giovedì 29 marzo 2012

Il libro della settimana: Alessandro Orsini, Gramsci e Turati. Le due sinistre, Rubbettino 2012, pp. 148, Euro 12.00. 

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A chiunque sia rimasto sorpreso dalla foto che ritrae Oliviero Diliberto, leader dei Comunisti italiani, sorridere beato, accanto a una manifestante che indossa la maglietta con la scritta “La Fornero al cimitero”, consigliamo la lettura di quest’ultima fatica di Alessandro Orsini, Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubbettino). Perché si tratta di un libro importante su un tema, di regola, rimosso dalla sinistra, e non solo radicale: quello del riformismo. Che c’entra il riformismo con una maglietta?. C’entra, c’entra… Perché, ad esempio, Gramsci, sul quale si fa tuttora molta confusione definendolo un riformista, se oggi fosse ancora tra noi, plaudirebbe alla maglietta contro la Fornero...
Qual è la tesi del libro? Scrive Alessandro Orsini, professore di sociologia politica e dell’educazione: « Attraverso l’analisi comparata della cultura politica di riformisti e dei rivoluzionari fino all’avvento del fascismo (1898-1921) sostengo che Turati è stato il protagonista di una tenacissima battaglia culturale consapevolmente intesa a portare un argine pedagogico all’ascesa dei totalitarismi di destra e sinistra. L’azione educativa di Turati mirò conciliare la cultura socialista con quella liberale nel tentativo di educare le masse al rispetto del gioco democratico. Sotto il profilo pedagogico, Turati è stato il difensore dei principi che sono oggi a fondamento della cultura politica dei socialisti liberali. Il più importante dei quali è ciò che propongo di chiamare “diritto all’eresia” » ( p. 10). Per contro, l’azione educativa di Gramsci, prosegue Orsini, si poneva agli antipodi di quella turatiana: secondo il pensatore sardo « la libertà poteva essere raggiunta soltanto attraverso la disciplina e la sottomissione al Partito. I giovani ribelli a tale disciplina erano “esseri inutili e dannosi” (…). A suo dire un buon socialista doveva rimanere il più lontano possibile da coloro che erano estranei al Partito (…). Coloro che militavano nel fronte avversario erano corrotti nello spirito. Erano tutti venduti e al servizio del padrone. Il vero socialista è un uomo che legge soltanto la stampa di partito. Egli non deve sfogliare né parlare di libri o di riviste che esprimono un punto di vista diverso da quello del Partito. [Mentre] Turati affermava che il Partito socialista aveva il dovere di educare al rispetto degli avversari politici e alla libertà di critica. Gramsci educava a rifiutare ogni confronto con le idee degli avversari» (p. 70). In sintesi: « Turati e Gramsci sono stati i rappresentati di due sinistre in irriducibile contrasto culturale. I loro valori furono inconciliabili. Turati condannava la violenza, l’intolleranza, l’insulto degli avversari l’ortodossia, la sottomissione al partito. Gramsci esaltava la dittatura, l’intolleranza, il disprezzo del nemico, la violenza, la parolaccia, la soppressione del dissenso e della libertà di critica» (p. 101).
Quindi altro che riformismo... Gramsci fu un leninista puro, come del resto Orsini documenta egregiamente. Insomma, esiste un filo rosso che va dal gramsciano «il nemico è un porco» al Diliberto che sorride accanto a chi invoca la morte dell’avversario politico. Salvo poi scusarsi in modo infantile…
Però, se oggi Diliberto sta a Gramsci, chi sta a Turati? E qui, purtroppo, se pensiamo al fenomeno dell’antiberlusconismo viscerale che ha animato l’intera sinistra nel demonizzare il Cavaliere, resta molto difficile fare nomi. Probabilmente si dovrebbe risalire a Craxi, che, pur sganciatosi meritoriamente dal berlinguerismo (forma senile del comunismo italiano), commise errori di altro genere, che con l’aiutino dei giudici portarono alla dissoluzione di un Psi, ormai su posizioni pienamente riformiste.
E qui, dobbiamo però muovere un rilievo, pur prendendo atto del notevole lavoro di scavo e concettualizzazione di Orsini. Il quale utilizza, e con grande eleganza applicativa, le teorie culturaliste di Geertz e Alexander, basate sul potere autonomo della cultura e delle norme di controllo sociale. Proprio per spiegare, e molto bene, come la cultura politica possa, interagendo con le scelte individuali, riequilibrare le dissonanze cognitive tra norme e fatti, o se si preferisce, semplificando, tra tra il dire e il fare. E come? Talvolta favorendo l’integrazione dell’avversario, talaltra la sua eliminazione, persino fisica. Insomma, Orsini è abilissimo nel indagare il peso di una pedagogia politica, capace di influire sulla formazione del singolo individuo, seguendo differenti direttrici: quella di Turati (riformismo) e quella di Gramsci (rivoluzione). Lavoro eccellente.
Nonostante ciò, Orsini sembra non scorgere la debolezza di fondo del riformismo turatiano, estesasi in seguito alle forze potenzialmente riformiste, in particolare le socialiste, soprattutto fra il secondo dopoguerra e l’avvento di Craxi. Ci spieghiamo meglio: è vero che Turati resta l’artefice di una salutare pedagogia riformista. Ma attenzione: il suo riformismo - apprezzabilissimo, per carità - era pur sempre da lui considerato un mezzo non un fine. Una modalità, se si vuole, per giungere, comunque, alla società socialista. In questo senso le istituzioni della democrazia liberale e rappresentativa, pur se giustificate sotto l’aspetto della contingente attività parlamentare, venivano giudicate, come superabili nella futura società socialista, certo, da costruire per gradi, attraverso le riforme e il rispetto dell’avversario.
Insomma, la debolezza costitutiva del riformismo turatiano è nella mancata accettazione della democrazia parlamentare e della società capitalista come fini e non come mezzi. Una mancata accettazione che caratterizzerà, in modo più o meno spiccato, il partito socialista fino all’arrivo di Craxi. Probabilmente, pur integrando Turati, il raffronto interno con Gramsci, andava perciò allargato al riformismo "finalistico" di matrice bernsteiniana, personificato in Italia, per fare due nomi illustri, da Bonomi e Bissolati. Per inciso: Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie di Eduard Bernstein, bibbia del socialismo riformista, uscita nel 1899 verrà tradotto in Italia nel 1945, e in edizione integrale solo nel 1968… Un ritardo, che da solo, meriterebbe uno studio approfondito…
Comunque sia, Bonomi e Bissolati, riuscirono, e con largo anticipo, a superare ciò che lo storico Massimo Salvadori ha definito “sindrome dissociativa” di una sinistra dominata da un antiriformismo mai diventato azione rivoluzionaria. E in che modo? Accordando il proprio consenso riformista allo stato liberaldemocratico e al capitalismo, puntando sul miglioramento progressivo delle condizioni di vita della classe lavoratrice. Certo, furono purtroppo generali senza esercito... E sulla ragione della maggiore "appetibilità" politica e sociale delle proposte massimaliste e, diciamo così, rivoluzionariste rispetto a quelle riformiste, va presa in considerazione un'altra questione, sempre di tipo pedagogico, ma più ampia. Probabilmente, alle origini dell'opzione antiriformista, rimane una particolarità italiana, che non riguarda solo la sinistra, e che risale alla fine dell’Ottocento: quella dell’antiparlamentarismo. Parliamo di una scelta fondata sull’ idea di una mitica democrazia senza parlamento e partiti. Detto altrimenti: di una democrazia organica o proletaria, tristemente capace di mettere a frutto l’odio verso le istituzioni politiche “borghesi”, come poi predicarono i teorici dello stato corporativo e della democrazia progressiva o proletaria. E come oggi continuano a sostenere gli apostoli dell’antipolitica e i grigi adepti del potere tecnocratico, ovviamente in compagnia dei pallidi adoratori della mano invisibile, per i quali, in ultima istanza, sono i mercati a votare e non i parlamenti.
Ecco, il problema italiano non sembra essere mutato: quello di una maturità liberale, tuttora latitante, come capacità di un’intera classe dirigente, sia a destra che a sinistra, di accettare istituzioni liberali per eccellenza, dal parlamento ai partiti. Insomma, di dare una risposta chiara all’antico quesito pre-liberale del ballots or bullets? Schede elettorali o pallottole? La risposta sembra facile: ballots, schede. Eppure…
Comunque sia, libri come Gramsci e Turati non possono non contribuire, e grandemente, alla qualità del dibattito. E soprattutto all’auspicabile sviluppo di una sincera pedagogia liberale delle istituzioni politiche.


Carlo Gambescia

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