giovedì 22 novembre 2012


Il libro della settimana: Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. Dalla grande guerra alla marcia su Roma , il Mulino, Bologna 2012, 3 volumi, pp. 656, 960, 546, euro 36,00, 38,00, 36,00.  


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Più di duemila pagine. Probabilmente, prescindendo dalla biografia mussoliniana di Renzo De Felice, non esiste, per ampiezza, altro studio dedicato al fascismo e in particolare alle sue origini. Parliamo della summa di Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. Dalla grande guerra alla marcia su Roma (il Mulino), professore emerito di storia contemporanea alla Normale di Pisa. Tre massicci volumi che potrebbero spaventare, al solo scorgerli sugli scaffali, quel lettore forte (perché ne legge almeno  dodici all’anno…), di cui gioiscono a buon mercato le statistiche ufficiali.
In realtà, si tratta di un’opera scritta con chiarezza di stile e lucidità storiografica non comuni. E che quindi merita veramente di essere letta e approfondita  da tutti, forti e deboli… Anche perché innervata dalla stessa passione civile che anima i libri dei maestri di Vivarelli: Gaetano Salvemini e Federico Chabod. Per dirla tutta, sono doti oggi non sempre presenti nella produzione di molti storici italiani, altrettanto togati e spesso più giovani di Vivarelli, nato nel 1929, e passato attraverso la fornace fascista di Salò, esperienza di cui parla ne La fine di una stagione. Memorie 1943-1945 (Il Mulino).
Di certo, le radici del libro sono nella sua prima, e non facile, esperienza di volontario quattordicenne in camicia nera. Poi storicizzata negli anni Cinquanta alla severa e rigorosa scuola dei suoi importanti maestri. Di lì, la passione per la democrazia, per il liberalismo e soprattutto per la ricerca storica. Un combinato disposto che culmina nella decisione, maturata sempre negli stessi  anni,  di scrivere un’opera sulle origini del fascismo. Un cammino conclusosi nel 2012 con la pubblicazione del terzo e ultimo volume, accompagnata dalla opportuna ristampa ( tra l’altro dalla splendida veste editoriale) dei primi due, usciti rispettivamente  nel 1965 e nel 1990.
Fatte le presentazioni veniamo ai contenuti. Perché vinse il fascismo? A costo di far torto alla ricchezza del libro,  diciamo, sinteticamente,  che secondo Vivarelli il fascismo vinse giocando sulle divisioni politiche degli avversari, sull’ immaturità delle masse (soprattutto contadine), sull'improduttivo massimalismo socialista, nonché, last but not least, sulla fragilità delle istituzioni liberali, mai realmente entrate nel cuore e nella mente degli italiani. Vivarelli evidenzia un deficit post-unitario, per dirla sociologicamente, di nazionalizzazione delle masse, che l’Italia avrebbe poi pagato duramente… E così, la guerra vittoriosa, che secondo le tesi dell’interventismo democratico - condivise da Vivarelli -  avrebbe potuto contribuire con il varo di riforme economiche e politiche alla crescita democratica del paese culminò invece nel suo contrario, il fascismo. Grazie anche all’abilità politica di Mussolini, capace di giocare su più tavoli approfittando delle altrui divisioni e debolezze e presentandosi come difensore dello stato nazionale dalla canea massimalista. 
Sotto questo profilo, Vivarelli riprende e sviluppa la tesi gobettiana del fascismo come «autobiografia della nazione». Di riflesso, l’intera opera costituisce un’ accurata e impietosa radiografia dell’ Italia dopo l’Unità. Pagine molto intense (anche per scrittura) sono quelle dedicate alle origini e alla particolare struttura politica e sociale del massimalismo socialista, inconsapevolmente condiviso, secondo Vivarelli, anche da quei dirigenti che si definivano riformisti. Dal momento che   uomini come Turati, Treves, Modigliani e Matteotti condividevano con i massimalisti alla Serrati, la tesi dell’inevitabile superamento della società liberale, borghese e capitalista. Un atteggiamento ambiguo, che scorgendo nelle riforme un mezzo e non un fine, avrebbe spianato la strada alla vittoria di Mussolini, il quale da socialista (ironia della storia?) aveva più che tubato con l’ala estrema del partito.  Ovviamente, come accennato, Mussolini vinse anche grazie alla complicità e agli  errori  della classe politica liberale: un ceto che,  al di là delle manchevolezze  tattiche  e contingenti, non aveva saputo formare, storicamente, cittadini responsabili. Di qui, il «fallimento del liberalismo» italiano.
Nelle sue conclusioni, Vivarelli, ricordando la tesi  di  Gobetti, riconduce la vittoria del fascismo a una questione di fondo o  di «sostanza», come afferma.  Quale? «La diffusa presenza - scrive - tra gli italiani di un sentimento tanto profondo quanto spesso inconsapevole, che è la paura della libertà. La lezione - prosegue - che lo studio delle origini del fascismo è ancora in grado di darci, come un costante monito, è che le libere istituzioni, anche quando ne assumano le forme, non possono fiorire laddove non sia preliminarmente attuata una rivoluzione liberale, nei suoi aspetti economici ma e soprattutto intellettuali e morali, il che implica la volontà dei cittadini di vivere da persone libere. Sono i caratteri di questa rivoluzione - conclude Vivarelli - che hanno aperto la strada al mondo moderno e che ancora ne condizionano il cammino».
Come  non essere d’accordo? Tuttavia resta una questione molto importante  e fonte di non innocue divisioni in casa liberale. In nome di quale liberalismo fare (o continuare) la rivoluzione? Quello di Gobetti o di Croce? Quello di Salvemini o di Einaudi? Insomma,  per venire ai nostri giorni:   Hayek o  Aron ? Mises o Berlin?

Carlo Gambescia


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