mercoledì 18 febbraio 2015

I caccia egiziani, per ora, ci “tolgono le castagne dal fuoco”
E intanto fanno il bagno a Cesenatico…



Oggi nelle aperture dei giornali c’è molto Tsipras, mentre la Libia è  relegata nei tagli centrali.  Chissà per quale ragione? Forse perché i  jihadisti sono stati respinti?  E come? A chiacchiere o  manu militari?  Sulla questione, non secondaria,  larga parte dei giornali invece glissa...  Evidentemente, il fatto che l’avanzata del nemico sia stata fermata dal bombardamento aereo egiziano (ossia militarmente) non è sintonia con i belati del presepe pacifista e trattativista (quelli del  “capire le ragioni profonde” eccetera).  L’Egitto - e qui  non importa la motivazione immediata (l’eccidio dei copti cristiani; la storia spesso è più forte degli uomini) - ha fatto quello che avremmo dovuto fare noi: Italia, Europa, Usa.  
Oggi,  nei giornali, al silenzio sull’importanza dell’operazione militare egiziana, si affianca il pre-primaverile risveglio  dei  piazzisti dei buoni sentimenti, quelli con la mano sul cuore e la boccuccia a culo di gallina...  I quali  fanno finta di non sapere che se la situazione non è subito precipitata,  il merito non è dei buoni propositi dei pacifisti o dei virtuosismi diplomatici della Comunità di Sant’Egidio,  ma delle bombe egiziane (*). Sicché,  in Libia c’è la  guerra e in Italia, per dirla con la vecchia canzonetta,  si fa il bagno nella  Cesenatico delle chiacchiere buoniste…
Quel che i pacifisti - ammesso e non concesso che siano in buona fede -    non capiscono  è che  la trattativa è un mezzo non un fine.  Un mezzo, proprio come quello militare.  E solo con l’uso  prudente  dei due strumenti, soprattutto nelle situazioni di crisi, è possibile limitare i danni (sempre in senso relativo).  Ora,  quando  un conflitto  è in corso, come nel caso,  la logica delle "trattative subito!" non può essere  efficace  per un semplice fatto:  un contendente  in  vantaggio (sul campo) difficilmente si fermerà per trattare. Di qui, l’importanza,  anche  per trattare  su un piede di maggior parità, da parte dell'altro contendente, di ripristinare l’equilibrio militare, anche attraverso l’uso della forza.  Quindi, di per sé, la trattativa,  non è mai risolutiva, o viene prima o viene  dopo una guerra,  mai durante, se non, ovviamente,  nelle situazioni di stallo,  come dire,  di equilibrio militare forzoso realizzato però sempre sul campo.  Figurarsi poi in presenza di contendenti fanatici che credono in modo assoluto nella vittoria finale.
La logica del “prima di tutto mettiamoci intorno a un tavolo per ragionare" non funziona sempre  nei parlamenti,  figurarsi sui campi di battaglia.  Naturalmente, per fare uso sapiente degli  strumenti militari e diplomatici servono chiari obiettivi politici, classi dirigenti all'altezza, popoli coesi e solide alleanze.  Sicché,  spesso,  il pacifismo trattativista è la foglia di fico per coprire la propria debolezza (Machiavelli docet).
Concludendo,  innanzitutto si sconfigge il nemico o comunque lo si mette in condizioni di non nuocere, dopo di che,  in relazione al suo  tasso di  pericolosità e/o utilità, si decide il suo destino.  Allora sì,  “al tavolo della pace”…


Carlo Gambescia  


(*) Su tali  questioni  e sulla Comunità di  Sant'Egidio - la cui attività  è  degna del massimo rispetto  -  si legga l'interessante contributo  uscito ieri sul "Foglio: "http://www.ilfoglio.it/articoli/v/125693/rubriche/libia/libia-perch-litalia-e-forse-rester-un-paese-inadatto-a-guidare-una-guerra-indagine.htm               

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