domenica 15 agosto 2010


 Che cos'è la destra?



Joseph de Maistre (si può ancora citare?)  ha giustamente  sostenuto  che non esiste la libertà in astratto, ma esistono le libertà in concreto, relative a un certo contesto storico.  E lo stesso vale per l’idea di destra. Non esiste una destra “in assoluto”, una “destra divina”, ma esistono tante destre “in relativo”, sulla base delle diverse situazioni storiche e politiche. Sappiamo che la destra Estiqaatsi  alla Lillo e Greg  -   perché ora c’è pure quella… -  farà fatica a seguire il ragionamento, ma non  per colpa  nostra.
Dicevamo destre “in relativo”.  Bene, si tratta di un fatto storicamente    comprovato. E a partire dal  1789.  Anno canonico, da cui gli storici, sulla base della disposizione fisica all’interno dell’ Assemblea Rivoluzionaria (tra coloro che erano favorevoli oppure contrari al diritto di veto del re),  fanno iniziare la dicotomia destra-sinistra. Cui seguirà  - ecco il punto -  una crescente “libanizzazione”  della destra,  che per tutto l’Ottocento si scomporrà in  varie tendenze, spesso in conflitto: monarchici  divisi per rami dinastici,  clericali,  bonapartisti, cattolici conservatori, cattolici liberali, conservatori tout court , liberal-nazionali, nazionalisti antidemocratici, antiliberali e antisocialisti.
Ma non vogliamo farla troppo lunga. Diciamo che fino al  1914 la destra, pur nella sua rissosa varietà,  sarà per la conservazione, con qualche cedimento reazionario, come in Italia, Francia e Spagna. Mentre la sinistra,  per il progresso.
Come insegnano Furet e Nolte è con il sisma politico del 1917 che cambia tutto. Sul tronco  della presa di potere bolscevica,  si innestano, ispirandosi ai comunisti russi, i contro-movimenti fascista e nazionalsocialista. Che però subito si autodefiniscono oltre la destra e la sinistra. Tentando di trovare l’isola che non c’è…        
E qui  cominciano i guai.  I “rivoluzionari” in camicia nera e bruna,  oltre ad attirare reazionari in crisi di astinenza, antidemocratici misti,  marxisti  pentiti, puntano subito i fucili contro il Palazzo d’Inverno della democrazia liberale. Perché contrari a qualsiasi  forma  di libertà che non venga posta al servizio della Nazione o peggio della Razza.  E così si mettono  sulla strada dello scontro frontale con le potenze “demoplutoeccetera”,  finendo, piaccia o meno,  malissimo.
Ora, il Movimento Sociale  nasce  proprio  dalle ceneri  del Ventennio. Rivendicando il superamento di due dicotomie: destra-sinistra  e  conservazione-progresso.
Come è noto, il fascismo italiano, fin dall’inizio, aveva mescolato e riprodotto  una pluralità di anime, per alcuni, in pena.  Il che, già durante il regime, nonostante la presenza del titolare del brevetto, Benito Mussolini,  provocò duri conflitti,  in nome di una  ricerca della “vera” identità fascista. Una “litigiosità”, che nel secondo dopoguerra, trasmigra nel Movimento Sociale. Inutile qui rievocare le  liti dei fratelli coltelli.       
Un mondo così “bellicoso” come ha reagito alla trasformazione  Msi-An-PdL?  In due modi. Sul piano politico e organizzativo (del potere) si è adeguato, pure troppo.  Su quello ideologico, no. Come mostrano i ripetuti dibattiti sulla “natura della destra”.  Che, attenzione, non vertono tanto sulla definizione di una cultura di destra, che dal 1945 deve essere liberale e democratica e contraria a ogni  forma di  totalitarismo, quanto su una serie di problemi “interni” legati al “rinnegamento” o meno dell’esperienza fascista da parte degli ex missini confluiti nel PdL.    
E qui la questione si ingarbuglia ancora di più. Uno, perché il fascismo, come abbiamo detto,  si collocava oltre la destra e la sinistra. Due, perché sul piano culturale aveva recepito una  predisposizione negativa prefascista verso le istituzioni democratiche e liberali.  In questo senso, Tarmo Kunnas ha parlato di “tentazione fascista”, per uomini della statura di  Pound,  Hamsun, Drieu La Rochelle, Jünger e così via.
Pertanto qualsiasi progetto che si proponga di spendere politicamente (e non in termini di ricerca pura) la cultura della “tentazione fascista”, può  portare a tutto ma non  alla piena accettazione della democrazia liberale. Certo può possedere plusvalore politico per quella che è stata definita la destra di Porto Alegre: una destra fasciocomunista, antiliberale e  antisistemica che  vuole fare concorrenza ai no global, all’insegna di una confusa riedizione postmoderna del né destra né sinistra.  Ma non per una concreta destra di governo, sistemica, liberale, democratica e popolare. Che debba rispondere agli elettori di destra che la votano, e che sono tanti.  Delle due l’una: o pro o contro il sistema. Tertium non datur.         
Però qui bisogna fare attenzione. La destra di Porto Alegre  è visionaria ma intellettualmente onesta.  Mentre non lo è la destra aennnina che tenta di contrabbandare, magari amputandoli a colpi di spot pubblipolitici, gli autori di cui sopra come padri della “destra maggioritaria” e “post-ideologica”, “comunicativa”. Insomma, di conciliare  l’inconciliabile: le tempeste d’acciaio con la soppressione dell’Ici sulla prima casa. E quel che è ancora peggio, pretendendo in modo ipocrita di ricollegarsi all’esperienza della Nuova Destra  anni Ottanta. Che è vero che si proponeva di rileggere gli autori della “tentazione fascista” (il libro di Kunnas fu pubblicato proprio da Akropolis), ma solo come elemento di rottura, uno fra i tanti,  verso una routine politica, che aveva contagiato anche il Movimento Sociale, all’epoca  imbolsitosi.  Ma soprattutto di rivolta  nei riguardi di un “sistema”, nei cui anfratti  “pubblipolitici” più vischiosi,  gli aennini di oggi, a differenza di Tarchi e pochi altri,  si sono invece “spaparanzati” come  topi nel formaggio. Certo, anche questa  può  essere cultura politica post-ideologica dell’ et-et:  un “et” di parmigiano, un “et” di provolone, eccetera…
Altro discorso, invece serio, sarebbe quello di recuperare alcuni autori della tradizione liberal-nazionale (patriottica non nazionalista), poi confluita nel fascismo. Si pensi, ad esempio a Gioacchino Volpe che tra l’altro era monarchico. Oppure, alla tradizione nazionalpopolare, nata con Mazzini che si prolunga nel sindacalismo rivoluzionario e in quella fucina di idee del corporativismo democratico, che fu la Carta del Carnaro. Testo   che rinvia a D’Annunzio ma anche a Alceste De Ambris. E che nei suoi  aspetti  “lavoristi” riuscì a influenzare persino la Costituzione Italiana.  Ma,  attenzione,  parliamo del  Mazzini democratico, quello amato dai  riformatori liberali inglesi. Il quale vedeva nella nazione uno strumento di pace  e non di guerra e conquiste “imperiali”.
Potrebbe perciò essere interessante ricostruire i filamenti culturali  di  quel  “fascismo”  che reputava, alla stregua di Churchill, la democrazia come il male minore… Un fascismo colto e diseguale perché segnato dalla “tentazione democratica”.  Forse quello di Bottai e Grandi? A storici come Parlato, Nello, Guerri la risposta.
Infine, sarebbe importante rileggere l’esperienza della Rsi  cercando di capire, se l’adesione di alcuni,  fu un atto di fede verso Mussolini e il fascismo o verso gli ideali repubblicani in quando tali.  Crediamo,  manchino buoni studi storici in argomento.
Perché invece di perdersi  in  sterili polemiche non  favorire una rilettura storiografica seria?  Capace di scoprire e riunire gli elementi criptodemocratici e perciò nazionalpopolari del fascismo? Forse per alcuni si tratta di una  mission impossible.  Ma perché non tentare?

Carlo Gambescia

Nessun commento:

Posta un commento