giovedì 14 febbraio 2013

Ecco un’altra bella storia dell’amico Roberto Buffagni (*), in cui sono sapientemente mescolati sogno, biografia, destino, teatro, economia, proprio come si faceva un tempo, prima che prendesse piede nelle pagine culturali il giornalismo pop. Un "racconto" che per certi versi si collega ai suoi post precedenti (in particolare l’ultimo http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/2012/02/ecco-una-bella-lezione-di-sociologia.html ). Che senza annoiare fa riflettere su come siamo diventati. E, per contro, su come eravamo. Senza però indulgere in nostalgie... Questa volta si "racconta" di Prato, del Midwest italiano… Buona Lettura. (C.G.)
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Prato, o dell'italico Midwest
 di Roberto Buffagni
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Nell’estate del 2010 gli attori della compagnia Jurji Ferrini stavano provando la mia nuova traduzione di Glengarry Glen Ross (ne ho raccontato in Prima & dopo la cura). La mia cara amica regista Cristina Pezzoli mi telefona e mi chiede se ho tempo e voglia di assistere a una giornata di prove. Ma sì, mi dico, alziamoci un po’ da questa maledetta scrivania, cambiamo aria per una giornata. Mia figlia N., che allora aveva quattordici anni, sente la telefonata e mi chiede se può venire anche lei. La scuola è finita, N. ha preso dei bei voti, la vacanza al mare è ancora lontana, io in prova non devo fare un gran che tranne assistere e dire, quando richiesto, la mia: andiamo con la figlia, perché no, è una buona occasione anche per stare insieme fuori di casa e farle vedere come funziona questo lavoro un po’ strano di suo padre.
E il giorno dopo si sale in treno (se posso evitare di guidare, preferisco). Destinazione: Prato, dove la compagnia ha trovato una sala prove gratis. Mentre il treno fila e vibra lungo la direttrice che buca gli Appennini e chiacchiero con N. felice ed eccitata, penso distrattamente alle tante volte che sono andato a Prato per lavoro. E’ un quarto di secolo che ci vengo a intervalli di due tre anni, in questa piccola città, perché qui hanno sede un importante Teatro Stabile e alcune compagnie teatrali. Mai stata bella, in confronto ai cartolineschi gioielli toscani che la circondano, la Prato che ha dato i natali a quel bel tomo dell’arcitaliano Kurt Suckert/Curzio Malaparte, venticinque anni fa era una normale, ricca e ordinata cittadina della provincia italiana, con le tante piccole e meno piccole industrie tessili, spuntate o ingranditesi con il boom, che inventavano di sana pianta stupendi, unici tessuti: sfiorando con la mano gli abiti dei nostri celebratissimi stilisti, le donne di tutto il mondo li ammiravano o li invidiavano, senza sapere che a fare e pensare quelle stoffe erano figli e nipoti degli antichi stracciaioli di questa piccola città senza pretese. Poi l’ho vista andare in pezzi, Prato, una strada per volta, una fabbrica per volta, una faccia per volta. Ritornandoci a intervalli di due tre anni registravo il cambiamento anche meglio di chi ci abitava, come quando rivedi un bambino ad anni di distanza, o un vecchio, o un malato grave, e all’urto in pieno viso della metamorfosi pensi “irriconoscibile”. L’ho vista sgretolarsi e decomporsi, Prato, prima adagio poi di colpo, da bradisismo a valanga. La globalizzazione, i cinesi che arrivano con gli schiavi e le valigie piene di contanti a comprarsi fabbriche, negozi e case, i lavoratori italiani che restano disoccupati, gli imprenditori italiani che se ascoltano la ragione chiudono l’azienda di famiglia, se ascoltano il cuore tengono duro e finiscono annegati dai debiti ed espropriati dalle banche... Ci sono i libri dello scrittore pratese Edoardo Nesi, che viene da una famiglia di industriali del tessile e ha lavorato in azienda anche lui finché non hanno venduto, leggete L’età dell’oro e Storia della mia gente, c’è dentro la verità della passione e dell’esperienza personale, leggeteli e capirete tutto. Fortuna che c’era Nesi a lasciare una testimonianza di questa sciagura italiana, perché in un quarto di secolo il locale Teatro Stabile, a lungo diretto da Luca Ronconi, solo una volta manifestò d’aver colto che a Prato non tutto era pacifico tran tran: quando premeditatamente allestì L’anima buona di Sezuan, opera di Bertolt Brecht nella quale una cinese sinceramente intenzionata ad esser buona, misericordiosa e rispettosa delle leggi divine, è costretta ad essere una spietata bastarda dalle inesorabili leggi del capitalismo; allestimento che certo testimoniò le grandi doti di incassatore del popolo pratese, il quale, invece di armarsi dei calibro 12 caricati a pallettoni che lì tutti usano per la caccia al cinghiale, adunarsi al suono delle campane a martello, circondare il Teatro Metastasio, darlo alle fiamme, e fucilare alla schiena i responsabili di questa crudele e codarda presa in giro, si limitò a restare indifferente, forse a non accorgersene neanche.
Passa il lungo pomeriggio di prove, con mia figlia N. attentissima e contenta sia perché gli attori non la trattano da bambina, sia perché nel testo che ascolta recitare c’è un’enorme quantità delle parolacce che le è proibito dire, e qui non solo si dicono, ma papà si dilunga a ragionare su come si devono dire, con quale intento e intonazione. Viene l’ora di rincasare. Saluto gli attori, e congedandomi dall’amica Cristina Pezzoli le dico, “Sai cosa? Tornando qua a Prato, in questa città ridotta uno schifo, mi è tornato in mente il vecchio film con James Stewart, te lo ricordi La vita è meravigliosa? Con James Stewart che sta per buttarsi nel fiume e l’angelo lo accompagna a vedere come sarebbe la sua città se lui non fosse mai nato? E la sua idillica piccola città è diventata un posto orrendo di troie e delinquenti? Ecco, qua a Prato mi sa che James Stewart si è buttato di sotto.” E ora - ma questo l'ho tenuto per i miei solitari pensieri, si fa per dire... - è troppo tardi per le grandi manifestazioni, magari a comando...
Imbrunisce. N. ha fame. Prima del prossimo treno c’è tempo di mangiare un boccone, anche se non di una vera cena al ristorante. Lungo la via per la stazione cerco le trattorie che ricordavo e non ne trovo una, sparite tutte. Mi sovviene che nel parchetto davanti alla stazione c’è ancora il vecchio chiosco, sono sicuro che non è chiuso perché all’arrivo ho visto gente che prendeva il caffè seduta ai tavolini lì intorno.
Il chiosco spande un breve cerchio di luce gialla su quattro o cinque tavolini vuoti; tutt’intorno, ormai è buio. Guardiamo la lista, scegliamo. Non c’è servizio al tavolo, faccio sedere N. che è un po’ stanca e resto al banco ad aspettare le ordinazioni. Di punto in bianco, dal buio una voce indecente, sarcastica, contraffatta schiamazza: “Cazzooo Mariooo! Fammi una pizza che ciò famee!” Sussulto, mi volto, con la coda dell’occhio vedo N. che si irrigidisce sulla sedia, frugo il buio con lo sguardo e vedo entrare in luce tre battone e un balordo violentemente tatuato che sghignazza. Vengono dritti al chiosco, dalla faccia del gestore sono clienti abituali. Quella che ha urlato è una battona sui trent’anni, mezza nuda, ancora attraente ma conciata da far pietà e anche un po’ schifo, perché ormai non si prende più la briga di nascondere la sua disperazione e la sua rovina. Il balordo e le altre due battone si stravaccano al tavolino accanto a quello dove siede N., l’urlatrice viene al banco, vuole la sua pizza. Sto per staccarmi dal bancone e andare a presidiare mia figlia, quando N., con la sua voce affettuosa di ex bambina e quasi donna buona, spiritosa e saggia, chiede : “Papi, mi prendi anche le patatine?” La guardiamo tutti: io, il barista, le due battone sedute, il balordo, e l’urlatrice al bancone. Mentre le rispondo che va bene, che gliele prendo le patatine, sento che l’urlatrice cerca i miei occhi con i suoi. Mi viene una gran voglia di evitare il suo sguardo, poi ci ripenso e la guardo. Nei suoi grandi, tremendi occhi castani spunta, risalendo come un’Atlantide da ignote profondità, uno sguardo umano, lo sguardo di una bella, sensuale, piccante, briosa ragazza che s’intuisce un po’ sventata e non avara delle sue grazie. Ricambio il suo sguardo, e lei mi fissa a lungo, attentissima, col fiato sospeso. Sento che ci guardano tutti. Nel cerchio di luce intorno al chiosco si posa, come una nevicata, un momento di silenzio che ha la densità di una pausa musicale: “passa un angelo”, si diceva una volta. Senza rancore, senza disperazione, senza ostilità, la battona distende il viso in un lieve sorrisetto un po’ scherzoso. Prima sorride a me, poi distoglie lo sguardo e sorride a N., sorride senza sarcasmo a questo promemoria di quel che ha perduto che le fa un’imboscata simbolica al solito chioschetto. Arriva la pizza, arrivano le mie ordinazioni, ci sono anche le patatine per N. Prendiamo i nostri vassoi, torniamo ai nostri tavolini. Mangiamo. Mi resta tutto sullo stomaco. Prima di andarsene la battona mi sorride ancora, sorride senza sottintesi, senza malaugurio, senza sentimentalismi al nostro provocatorio quadretto di casto affetto tra padre e figlia. E’ ora di prendere il treno. N. ed io ci alziamo, camminiamo fianco a fianco. Senza guardarmi N. mi chiede: “Erano puttane, vero?” Io mi limito a risponderle di sì, non mi sento di rimproverarle la parolaccia. Poi mi sembra che non basti, e aggiungo: “Sai, ci sono anche loro.” N. china il capo, pensa. Dopo un po’ mi dice, con calore: “Io non voglio diventare così!”. Mentre la rassicuro e le accarezzo il capo, penso: “Neanche lei voleva. Neanche lei.”


Roberto Buffagni


Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage....

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