venerdì 27 agosto 2010

Riflessioni
Capitalismo e  conflittualità sociale


 Può esistere un’economia capitalistica libera da conflitti sociali?  No. La società capitalistca è per eccellenza conflittuale. Anzi si può dire che il conflitto come fattore di mobilità, di crescita economica e personale, di redistribuzione sia la sua forza. Ovviamente, se contenuto entro limiti fisiologici. Sotto questo profilo va notato, che rispetto all'inizio del Novecento, i conflitti sul lavoro nel mondo di “antica” industrializzazione (soprattutto in Europa Occidentale) si sono ridotti di molto, senza per questo - come è sociologicamente corretto - scomparire. Lo stesso decennio 1968-1978, oggi liquidato dai neoliberisti come cattivo esempio di “sindacalizzazione”, registrò un numero di conflitti (scioperi, occupazioni, serrate) decisamente inferiore rispetto al primo quindicennio del XX Secolo. Per non parlare, con riferimento all’Italia, del cosiddetto “Biennio Rosso” (1919-1920), davanti al quale il Sessantotto “operaio” rischia di apparire una passeggera e lieve increspatura sociale.
Che cosa vogliamo dire? Che se la conflittualità si è ridotta rispetto all’inizio del Novecento un ragione pure ci sarà… E quale può essere? Presto detto: l’istituzionalizzazione del conflitto attraverso la nascita di un sistema di contrattazione collettiva e di sicurezza sociale. Costoso, ma necessario, non tanto per eliminare il conflitto quanto per “addomesticarlo” e renderlo produttivo sotto il profilo sociale e di riflesso economico… Il welfare state ha rappresentato e rappresenta tuttora il punto di arrivo di questo processo. Una conquista fondamentale - attenzione - non solo per il lavoratori, ma per lo stesso capitalismo.
Perciò parlare di una conflittualità da eliminare definitivamente, come si sente dire in questi giorni, significa non sapere o capire nulla della storia del capitalismo e in particolare del capitalismo novecentesco, in particolare quello europeo, più sociale. Il cui merito resta quello di aver accettato il sindacato come interlocutore e fattore di crescita sociale. Pertanto qualsiasi tentativo di “tornare indietro” rischia soltanto di far aumentare la conflittualità sociale a livello protonovecentesco, facendo così il gioco di tutti coloro, che a destra come a sinistra, puntano sul tanto peggio tanto meglio.
E qui va ricordato che la politica (nel senso di poteri pubblici decisionali) ha giocato nell’intero Novecento un ruolo fondamentale: quello di favorire la contrattazione collettiva e l’inserimento del lavoratore nel tessuto societario, attraverso un esteso sistema di diritti politici, economici e sociali.
Il che significa che senza un potere politico “terzo” ( non nel senso però del "guardiano notturno" smithiano) capace di garantire la triplice cittadinanza (politica,economica e sociale), temperando le esigenze dei lavoratori e delle imprese, si rischia il conflitto sociale generalizzato. Dalle cui ceneri potrebbero materializzarsi i paurosi fantasmi dell’ “autoritarismo” e del “rivoluzionarismo”. Perché in politica il vuoto non esiste. Quando le élite politiche fanno un passo indietro il potere viene afferrato da altre élite: imprenditoriali, sindacali, militari, rivoluzionarie, controrivoluzionarie, democratiche, antidemocratiche, e così via.
La storia, purtroppo, non si ferma mai. Si tratta solo di provare a plasmarla e contenerla per un certo tempo. Il capitalismo, anche quello sociale di mercato, non è eterno. Il che però, proprio se si conosce la storia, non dà alcuna garanzia che, di regola, il “dopo” possa essere migliore del “prima”.

Carlo Gambescia

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