giovedì 12 ottobre 2017


Radiografia di un mito, a cinquant’anni dalla morte
Sociologia di Ernesto  Che Guevara


Che Guevara, del quale in questi giorni si commemorano i cinquant’anni  trascorsi dalla scomparsa,  rappresenta  un ottimo argomento per una lezione sulla sociologia della rivoluzione, dal momento che,  come impone la logica rivoluzionaria,   non  morì  nel suo  letto...  Procediamo però per gradi. 
Si può studiare il Che  sotto molti  aspetti, biografici, politici,   mitologici e secondo le più differenti prospettive politiche, fino al  punto  di  farne un  cristo socialista o un tenebroso terrorista. In realtà, Che Guevara è la  prova (sociologicamente) provata di come le rivoluzioni, quando non riescono a mangiare se stesse, e perciò  da movimento  si fanno istituzione  politico-sociale, finiscano sempre per mangiare i suoi protagonisti: o moralmente,  attraverso la  routine quotidiana, fatta di compromessi, benessere e comodità,   o fisicamente,  tramite   gli “incidenti sul  lavoro”,    tipo,   essere "purgati  dagli  ex amici, o  massacrati dai  nemici sul campo di battaglia. 
Il Che, vinse a Cuba con Castro,  da guerrigliero  divenne ministro; si accorse subito, da movimentista (ingenuamente) convinto,  che l’istituzionalizzazione della rivoluzione  comportava compromessi e conflitti interni  al gruppo dei vincitori. E così preferì tornare alla fase movimentista, della guerriglia. Sicché - come capita -  venne catturato e ucciso dalle forze anti-guerriglia.
Qui non  non è in  discussione il romanzo sociologico su Che Guevara. Pensiamo,  ad esempio,  alle pittoresche  leggende, come per i santi medievali,  sorte intorno al sua morte.  Bensì ci interessa  la concreta dinamica sociologica  della rivoluzione,  in particolare delle rivoluzioni moderne,  di tipo costruttivista e totale:   dinamica, con una sua logica interna,   che si nutre di rivoluzionari,  da Robespierre a Che Guevara, passando per Trotsky.
Dire, come si legge in questi  giorni, che la sinistra avrebbe tradito Che Guevara, e che dovrebbe ritrovarne i rivoluzionari  ideali, di purezza, coerenza e sensibilità verso la sofferenza,   significa non capire  nulla di sociologia della rivoluzione: più la  rivoluzione si proclama  “moralmente” pura,  più, nello sforzo di mantenersi tale (e qui la parabola del giacobinismo è esemplare), si tramuta in   totalizzante e sanguinaria,  imponendo il  monopolio istituzionale  della "sua" verità politica,  ritenuto a priori come perfetto e indiscutibile.  E le rivoluzioni, proprio perché tali  - ecco la tragedia sociologica - non possono non essere "presuntivamente"  pure,  quantomeno nelle intenzioni, la cui modulazione riflette però la stratificazione delle ambizioni umane e sociali. Sicché, poiché potere e intenzioni devono trovare un loro equilibrio, per garantire una qualche forma di  normalità sociale, anche nel conflitto infra-rivoluzionario,  la presunzione di  purezza  si trasforma  in  velenosa risorsa politica.  
Si pensi a un figura italiana, come quella di Carlo Pisacane,  prima mazziniano, poi socialista (in senso  pre-marxiano): un  "puro" tutto dedito alla causa "senza premio alcuno", un rivoluzionario “arrabbiato”,  un gesuita delle pallottole, un  teorico della guerriglia rivoluzionaria. In termini sociologici,  un  movimentista, in senso assoluto,  che morì, pieno di stupore, per mano degli stessi contadini che voleva liberare.  Eppure,  allora   non  c’era la Cia
La “rivoluzione italiana”  - il nostro Risorgimento -  poi la fece Cavour,  un liberale, politicamente moderato, che credeva nelle riforme da perseguire attraverso le  istituzioni parlamentari e la libertà di mercato, assecondando  l'evoluzione sociale, non dirigendola dall'alto. L'esatto contrario del credo totalitario dei  professionisti della sofferenza e della rivoluzione: coloro che pretendono ingenuamente di sapere cosa sia  il bene per ogni membro della società. Pensiamo  ai  "puri",  come Che Guevara, che la sinistra, quella che non crede nel riformismo,  tuttora rimpiange.   
Certo, Cavour, abilissimo uomo politico,  giocò  sulla spinta militare al Sud di Garibaldi.  Un  generale, dai tratti autoritari, certamente un rivoluzionario,  che però  a differenza di Pisacane  (e Che  Guevara) aveva i piedi ben piantati in terra.  Mazzini,  invece morì nel suo letto. E anche  questo dovrebbe far riflettere.
Tòto, non era un sociologo, ma in un film - forse “Totò al Giro d’Italia” -   gridò verso gli spettatori: “ Dopo ogni guerra viene il dopoguerra, viva Binda!”.  Cosa voleva dire?  Probabilmente,  allora in un' ottica post-fascista e bonariamente critica del conformismo democristiano, che l’ordine politico  si ricompone sempre: pochi comandano, molti ubbidiscono.  Non c’è niente da fare.  È la sociologia delle élites sociali,  bellezza.  Piaccia o meno,  per dirla nuovamente con Totò,  dopo ogni rivoluzione,  viene il dopo rivoluzione,  viva Castro!
Certo, Castro, ahinoi,  non era De Gasperi, un leader, comunque sia, liberal-democratico.  Ma questa è un'altra storia...

Carlo Gambescia