martedì 1 dicembre 2015

Il pacibuonismo
di Teodoro Klitsche de la Grange




L’articolo di Carlo  Gambescia del 26 novembre (*)  mi stimola a fare un paio di postille, rivolte più (servendomi della terminologia paretiana) alle derivazioni che ai residui.
Il calo dello spirito bellicista è dovuto, oltre agli immensi disastri delle guerre – mondiali, ma non solo – del XX secolo, al rifiuto della guerra, esternato da gran parte delle classi dirigenti dell’Europa occidentale, al potere dopo la fine della II guerra mondiale, e attualmente ancora al governo. Di tale rifiuto sono state date varie giustificazioni (ricordate da Carlo); tutte che non tengono conto del (dato di) fatto che una guerra può essere illegale, immorale, irreligiosa, antieconomica, antiecologica e antiscientifica, ma tuttavia dato che per farla basta la decisione di un nemico – il quale spesso la prende assumendosi lui il carico di tanta immoralità, illegalità, ecc. ecc. - resta un evento che si deve affrontare. E la decisione è semplice: o non farla arrendendosi e comunque cedendo alla volontà del nemico, o difendersi.
Nel secondo caso (per la guerra occorrono due contendenti) occorre essere preparati a farla, e la preparazione è in primo luogo, psicologica, e in secondo luogo materiale.
Per cui i Romani, che di politica s’intendevano, avevano coniato l’adagio si vis pacem para bellum, cosa che evitò loro gran parte delle guerre che avrebbero potuto scoppiare. I nemici della repubblica e poi dell’impero, sapevano bene che avrebbero trovato un esercito preparato (e potente), una classe dirigente non arrendevole, una popolazione decisa a difendersi.
Ma se al contrario, la classe dirigente e in particolare, l’élite (non è complimento, ma ossequio a Pareto) intellettuale predica che il nemico non è differente da noi sul piano etico (Hegel scriveva che il nemico è la differenza etica), anzi talvolta un po’ meglio di noi, che la guerra va comunque rifiutata perché dobbiamo essere morali, legalitari, ecocompatibili ecc. ecc., siate sicuri che il nemico, sicuro di trovare poca o punta resistenza (questa riservata alla storia) si sentirà incentivato e rassicurato a farcela.
Anche perché i parternostri che certi predicatori vanno ripetendo continuamente nelle nostre società debellicizzate, sono generosamente impartiti perché graditi all’uditorio, che si sente solleticato o confortato dal vellicamento delle proprie aspirazioni, sicuramente buone, ma altrettanto sicuramente aspirazioni – e non realtà. Discorsi che piacciono all’uditorio sono il mezzo per ottenere consenso, approvazione e soprattutto costruirsi una buona carriera e una comoda nicchia di potere. Ma altrettanta attenzione non conseguono presso il nemico, che di tali parole alate non si commuove. Anzi si frega le mani pensando agli utili idioti di Lenin. E sarebbe interessante disporre in rete di un video sulle spontanee reazioni che potrebbe riservare un reparto dell’ISIS ad un commosso sermone di un predicatore bo-bo.
A parte ciò, e tenuto conto dell’incidenza dei buoni propositi sul nemico, appare assai probabile – per non dire sicuro – che il miglior modo di farsi attaccare, cioè per subire una guerra è quello di predicare il pacibuonismo, quel misto di buone intenzioni e di richiami morallegalitari che imperversa.
Un’ultima nota. Sosteneva Pareto che le classi dirigenti in ascesa sono energiche e non rifuggono dall’uso della forza; quelle senescenti, fanno prevalentemente uso dell’astuzia. Quindi il pacibuonismo non è espressione solo di santità o di superiorità morale, ma di astuzia di pavidi (e decrepiti). E non credete che il nemico non abbia letto Pareto – e non solo.
Teodoro Klitsche de la Grange



Teodoro Klitsche de la Grange è  avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica “Behemoth" (  http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009),  Funzionarismo (2013).


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