mercoledì 25 ottobre 2006


Il libro della settimana, John Lukacs, Democrazia e populismo, Longanesi, Milano 2006, pp. 230, Euro 17,60.

http://www.ibs.it/code/9788830423602/lukacs-john/democrazia-populismo.html


Vi sono libri che vanno assolutamente letti. Perché, anche se magari possono apparire irriverenti, poi si rivelano originali. Democrazia e populismo di John Lukacs (Longanesi, Milano 2006, pp. 230, euro 17,60) appartiene sicuramente a questa categoria. Ma prima vanno dette due parole sull’autore, un vero battitore libero del conservatorismo americano.

Lukacs, nato nel 1924 a Budapest, ha vissuto intensamente il “secolo breve”. Prima in Ungheria, sfuggendo per un pelo, lui di madre ebrea e padre borghese e cattolico, al mortale abbraccio di nazionalsocialisti e comunisti. E poi nel 1946 negli Stati Uniti, come professore di storia, presso il Chestnut Hill College, dove ha insegnato fino al 1994. Ha scritto un ventina di libri e assunto spessissimo posizioni contrarie a quelle della destra americana, nelle sue varie versioni. Ecco qualche esempio: negli anni Cinquanta, pur essendo anticomunista e neocittadino americano, critica la demagogia del senatore McCarthy. Negli anni Sessanta, rifiuta il ribellismo sociale di Barry Goldwater. Negli anni Ottanta, condanna l’attivismo iperliberista di Ronald Reagan. E negli anni Novanta e seguenti, quello in politica estera dei due Bush.
Lukacs non è favorevole alle guerre di conquista, al capitalismo puro, ma non ama neppure l’assistenzialismo, il libertinismo morale, e detesta l’individualismo consumistico. E’ cattolico, ma in un celebre libro dedicato ai pensatori cattolici americani (Catholic Intellectuals and Conservative Politics in America, 1950-1985, Cornell University Press), lo storico Patrick Alitt, pur affiancandolo a personaggi del “mainstream conservative Catholics” come William F. Buckley, John Courtney Murray e Michael Novak, gli attribuisce due doti in particolare: come intellettuale, una smisurata indipendenza politica, e come storico, “ uno stile meraviglioso e grande capacità di penetrazione psicologica”. Lo si potrebbe definire, nel linguaggio della politica americana, un “paleoconservative”. Un’ etichetta che però Lukacs rifiuta, preferendo autodefinirsi, tra lo sconcerto della destra politicamente corretta, “reazionario” e “nemico del progresso”. Comunque sia, gli dobbiamo, tra gli altri, un bellissimo libro su Churchill, del quale è grande ammiratore (Churchill. Visionario, storico, statista, Il Corbaccio ). Per capirne di più forse varrebbe la pena di leggere le sue memorie, Confessions of an Original Sinner ( Ticknor and Fields), ricche di osservazioni e stimoli che permettono di scoprire come il “reazionario” Lukacs, sia invece un liberale alla Tocqueville e all’Ortega: uno strenuo difensore delle istituzioni liberali, in un’epoca però dominata da masse mediatizzate e inclini più che al ragionamento alla violenza…
Ma veniamo ora a Democrazia e populismo. Abbiamo osservato che il libro è originale. Per quale motivo?
Perché va a inserirsi tra libri, apparentemente più ponderosi e diversi, come quelli di Furet (Il passato di un’ illusione) e Hobsbawm (Il secolo breve), offrendo un’ interpretazione del Novecento ( ma non solo) che al tempo stesso integra e innova i testi citati. Secondo Lukacs, dietro l’illusione (Furet) o la credenza morale nel comunismo (Hobsbawm), vi sarebbe invece stato l’avvento della democrazia di massa coniugato al rifiuto totale delle istituzioni liberali. O se si preferisce, un populismo nazionalistico che avrebbe distinto anche il nazionalsocialismo e il fascismo (seppure Lukacs lo definisca come una forma di autoritarismo).
Fin qui, si dirà, nulla nuovo. E invece non è così, perché Lukacs, dal momento che utilizza la categoria “ democrazia di massa”, ricomprende in essa anche le democrazie odierne. A suo avviso, quanto più le democrazie si piegano ai canoni psicologici e sociologici di un populismo nazionalistico, che mescola odio e paura nei riguardi dell’Altro, tanto più rischiano di scivolare nel totalitarismo, certo non in camicia bruna o rossa, ma altrettanto vischioso, perché mediatizzato.
E qui l’autore si accanisce particolarmente contro Bush figlio. Lo storico si fa moralista: “Subito dopo l’attacco contro New York e Washington (con cui l’Iraq non aveva niente a che fare) il presidente Bush e i suoi consiglieri scelsero di lanciare una guerra in Iraq con largo anticipo sulle elezioni del 2004, essenzialmente allo scopo di conquistare popolarità. Si tratta di una novità nella storia americana. Ci sono stati presidenti - da Polk a Wilson e Roosevelt passando per Lincoln - che hanno voluto la guerra (e tentato di adescare il nemico a ‘sparare per primo’) perché convinti che fosse nell’interesse della nazione; ma non allo scopo di accrescere la propria popolarità. (Neppure Hitler scelse la guerra nel 1939 per accrescere o rafforzare la sua popolarità presso il popolo tedesco. Niente potrebbe essere meno vero” (p. 189, nota 3).
Pertanto Lukacs non sbaglia, quando nota che in effetti il vero problema oggi non sia “rendere il mondo sicuro per la democrazia: quest’infelice idea di un presidente americano, Wilson”, che fu il primo ad usarla, e ripresa da Bush, ma quello “di rendere la democrazia sicura per il mondo ; una grande questione che Tocqueville avrebbe compreso all’istante” (p. 12).
Ecco, potremmo definire questo problema, proprio sulla scia del pensatore politico francese, come il “problema Tocqueville”, che poi è quello che affascina Lukacs: come “reintrodurre” il liberalismo nella democrazia di massa? Dove i messaggi mediatici e gli slogan politici, rapidi, ossessivi e rivolti verso un Altro visto come potenziale nemico, rischiano di avere la meglio sulle istituzioni liberali, certo più “lente”, ma ragionevoli e tese alla difesa delle minoranze. Come fare allora?
Secondo Lukacs, il problema andrebbe risolto puntando su tre fronti: su una migliore selezione e formazione delle élite, sul rafforzamento dell’autorità politica, e infine, sulla rinascita della moralità pubblica. Ma lo storico individua, e per ora si limita a porre, anche un problema fondamentale: quello di come ricondurre il contemporaneo culto del progresso all’interno di un sistema di valori, capace di privilegiare la stabilità sociale, rispetto a un continuo attivismo di cui tuttora non si capiscono finalità e scopi sociali.
A tale proposito merita essere citato un lungo passo, dove Lukacs indica le future linee di frattura della politica: “In questo libro ho sostenuto che le vecchie categorie del ‘conservatorismo’ e del ‘liberalismo’ sono divenute quasi del tutto obsolete. Ma una tendenza è chiara. Quasi ovunque, la ‘sinistra’ ha perso forza d’attrazione. E’ possibile che in futuro la vera divisione sarà non tra destra e sinistra, ma tra due specie di destra: tra coloro la cui bussola è il disprezzo (…), che odiano i liberali più di quanto amino la libertà e coloro che amano la libertà più di quanto temano i liberali; tra nazionalisti e patrioti; (…); tra quanti si affidano alla tecnologia e alle macchine e quanti si affidano alle tradizioni e alle vecchie regole delle decenza umana; tra coloro che sono favorevoli allo sviluppo e coloro che desiderano proteggere e conservare la terra: tirando le somme, tra chi non mette in questione il Progresso e chi invece lo fa”(p. 199).
L’analisi di Lukacs ha una sua forza argomentativa. Il progresso non può essere assolutizzato a beneficio di masse narcotizzate da consumi crescenti ed eccessivi, e disposte a subire e il fascino indotto dell’invidia e della forza bruta. Perché, prima o poi, si rischia di fare i conti, con una crescente anomia ambientale, sociale e morale. Resta però un dubbio: se le istituzioni liberali, elitarie per eccellenza (perché nate da e per pochi notabili), siano effettivamente in grado di governare la democrazia di massa. Anche perché il Novecento ha mostrato, e dolorosamente, che spesso lo stesso liberalismo (antidemocratico, o a-democratico), in alcuni occasioni, è venuto a patti se non con il totalitarismo, almeno con l’autoritarismo, senza per questo riuscire a fermare la massificazione della società.
Sotto questo aspetto, e malgrado tutto l’acume storico di Lukacs, il “problema Tocqueville” resta ancora privo soluzione. E chissà se mai ne avrà una.
Carlo Gambescia

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