giovedì 5 febbraio 2015

Il libro della settimana: Paolo Bonetti, Breve storia del liberalismo di sinistra. Da Gobetti a Bobbio, postfazione di Dino Cofrancesco,  Liberilibri, Macerata 2014, pp. 228,  Euro 16,00. 

http://www.liberilibri.it/paolo-bonetti/226-breve-storia-del-liberalismo-di-sinistra.-da-gobetti-a-bobbio.html



Esiste un liberalismo di sinistra? E se sì, cosa lo distingue dal liberalismo di destra? Diciamo subito che siamo piuttosto scettici.  Non desideriamo anticipare giudizi, magari sbrigativi, perché non sarebbe rispettoso verso un libro, comunque interessante, come quello   di Paolo Bonetti, Breve storia del liberalismo di sinistra. Da Gobetti a Bobbio ( Liberilibri).  Lasciamo perciò  la parola a Bonetti, già professore  di Filosofia  morale nell’Università di Cassino e di Bioetica a Urbino, di cui piace ricordare un piccolo classico: il suo libro dedicato alla  rivista “Il Mondo” (Laterza 1975).   Ma veniamo al punto:

«Direi che il comun denominatore sta in quella  che il grande storico liberale di Cavour e del Risorgimento Adolfo Omodeo, che fu esponente autorevole della “destra azionista”, chiamava libertà ‘liberatrice’, una concezione delle libertà che non si chiude  mai nella difesa  delle istituzioni liberali così come si presentano  in un determinato momento storico, ma mira a rinnovarle sotto la spinta di nuovi bisogni sociali e di nuove forme di vita comunitaria. Una libertà, insomma, espansiva ed esclusiva, che rifiuta di essere la semplice apologia dell’ordine liberale dato, ma vuole continuamente rinnovarlo per impedire  che diventi il semplice tutore giuridico di ceti e gruppi variamente privilegiati. Il liberalismo di sinistra non si accontenta di un formalismo  liberale che giudica sostanzialmente conservatore, ma cerca sempre di dare nuova linfa alle istituzioni liberali attraverso l’allargamento  progressivo della base sociale che deve, con il suo consenso, sorreggere, queste istituzioni» (p.12).

All’interno di questo comune denominatore,  Bonetti  asserisce di  aver individuato  due tendenze principali.  La prima:  

«Da una parte c’è la linea , naturalmente,  con tutte le differenze che sono state messe in evidenza tra i singoli protagonisti, Gobetti-Rosselli-Calogero, la linea del liberal-comunismo  (anche se, francamente, questo termine mi appare come un vero e proprio ossimoro politico, poiché non si vede come sia possibile conciliare il monismo comunista con il pluralismo liberale) , del socialismo liberale e del liberalsocialismo, in cui si ipotizza, pur nel mantenimento del   costituzionalismo liberale, una radicale trasformazione della struttura economica  in senso socialista, se non addirittura comunista » (p. 180)

La seconda:

«Dall’altra abbiamo  la linea  Amedola-La Malfa  con la destra azionista prima col partito repubblicano poi -“Il Mondo”, che è una classica linea di democrazia liberale riformatrice, che si muove sostanzialmente all’interno del capitalismo liberale, per il quale chiede riforme anche profonde ma non tali da incepparne i meccanismi di sviluppo, Naturalmente si possono trovare , anche all’interno di  questa linea, fasi di maggiore statalismo o di maggiore liberismo, ma non si esce mai da quell’economia a due settori, pragmaticamente flessibile nelle sue scelte, che era poi l’eredità  del liberalismo crociano in seguito corroborata  al New Deal rooseveltiano, dal nuovo laburismo inglese, e dall’esperienza  della socialdemocrazia  tedesca dopo il congresso di Bad Godesberg (1959)» (p.181).  

 Il che, (prima e seconda "linea"), se abbiamo capito bene,  sarebbe il  frutto prezioso  del 

« metodo liberale su cui tanto si insiste,  [metodo] che anche noi invochiamo per le nostre società  incerte tra la deriva populista e l’illusione tecnocratica, quello della persuasione (l’etica del dialogo su cui si soffermerà […] il liberalsocialista Guido Calogero)  e delle regole che debbono dar vita a un patto di “civiltà” capace di tenere assieme uomini di tutte le fedi, ma che vogliono comunque salvaguardare, nelle differenze, la loro comune umanità» (p. 61). 

Due osservazioni.
Punto uno. Definire di sinistra, un pensiero "espansivo" che non si riconosce  nell’ esistente  (quindi accettare la “chiave” progressista) non sembra propriamente liberale, perché contrario  al "metodo" ricordato da Bonetti:  perché se il metodo è fondato sull’etica del dialogo, tale etica, in quanto insieme di regole condivise, non può essere né conservatrice né progressista.  Insomma, il liberalismo, se e in quanto tale,  non può praticare sconti argomentativi di nessun genere, a destra  come a sinistra.
Punto due: Bonetti, nella sua argomentazione, sembra confondere  il politico (come insieme di costanti) con lo stato (che è solo una delle forme istituzionali, storiche e sociologiche assunte dal politico), sicché  rischia di appiattire  il liberalismo di sinistra  sul  ruolo rettificatore dello stato (mentre a destra commettono l' errore opposto quei  liberali che fanno del liberalismo l’omologo del distribuzione mercatista).
Insomma, per dirla tutta,  Bonetti, al tempo stesso,  per un verso vincola  il liberalismo al transeunte ( lo stato),  per l’altro, in nome di un’entità metastorica (il progresso, ma  lo stesso si potrebbe dire per il "regresso", spesso, polemicamente celebrato da conservatori e reazionari), divorzia da ciò che è transitorio (mentre il conservatore, a sua volta, sposa erroneamente il temporaneo, trasformandolo in  fattore metastorico). Pertanto, siamo d’accordo con l’opportuno richiamo di Cofrancesco  alla concretezza, per così dire né-destra-né-sinistra, di un Vincenzo Cuoco, quale  fattore cognitivo fondante (del liberalismo). Concretezza assai vicina a quel  forte senso della realtà  presente in pensatori, anch’essi protoliberali come Burke, Tocqueville o dichiaratamente liberali come Pareto, Mosca, Croce, Ferrero, Weber, Ortega, de Jouvenel, Röpke, Freund, Aron Berlin. Da noi altrove definiti “liberali tristi”, politicamente trasversali, perché consapevoli, alcuni per scienza altri per filosofia, che purtroppo l’unico modo per comandare alla politica sia  quello di  ubbidire alle sue leggi. Si dirà che anche il concetto di "liberalismo triste"  è una delle tante definizioni possibili, quindi opinabile. Giusto. Inoltre, va pure ammesso che non pochi  dei pensatori da noi citati, tornano anche nel saggio di Bonetti. Ciò però potrebbe  anche  indicare, come abbiamo letto da qualche parte, che  un errore è tanto più pericoloso quanta più verità  racchiude.  Ma dov'è l'errore, dov'è la verità? Ecco il vero punto: semplificando (Billy Wilder docet), nessuno è perfetto. E questa probabilmente, resta l'unica verità. Soprattutto per un liberale.        

Carlo Gambescia      

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