  Ferito due volte, decorato.  Dal 1916  Ministro  per i collegamenti con l’Esercito ( il  “«soldato-ministro»). Di qui,  il rapporto mai facile con Cadorna, generale comandante, segnato da alti e bassi, ma soprattutto, al di là degli apprezzamenti formali, da una reciproca diffidenza. Sentimento -  nostra amara considerazione -  che non può non distinguere, e da sempre, il rapporto tra militari e civili.
Parliamo di secche  notazioni a tutto campo:  i morti, i feriti, le bombe, le croci, i tarocchi,  il freddo, le alte quote, il quarto di pagnotta inzuppato nel caffè,  i cieli azzurri ma gelidi come gli occhi dei austriaci,  le marce, la stanchezza, la febbre, disertori, le fucilazioni.  Dopo Caporetto, Bissolati  credendo nella fine del sogno irredentista,  pensò per un  momento addirittura  di farla finita. E, come si osserva,  definì quella tragedia,  da antico organizzatore sindacale qual era,  come   frutto avvelenato di uno «sciopero militare». Va qui  ricordato che a proposito dell’Otto Settembre, Renzo De Felice usa un’espressione simile: «sciopero morale» (Rosso e nero, a cura di Pasquale Chessa, Baldini & Castoldi 1995, pp. 42-44 ). Probabilmente, al di là della natura onnivora delle letture defeliciane,  perché tristemente consapevole come Bissolati,  per dirla con Furet,  autore  citato dallo storico reatino,  che  «il fatto che i popoli  non si comportino eroicamente nella sventura non è una novità…».         
In sintesi, per chi abbia dimestichezza con la letteratura di guerra,  si può dire che nelle pagine di Bissolati, ritroviamo la lucidità  del   Diario di guerra  di Mussolini e la passione civile racchiusa   nelle   lettere  dal fronte di  Omodeo 
Fondamentale,  infine,  per cogliere alla radice il pensiero politico di Bissolati,  resta  il testo (in Appendice) della famosa  conferenza  della Scala dell’ 11, gennaio 1919, interrotta dal fior fiore del diciannovismo  e dallo stesso Mussolini,  presente in sala,  che pur stimava Bissolati.
Il  pensiero del “soldato-ministro”  è  un concentrato di   ragionevolezza politica e di fede nei  valori di quella  democrazia, liquidata da proto-fascisti e leninisti con l’epiteto di  borghese.  Torna l’idea  della Prima Guerra Mondiale, come conflitto della democrazia contro l’autoritarismo; si ribadisce con forza  l’adesione ai principio wilsoniano -  e prima ancora mazziniano - di autodeterminazione dei popoli; si crede fermamente nel ruolo pacificatore della Società delle Nazioni; si sfida il  nazionalismo  e il nascente mito  della vittoria mutilata, si chiede agli  italiani uno sforzo:  rinunciare  al Dodecaneso, all’Alto Adige e alla Dalmazia; si domanda  di non  contrastare  ciò che per Bissolati  era  già  un fatto: «La  Jugoslavia è, o Signori. E nessuno può fare che non sia» (p. 197).  Inutile ripetere  quel  che accadde  in una sala  strategicamente dominata  da  futuristi, arditi e altri diciannovisti.
Sempre in quei giorni drammatici, Salvemini, altro grande interventista democratico,  osservò:  «Il dilemma, dinanzi a cui si trova oggi il mondo è: o Wilson o Lenin ».   L’Italia, di lì a tre anni,   scelse Mussolini.   Già  massimalista,  nemico di tutti i riformisti.  Un piccolo Lenin italiano? Forse.   Comunque sia,   nessuno si  aspettava, come si direbbe oggi,  che vincesse facile.  Probabilmente neppure Bissolati,  che però morì  il sei maggio  1920.  E non fece in tempo a vedere l’ultimo atto della tragedia.  Probabilmente,  fu meglio così.  Matteotti, che invece c’era, vivo e vegeto,  fece una brutta  fine.      


Carlo Gambescia          

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