lunedì 3 maggio 2010


Gianfranco Fini e la questione della destra in Italia
Una replica a Marco Tarchi 
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La questione della destra: la foresta o gli alberi?
Stupisce e dispiace scoprire come nell’analisi di Marco Tarchi, apparsa sul “Foglio a proposito dell’affaire Fini (http://www.ilfoglio.it/soloqui/5031), sia assente un’importante questione storica e politologica, per così dire, di sfondo: quella della ricomposizione della destra italiana.
E per quale ragione? Per dirla senza peli sulla lingua: eccesso di passione politica. L’intervento di Tarchi sembra non muovere da un’oggettiva analisi dei fatti, bensì da un giudizio soggettivo di natura politico-morale. Di qui un’ angolazione più attenta agli alberi che alla foresta, ai particolari e non ai processi generali, “di fondo”. Dei quali invece si dovrebbe parlare, soprattutto per uscire dal giochino giornalistico-salottiero, ora molto in voga, del “ E tu con chi stai? Con Fini o Berlusconi?”.
Quindi vorremmo replicare al suo articolo ma anche provare ad “allargare” l’orizzonte politologico della questione e dunque del dibattito.
Detto questo, lasciamo subito la parola a Tarchi. La citazione è lunga ma necessaria: “Partiamo dal fatto - scrive nel suo intervento - che la scomparsa di Alleanza nazionale ha segnato, sia pur in linea con l’evoluzione progressiva del Msi, la fine di almeno due delle ambizioni che dal fascismo – o quantomeno dalle sue correnti movimentistiche – si erano trasmesse inizialmente ai suoi epigoni: la pretesa/promessa di superare la contrapposizione tra sinistra e destra, estraendo da ciascuno dei due campi le istanze ritenute migliori e fondendole in una nuova sintesi, e quella di incarnare un modo nuovo di rapportarsi alla politica, rifiutando le forme cristallizzate della democrazia partitocratica. Sul primo di questi due versanti, non c’è alcuna vena polemica nella constatazione che, nel Msi prima e in An poi, il fascismo ha completato quel processo di resa alla destra che già aveva attraversato varie fasi in epoca di dittatura. Ridotta la socialità a espediente gergale di propaganda, il neofascismo ha rinfoderato l’aspirazione a proporre modelli di organizzazione economica della società diversi da quelli imposti dal capitalismo e nei confronti di questi ultimi ha, un poco alla volta, affievolito le residue critiche” (il corsivo è nostro).
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La “resa alla destra”
Che in piena democrazia, missini e aennini - ora confluiti nel PdL - abbiano “completato quel processo di resa alla destra che già aveva attraversato varie fasi in epoca di dittatura”, non è un male ma un bene. E, attenzione, non in termini politici e morali - altrimenti si rischia di commettere lo stesso errore di Tarchi - ma storici e sistemici. Come vedremo più in là, quel suo mettere le mani avanti sull’assenza di “vena polemica” sembra essere la classica excusatio non petita
Ma per tornare sul punto “resa”. Cosa vogliamo dire? Che la “resa” assume invece valore positivo dal punto di vista della ricomposizione storica della destra italiana. Perché può favorire, come del resto sta avvenendo, la nascita di un grande partito conservatore e democratico. Parliamo di quel grande partito di destra, liberale, cattolico e popolare, di cui si è avvertita in Italia la storica mancanza. Un “grande assente”, prima penalizzato dal non expedit cattolico, poi sedotto e traviato dal fascismo e infine “ silenziato” dal centrismo consociativo democristiano fino al 1994.
Questo sul piano storico. Su quello sistemico, per dirla in sociologhese, ci riferiamo invece alla ristrutturazione “micro-sistemica” delle diverse anime di un famiglia politica, quella conservatrice. Processo che, a sua volta, rinvia a una “macro-ricomposizione” sistemica e politica capace di condurre alla fisiologica alternanza democratica tra sinistra riformista e destra conservatrice.
Dal momento che - piaccia o meno - questa è la normalità “sistemica”, almeno quando si parla di una società sviluppata, dotata di istituzioni democratiche rappresentative e basata sull’ economia di mercato.
Pertanto rimproverare An di “resa alla destra”, come fa Tarchi, significa subire, nolens volens, il fascino del pensiero della “tentazione fascista”, per usare la agile espressione di Tarmo Kunnas.
Ci spieghiamo subito: significa idealizzare un progetto - attenzione, non studiare - sicuramente estraneo alla moderna democrazia, o comunque disfunzionale, attribuendo ai suoi attori, in questo caso missini e post-missini, livelli di coerenza in base alla distanza dall’enunciato ideologico. E’ quel che fanno da sempre, ad esempio, anche gli studiosi nostalgici del comunismo. Appunto…
Certo, talvolta nei propositi disfunzionali di un movimento politico, come per la follia, c’è un metodo. Ma sempre di follia - o disfunzionalità - si tratta: al limite, oggi sarebbe più corretto, dal punto di vista politologico, visti i successivi sviluppi democratici del Msi, scoprire, se nel fascismo e poi negli ambienti missini vi fossero già all’epoca “tentazioni democratiche”… E dunque fattori “funzionali”. E crediamo che i libri di Parlato, ad esempio, oggi provino ad andare in questa direzione.
Comunque sia, siamo davanti a un “pre-assunto” politico-morale, riguardante una sorta di fascismo “ideale” e la sua potenziale prosecutio politica, che come tutti i “pre-assunti” condiziona, e non positivamente almeno in questa occasione, l’approccio politologico di Tarchi.
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Rileggere Max Weber
Anche perché il ruolo dello scienziato sociale impone sempre la ricerca dell’oggettività. E qui, pur cadendo nel didascalico, non possiamo non citare Max Weber. Non tanto per Marco Tarchi che ovviamente ne conosce l’opera, quanto per i lettori. Weber a proposito della “scelta” politica tra scopi e mezzi, rilevò che lo studioso o “ insegnante può mettervi davanti la necessità di questa scelta, ma non può fare nulla di più, finché vuole rimanere un insegnante e non diventare un demagogo. Egli può naturalmente ancora dirvi: se volete questo o quell’altro scopo, allora dovete mettere in conto questa o quell’altra conseguenza concomitante che si verifica in conformità all’esperienza” (La scienza come professione, Mondadori 2006, p. 40).
Insomma, lo scienziato sociale deve ragionare “weberianamente”. Perciò parlare della fedeltà o meno di An al pensiero della “tentazione fascista” rischia di essere fuorviante. Perché “un insegnante” deve subito evidenziare che qui la scelta “necessaria” non è tra fascismo ideale (scopo) e fascismo reale (mezzo), ma tra democrazia e fascismo: tra due scopi diversi che richiedono mezzi differenti.
Certo, si può, anzi si deve ragionare sulle modalità della transizione Msi-An-PdL. E quindi sui modelli di partito, sui vincoli organizzativi, al limite sulle astuzie, sui personalismi, eccetera. Ma, se vogliamo tenere “politologicamente” i piedi ben piantati in terra (lasciando perciò agli storici delle dottrine politiche, magari un tantinello nostalgici, lo studio del “fascismo ideale”), il processo in sé, come transizione dal modello totalitario a quello democratico di un partito e/o di un sistema, non può non essere definito benefico, funzionalmente benefico.
Torniamo sul punto ancora una volta: discutere del tradimento di Fini rispetto ai valori del fascismo “ideale”, come quando Tarchi accenna all’infedeltà verso “ i modelli di organizzazione economica della società diversi da quelli imposti dal capitalismo” concepiti nel Ventennio, può avere senso politologico solo se rapportato, e in modo positivo quale felix culpa, funzionalmente appropriata alle necessità sistemiche di ricomposizione della destra democratica in Italia. Sono, insomma, in gioco meccanismi strutturali e funzionali. E, ovviamente, le necessità sistemiche non possono includere, in quanto viviamo in una società pluralista e di mercato, opzioni da partito unico o di tipo anticapitalista, e quindi antisistemiche. A che serve perciò tornare ogni volta sull’infedeltà di Fini verso il fascismo “ideale” ? Oppure storcere di continuo la bocca sulla sua conversione all’economia di mercato? Se a Marco Tarchi non piace la liberaldemocrazia nessuno gli vieta di scrivere contro. Ma quel che non è lecito è farsi condizionare dalla passione politica quando si fa analisi politologica anche, o meglio soprattutto, in sede giornalistica. Quindi la “vena polemica” in quel che Tarchi scrive nel suo intervento, c’è, eccome.
Detto altrimenti: in qualsiasi modo Fini sia giunto alla democrazia, gli effetti di ricaduta, al netto di personalismi e giochi di potere, possono essere, dal punto di vista sistemico, soltanto benefici.
Fermo però restando un fatto. Quale? Che va “politologicamente” misurata, e senza fare sconti, la fedeltà “sistemica” dei finiani, ovviamente alla democrazia, ma soprattutto al processo in atto di ricomposizione della destra in Italia. Una “normalizzazione” - ecco il punto - che rischia invece di “precarizzarsi” quanto più Fini, in futuro, cercherà di distaccarsi dal PdL, vero motore, piaccia o meno, del processo, perseguendo obiettivi personalistici e/o velleitari. Rischiando così di frammentare il quadro politico, di favorire il ritorno del centrismo partitico-ideologico, nonché di andare contro i desiderata degli elettori, che mostrano di apprezzare l’unità a destra. E dunque di gradire un bene pubblico e sistemico: la stabilità politica.
Quanto alle frange estreme che Fini e sodali, “passati con disinvoltura dal ghetto al palazzo” avrebbero abbandonato a se stesse, si tratta di folcloristiche minoranze. Borderlines che possono essere ritenuti pericolosi per la democrazia solo dagli isterici seguaci della mitologica religione del Ur-Fascismo. E non crediamo Tarchi sia fra questi ultimi…
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Conclusioni ( o quasi)
Certo, è vero che “ quanto alla funzione che il gruppo dirigente di Alleanza nazionale, oggi lacerato, potrebbe svolgere nel momento in cui Berlusconi lascerà la guida del centrodestra, le prospettive sono indecifrabili”. Come è altrettanto vero che “il ‘pensiero di destra’ non aveva già più ai tempi di An, e men che meno ha oggi in quei dintorni, un volto riconoscibile”.
Tuttavia, ripetiamo, è un bene “sistemico” che il pensiero di destra nel senso, ripetiamo, del “pensiero” della “tentazione fascista”, non abbia più un “volto riconoscibile”. Perché si tratta di un pensiero inconciliabile con la democrazia liberale e l’economia di mercato. Mentre è un male non l’averlo rimpiazzato - o almeno iniziato a rimpiazzarlo - con una cultura realmente liberale, conservatrice e democratica.
E qui emergono le responsabilità di un Fini dedito ai giochi di potere ma anche le colpe dei fatui “farefuturisti”. I quali hanno prodotto, come giustamente scrive Tarchi, “un insieme liquido di riflessioni prive di un filo conduttore, abbacinate dall’ossessione di apparire moderni ad ogni costo, ancora legate a una terminologia di stampo conservatore in cui parole come nazione, identità e Stato sono tuttora frequenti ma ondivaghe nell’attribuire contenuti a quei termini”.
E qui emergono anche i limiti di Berlusconi, al quale se va riconosciuto il merito di aver avviato nel 1994 il gigantesco processo storico-sistemico di ricomposizione della destra italiana, vanno rimproverate le modalità autoreferenziali di attuazione. Come non vanno sottaciute le responsabilità del mondo economico italiano, che talvolta pare preferire la vischiosità del consociativismo. Una propensione cui spesso non sembra sfuggire neppure una sinistra, che pure sta tentando di trasformarsi in forza riformista e alternativa alla destra.
In questo senso gli elettori, come abbiamo accennato, soprattutto quelli di destra, sembrano essere più consapevoli degli stessi attori politici circa l’importanza della posta (“ricompositiva”) in gioco.
Ma su questi aspetti magari torneremo in altra occasione.


Carlo Gambescia

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