giovedì 8 novembre 2012

Il libro della settimana: Spartaco Pupo, Robert Nisbet e il conservatorismo sociale, Mimesis, Milano 2012, pp. 186, euro 16,00.   

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La lettura dell’ eccellente libro di Spartaco Pupo, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università della Calabria, Robert Nisbet e il conservatorismo sociale (Mimesis), ha dissolto, trasformandolo però in certezza, un  nostro antico dubbio sul pensiero di uno dei più interessanti sociologi conservatori americani ( *).  Ma procediamo per gradi. 
In cinque densi capitoli Pupo offre ai lettori un ritratto pressoché completo di Robert Nisbet (1913-1996). Sintetizzando: nel Primo (“Nisbet nella storia del conservatorismo americano”), lo si inquadra tra i conservatori  tradizionalisti nel senso anglo-sassone del termine (Burke e dintorni), ma evidenziando giustamente l' attenzione di Nisbet  verso   le  forme di relazione sociale che innervano e fortificano il conservatorismo:   status, coesione, funzione, norma, rituale, simbolo onore, fedeltà gerarchia ( sono iniezioni di vitamine sociologiche che, per inciso,  rendono il pensiero nisbetiano  più ricco  di  quello di  Russell Kirk e Michael Oakeshott); nel Secondo (“Per un comunitarismo realista”), si illustra, e bene, la sua diffidenza nel riguardi dello stato e  quindi  anche verso certo  pensiero communitarian a sfondo statalista  (Taylor, Etzioni, Walzer, Sandel); nel Terzo (“ Dallo “stato totale” di Rousseau al “pluralismo liberale” di Lamennais”), si tratteggia - procediamo per sciabolate -   la serrata  critica di Nisbet al monismo panpolitico di Hobbes e Rousseau in nome di un pluralismo sociale di stampo liberale; nel Quarto (“Progresso: fine di una metafora”), si assiste alla argomentata demolizione dell’idea di progresso, cui si oppone l’idea di continuità sociale; nel Quinto (“L’essenza sociale del conservatorismo”), si spiega  giustamente come il conservatorismo sia per Nisbet  una specie di via mediana tra individualismo e statalismo. Detto altrimenti:  un riformismo conservatore  capace d recepire creativamente le istanze del socialismo pluralista. E dunque un pensiero in grado di tenersi  ragionevolmente alla larga sia dai libertarians che dai liberals.  Chiuso però alle istanze del politico. Il che non ne fa  un "liberale triste" alla  Raymond Aron. E qui veniamo al dubbio cui accennavamo.
L’accurato libro di Pupo, fin dal titolo,   prova, come sospettavamo,  che il conservatorismo di Nisbet è essenzialmente sociologico.   Perché poggia su una visione pluralista del sociale, dove la tradizione è frutto di  una  reale  socialità autoriproduttiva dei legami tra le persone (in particolare familiari, amicali, professionali e locali). Una socialità che si riproduce plasticamente attraverso la dinamica dei gruppi sociali reali. Di riflesso, per Nisbet, come  in ogni buon pluralista, lo stato,  non è che un gruppo sociale tra gli altri gruppi sociali e tale deve restare.  Il che però implica una  visione patologizzante, del politico  sia nella sua transeunte  incarnazione del moderno  stato prevaricatore,   sia  come momento transtorico della decisione e del conflitto, momento a nostro avviso insopprimibile  e ben  distinto  dalla forma istituzionale.  Secondo Nisbet  nella società  pluralista  e funzionale,  come in un' orchestra, il  vero laissez faire  musicale  non è quello praticato da singoli musicisti, bensì quello  posto in essere dai  vari gruppi strumentali,  capaci di autodirigersi, lungo le linee  relazionali di un armonioso crescendo sociale-musicale. Purtroppo, la sociologia nisbetiana, per restare in metafora,  non  sembra prevedere  direttori d'orchestra né solisti. Detto altrimenti: Nisbet,   da sociologo pluralista-funzionalista  è naturalmente  portato a  sottovalutare   le  costanti del politico. Se si vuole, di Tocqueville (come del resto di Lamennais, ma anche di Durkheim..), Nisbet recepisce l'analisi sociologica non quella politica. Il che, ripetiamo,  fa la differenza con Aron (e anche con altri "liberali tristi", perché  "maliconicamente"  consapevoli delle dure  leggi del politico).  Ed è inutile qui riportare la severa ma  fondata critica schmittiana all’ indecisionismo della scuola pluralista e socialista-liberale. Si tratta di un rilievo che può essere esteso ad altri sociologi statunitensi, pur di grandissimo  valore, come Sorokin e  Parsons.  Del resto nessuno è perfetto. Cosicché Nisbet, studioso comunque originale,  è  in ottima compagnia...  
Insomma,  come dubitavamo,  il realismo nisbetiano è sociologico,  non politico. Si dirà:  bella scoperta! Dal momento che   si tratta di un sociologo di professione... Giusto.   Tuttavia  l'uso del  realismo sociologico è  giustificato ( e persino lodevole) quando uno studioso non  desideri uscire dal seminato della sociologia,  mentre non  è più tale quando si cerchi, come  Nisbet, di edificare una teoria del conservatorismo, con  inevitabili risvolti politici: quando si va a caccia di "elefanti politici" il fioretto sociologico non basta, servono i grandi calibri delle "costanti politiche" o "metapolitiche".
Concludendo,  il libro di  Pupo ha trasformato in certezza  il nostro dubbio.  Probabilmente lo scopo del suo ottimo  lavoro non era esattamente   questo,  ma  di  approfondire e  conferire  il  giusto rilievo all’opera di un sociologo importante, poco conosciuto in Italia.  Quindi lo ringraziamo due volte.

Carlo Gambescia



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