giovedì 5 agosto 2010



Il libro della settimana: Giuliano Compagno (a cura di), In alto a destra: tre anni di idee che sconvolgono la politica, scritti di Campi, Croppi, Lanna, Perina e altri, Coniglio Editore 2010, pp. 287, euro 14,50 - 


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Chiunque abbia letto i Dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed, scopre subito come In alto a destra. Attorno a Fini: tre anni di idee che sconvolgono la politica (Coniglio editore 2010, pp. 288, euro 14,50) sia sconvolgente quanto una puntata televisiva del Bagaglino.
John Reed, per così dire, navigò con Lenin e Trotsky. Mentre Compagno, Campi, Croppi, Lanna, Perina, Rossi, Terranova & Co. si ritrovano in barca con Gianfranco Fini. Se Reed, Lenin e Trotsky cacciavano la balena, i “secolisti”, per usare il linguaggio caro a Martufello, al massimo “vanno a cannolicchi”…
Quel che colpisce è la presunzione. Cosa che talvolta non guasta. A patto però di non contraddirsi quasi ad ogni pagina. Un esempio: il libro martella sulla fine della dicotomia destra/sinistra. Scrive Giuliano Compagno, dettando la linea:

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“Da una lettura attenta di questa raccolta di articoli, ripresi dal “Secolo” da “Ffwebmagazine” e da “Charta Minuta”, si trae infatti il convincimento che la destra, quale categoria del politico, non sia più definibile con certezza, in essa albergando, semmai fosse, tanto un’ampia polisemia di riferimenti concettuali quanto un esteso richiamo a opere, a pensatori e a miti che hanno illustrato il Nostro Novecento, per tacere di un passato ancor più remoto. D’altronde va anche da sé che un’ eventuale oltre-destra non potesse più essere proposta attraverso auspici terza forzisti o barricaderi, né men che meno proclamata in nome di impraticabili binomi nazional-sociali o popolari che fossero” (p. 5) .
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Benissimo. Ma che c’entrano con l’ “eventuale oltre-destra” Sarkozy e Cameron? Indicati più avanti da Campi e Lanna come modelli per Fini? Perché evocare i cieli dell’ “’oltre-destra” per poi ripiegare su due mestieranti terra terra.
Ma c’è dell’altro. Nota Campi:

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“Da una destra, sotto ogni latitudine, ci si aspetta che difenda lo Stato e l’unità nazionale, che stia dalla parte dei giudici e della legge, che combatta ogni forma di monopolio o concentrazione del potere nel nome di un elementare principio di giustizia ed equità sociale, che guardi al futuro rispettando la storia e il passato, che abbia a cuore la tenuta del tessuto sociale, che difenda la legalità e una qualche moralità pubblica, che tenga alta l’etica del lavoro, che si batta per la valorizzazione del merito, che sappia usare parole forti contro i mali del mondo senza per questo schiumare bava dalla bocca, che faccia da freno alla volgarità dei costumi. Questo ci si aspetta da una destra che sia tale” (p.216).
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Perfetto. Ma tutto questo che c’entra con l’ “oltre-destra” e con il volare alto? Il programma di Campi - che ricorda tanto i discorsi di fine anno di Giovanni Leone - potrebbe essere condiviso anche dall’elettore rasoterra che vota Casini.
Allora dov’è l’imbroglio? E’ nella cortina fumogena “culturale”, da roof garden con vista sulla metapolitica, in cui si vuole avvolgere un progetto di bassa cucina politica, da sottoscala, rivolto a insediare Fini al posto di Berlusconi, all’insegna di un nuovo doroteismo. Un mostriciattolo che nel libro si ribattezza con il nome di “destra maggioritaria”. Contenti loro.
Ma c’è anche un movente freudiano. Quello di superare antichi complessi d’inferiorità, cercando di accreditarsi a sinistra come destra “buonista” e “libertaria”, capace di prendere le distanze da un “cattivismo”, inventato o enfatizzato dalla sinistra. Ma in che modo? Liberandosi, scrive Filippo Rossi, quasi in lacrime, da quella

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“ mutazione genetica che l’ha fatta passare [la destra, n.d.r.] da una concezione maggioritaria, solare, vitalista, attivista, volontaristica a una concezione recriminatoria, antagonista, minoritaria, ‘cattiva’ dell’azione politica. In perenne ricerca di una identità perduta, la destra italiana troppe volte si è arresa accentando l’identità che altri le imponevano. Rimestando nel torbido della storia recente, facendosi carico dell’indicibile e dell’ingiustificabile" (pp. 45-46).
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Oddìo, il mea culpa su un pendant delinquenziale, non assente neppure a sinistra, può anche starci. Se non che per combattere la presunta deriva “cattivista”, si inventa di sana pianta la leggenda della destra “buonista” e “libertaria”. Quando il problema resta invece di ricostruire la storia dal 1919 al 1994, evitando le leggende “buoniste” o “cattiviste”. Insomma, storicizzare è una cosa, inventare, o peggio mistificare, una tradizione un’altra.
Esemplare in merito, lasciando stare le fantasiose genealogie di cui il libro è pieno - già criticate con Nicola Vacca in A destra per caso - quel che Luciano Lanna, novello Mago di Oz, osserva, celebrando ad usum Fini (non è un lapsus…) il ‘77:

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“Non a caso in quei giorni, dopo un trentennio egemonizzato da Marx, Gramsci, Freud e il neorealismo, riaffiorano i libri di Nietzsche, Schmitt, Guénon, Céline, Artaud, Gurdjieff, Jünger e Pessoa. Qualcosa cambiava nel profondo. Qualcuno iniziava a rompere gli schemi e a sottrarsi alla logica militarizzata della guerra per bande. Gli indiani metropolitani, infine. Fecero la prima apparizione ufficiale con la contestazione alla prima della Scala, nel dicembre del ’76 e si configurarono subito come qualcosa che rompeva con la retorica della militanza marxista-leninista. Un po’ come Tolkien per la destra. E’ quello infatti anche l’anno del primo campo Hobbit: la destra giovanile intuisce la potenzialità della metapolitica, dell’impegno sul fronte dell’egemonia e dell’immaginario, il primato della società civile. Le casualità profetiche, infine. Emergono improvvisamente protagonisti della politica che verrà. Gianfranco Fini arriva alla guida dei giovani di destra, Massimo D’Alema diventa segretario della Fgci, Silvio Berlusconi, fino ad allora un imprenditore edile, decidere di scendere in campo nel settore della comunicazione” (pp. 264-265).
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Capito, il giro di parole? Solo per arrivare al Fini “guida dei giovani di destra”. Senza però far cenno al fatto che l’inamidato delfino di Almirante, che le foto dell’epoca ritraevano in impermeabile burberry, (tipica mise da indiano metropolitano…), rappresentò per il Fronte della Gioventù la restaurazione almirantiana. Altro che libertarismo e rottura degli schemi! Gli schemi provò a romperli Marco Tarchi, opponendosi alla battaglia (libertaria?) di Almirante per la pena di morte, sottoscritta anche da Fini… E infatti Tarchi venne messo fuori del partito. Casualità profetica anche questa?
Infine In alto a destra ha un altro punto debole: non si parla di economia. Ad esempio, si trascura Giano Accame, mentre si ricorda giustamente Beppe Niccolai, non menzionandone però le convinzioni sicuramente non filo-capitaliste. Si rievoca Bruno de Finetti, matematico e statistico, senza però andare a fondo. Del colto Goffredo Fofi si lascia cadere l’interessante osservazione sui modelli capitalistici di Agnelli (vincente) e di Adriano Olivetti (perdente). Stesso discorso per Geminello Alvi, pur ricordato come critico delle “rendite oligarchiche”. Anche Pound è citato, ma di economia monetaria “zeru tituli”.
La spiegazione è semplice: qualsiasi critica al modello di sviluppo del capitalismo all’italiana, rischia veramente di “sconvolgere la politica”. Sicuramente l’ultima delle preoccupazioni di Compagno, Campi, Croppi & Co. Troppo impegnati in cucina. 

Carlo Gambescia



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