giovedì 22 marzo 2012

Il libro della settimana: John C. Calhoun, Disquisizione sul governo, intr. di Luigi Marco Bassani, Liberilibri, pp. XCVII-104, Euro 16,00.




www.liberilibri.it



L’importanza di John Caldwell Calhoun (1782-1850), pensatore e uomo politico statunitense, nonché il valore e l’attualità di un libro come Disquisizione sul governo non possono passare inosservati. Di qui la necessità di offrire ai nostri lettori almeno due recensioni. La prima è di Teodoro Klitsche de la Grange, la seconda nostra. Gli approcci sono diversi. Ma, come si scoprirà, pur seguendo strade differenti i due recensori finiscono per incontrarsi. Buona lettura. (C. G.)



Calhoun, 
il costituzionalista ritrovato
di Teodoro Klitsche de la Grange


Scrive Luigi Bassani nell’accurata introduzione «il lettore italiano si trova fra le mani un gioiello della scienza politica vecchio di oltre centossessant’anni, un’opera che sta al fianco dei grandi capolavori dell’ingegno umano e che è il prodotto più sofisticato dell’Ottocento americano. Ohibò – esclameranno i nostri venti e colti lettori – non ne avevo mai sentito parlare”. In effetti chi scrive ne aveva sentito parlare (o meglio letto chi ne aveva scritto) ma tra “addetti ai lavori”».
L’interesse che suscita la traduzione di Calhoun (che ci auguriamo presto seguito da altre) è dovuto almeno a tre ragioni.
La prima è che fa parte di quel modo di affrontare Stato e costituzione tipico di un’epoca in cui non erano stati rigidamente (e “scolasticamente”) scissi politica e diritto pubblico, con gran beneficio per entrambi, ma soprattutto per il secondo che così non rischiava (come poi spesso capitato) di perdere senso e collegamento con la realtà politica e talvolta con la stessa problematica (più importante) della materia che regola (fino a un certo punto, ma questa è nella logica delle cose).
La seconda è collegata al rapporto con la realtà economica: che Calhoun «fosse una sorta di «Marx rovesciato», in quanto aveva in comune con il filosofo di Treviri il senso della storia come lotta irriducibile fra i vari interessi economici, salvo prendere apertamente le parti dell’aristocrazia sudista, la master class», come scrive Bassani nell’introduzione, citando Hofstadter.
L’uno e l’altra fanno si che Calhoun, morto nel 1850, avesse previsto il prossimo scoppio della guerra di secessione: logica conseguenza dei problemi costituzionali ed economici rimasti irrisolti, e che, non potendolo essere col diritto, lo sarebbero stati con la guerra (come scriveva de Maistre, «laddove non c’è sentenza c’è battaglia»).
L’approccio di Calhoun semplifica e chiarisce l’accesso alla problematica costituzionale.
Il primo quesito posto dall’assetto federale degli USA. è se sovrani sono gli Stati ovvero la “struttura” federale. Se, come argomenta Calhoun, la Costituzione è un “contratto” tra Stati, e il potere di revisione costituzionale è rimesso alla ratifica di una larghissima maggioranza degli Stati, conseguenza della sovranità statale (e non federale) è che uno Stato abbia il diritto di non applicare, perché nulla, la legislazione federale (nullification) e anche di secessione, se non è altrimenti componibile il dissidio con la federazione.
Il tutto poneva il problema, percepito in Europa, se la Federazione fosse realmente uno Stato sovrano. Due grandi pensatori europei, contemporanei di Calhoun se lo erano posto: Hegel e Tocqueville. Secondo il filosofo, l’America era uno Stato “tuttora in divenire... è uno Stato federativo: ma questi, per quel che concerne i rapporti con l’estero, sono gli Stati peggiori” e ricorda la guerra con l’Inghilterra, considerata anche da Tocqueville, in cui quattro Stati non avevano mandato truppe a combattere gli inglesi. Nel caso d’eccezione per antonomasia, cioè la (dichiarazione di) guerra la federazione era partita zaino in spalla e il New England era rimasto a casa. Per cui Hegel concludeva che l’America non è uno Stato “finito” come compagine politica, perché il processo di “formazione dei suoi momenti elementari è ancora in corso”. A concluderla, sull’essenziale problema della sovranità, furono le cannonate nordiste a Gettysbourg.
Come scriveva Tocqueville «è in guerra che si rivela, nel modo più visibile e pericoloso, la debolezza di un governo; e ho mostrato come il difetto inerente ai governi federali sia appunto quello di essere molto deboli»; il guaio è che ciò era originato proprio da controversie costituzionali. «All’epoca della guerra del 1812, il Presidente ordinò alle forze militari del Nord di portarsi verso le frontiere; il Connecticut e il Massachusets, i cui interessi erano danneggiati dalla guerra, rifiutarono di inviare il loro contingente. La costituzione, essi dissero, autorizza il governo federale a servirsi della milizie territoriali in casi di insurrezione o di invasione; ora, nel caso presente, non c’è né insurrezione né invasione. Aggiunsero poi che la stessa costituzione, che dava dell’Unione il diritto di chiamare le milizie in servizio attivo, lasciava agli Stati il diritto di nominare gli ufficiali; ne derivava, secondo loro, che anche in guerra nessun ufficiale dell’Unione aveva il diritto di comandare le milizie».
E Tocqueville prosegue: «Queste teorie assurde e distruttrici ricevettero non solo la sanzione dei Governatori e del corpo legislativo, ma anche quella delle Corti di giustizia di questi due Stati».
Questo rapido confronto tra la più nota delle tesi di Calhoun e le opinioni dei due pensatori, pone un problema, acutamente visto dagli europei: se i poteri federali erano così limitati, e non ci fossero state quelle cannonate decisive per interpretare la Costituzione, gli USA avrebbero avuto mai il destino imperiale che la Storia del XX secolo ha loro riservato?
Sicuramente non è possibile svolgere guerre o anche missioni militari ai quattro angoli del pianeta se non si ha un grosso esercito federale (e i mezzi economici per armarlo ed equipaggiarlo) e non si può contare sulle forze armate statali perché guerre e missioni militari in continenti lontani non sono riconducibili né ad insurrezioni né ad invasioni.
L’altra idea di Calhoun (tra le molte che il lettore può trovare nello scritto), cioè quella della «maggioranza concorrente» è contraria all’evoluzione degli Stati federali basati sul principio democratico, come notato da Carl Schmitt. Scrive il giurista tedesco «Nella stessa misura in cui avanzava la democrazia, diminuiva anche l’autonomia politica degli Stati membri. negli Stati Uniti d’America questo sviluppo inizia con l’approvazione del popolo nei singoli Stati (in opposizione addirittura a questi Stati) della costituzione federale... Le teorie federalistiche di Calhoun (per gli Stati Uniti d’America) e di Max von Seydel (per il Reich tedesco) sono perciò superate non perché – considerate secondo i giusti concetti del diritto federale – fossero in tutto false, ma perché lo sviluppo democratico e in particolare la conseguenza democratica della rappresentazione di un popolo unico e indiviso all’interno di una federazione nazionalmente omogenea doveva condurre all’unità statale»; tuttavia «se si riconosce questo, anche ciò che in quelle teorie federali rimane esatto può essere di nuovo tranquillamente apprezzato e utilizzato nella dottrina della costituzione».


Teodoro Klitsche de la Grange



Calhoun 
e il “giovane Ercole” americano
di Carlo Gambescia



Merle Curti, il grande storico americano dell’Università del Wisconsin, in un libro tuttora prezioso, The Growth of American Thought definì l’opera di John Calhoun, riferendosi in particolare a Disquisition on Government , «un ardito e originale sforzo per risolvere uno dei grandi problemi della democrazia, la protezione delle minoranze» ( trad. it. Neri Pozza, 1956, p. 432). Che poi l’« ardito e originale sforzo» di Calhoun fosse collegato alla difesa della società sudista e schiavista, restava secondo lo storico un vero e proprio peccato originale, che tuttavia non rendeva meno interessante il suo pensiero. Curti, uno storico allievo di Turner (il padre della teoria sull'importanza della frontiera nella storia americana), era un progressista tutto d'un pezzo passato attraverso il ferro e fuoco del Novecento. Perciò si tratta del riconoscimento di un avversario. Insomma, un apprezzamento che tuttora vale il doppio.
In effetti, sfogliando Disquisizione sul governo, non si ci può non interrogare sull’ erudizione con cui Calhoun affronta con grande preveggenza la questione del rapporto tra maggioranze e minoranze in democrazia. L’ottica scelta è quella preferita dai pensatori di largo respiro, capaci di muoversi con enciclopedica e spiazzante sapienza tra conoscenze storiche, filosofiche e sociologiche. Sono doti che il pensatore americano condivide con giganti del calibro di Tocqueville. Anche se, come nota Luigi Marco Bassani nella densa introduzione, Calhoun, a differenza di Tocqueville, troppo ottimista e fiducioso nel ruolo catartico del potere associativo, si schiera con Hobbes ( il che, però, come vedremo, è vero fino a un certo punto...). Scrive Bassani : Calhoun « da gran realista politico, sostiene che l’esperienza storica ha ampiamente dimostrato che “il potere può essere arginato solo dal potere e non dalla ragione o dalla giustizia e qualunque restrizione all’autorità che non sia sostenuta dalla forza di un eguale potere antagonistico si è dimostrata inefficace e pratica”» ( p. XXVII).
Perciò la grande questione individuata è come opporsi al potere assoluto della maggioranza. Tocqueville, senza tanti complimenti, parla, come è noto, di tirannia della maggioranza. Ma ne riferìsce in termini di conformismo culturale e sociale diffuso: si fa una cosa perché la fanno gli altri. Di qui, secondo il pensatore francese, l'importanza, per la sua ricaduta sociologica, dell’associazionismo sociale come fattore reattivo e di diversificazione culturale Per contro, Calhoun affronta la questione in chiave esclusivamente politica. Si legge in Disquisizione sul governo: «È difatti l’unicità del potere ad escludere il diritto di veto e a creare un governo assoluto, e non il numero di coloro che sono investiti del potere stesso. La maggioranza numerica è un potere unico, e non ammette minimamente il potere di veto, tanto quanto il governo assoluto di un singolo uomo o di pochi individui. Essa rappresenta la forma del governo assoluto assunta dalla democrazia o dal governo popolare, come d’altronde il governo di un singolo o di pochi individui rappresenta la forma dei governo assoluto assunta dalla monarchia o dall’aristocrazia – e a questi accomuna la medesima tendenza all’oppressione e all’abuso di potere » (p. 36).
Quale rimedio si propone al potere unico della «maggioranza numerica»? Calhoun punta sul potere frazionato della «maggioranza concorrente ». Cosa vuole dire? « Il governo della maggioranza concorrente, al contrario (…) evita che si verifichi qualsiasi oppressione , fornendo ad ogni interesse, fazione o ceto – laddove vi siano classi sociali nettamente delineate – i mezzi per tutelarsi autonomamente tramite il diritto di veto su ciascuna misura intesa a promuovere gli interessi particolari di una parte a discapito di un’altra. Esso finirà quindi con l’indurre i vari interessi, fazioni o ceti, a seconda dei casi, a desistere dai tentativi di adottare misure mirate a favorire la propria prosperità a spese di quella degli altri, obbligandoli così, per di più ad accordarsi su misure volte ad accrescere la prosperità di tutti, come unico mezzo per scongiurare una interruzione nell’azione del governo e, di conseguenza, il peggiore di tutti i mali: l’anarchia. Con questo tipo di resistenza, legale e incisiva, i governi basati sulla maggioranza concorrente evitano ogni forma di oppressione e rendono superfluo il ricorso alla forza – cosicché il compromesso, e non la forza, diventa il principio di conservazione» (pp. 37-38).
Il che, in soldoni, significa due cose: in primo luogo, che un parlamento statale deve deliberare all’unanimità, puntando sul compromesso preventivo e non sulla pura forza dei numeri; in secondo luogo, che una federazione di stati deve sempre tenere nel debito conto la possibilità, che anche uno solo degli stati che la compongono, possa dissentire su un provvedimento respingendolo ( Calhoun parla di “nullification”); di qui, come nel caso del parlamento statale, la necessità di puntare sul compromesso preventivo.
Ma in che modo? E poi con la ricerca dell’unanimità a tutti costi non si rischia la paralisi politica? No, perché, secondo Calhoun, il patriottismo ne è l’elemento portante e risolutivo. Seguiamo il suo ragionamento: « Il governo basato sulla maggioranza concorrente, (…) evita qualsiasi tipo di abuso e ogni tentativo di oppressione, e di conseguenza l’intero complesso di sentimenti e passioni che porta alla nascita di discordie e conflitti in seno alle diverse fazioni della comunità. Ciascuna di queste, difatti, verrà spinta dalla impellente necessità di evitare che l’azione di governo venga sospesa (…); e inoltre verrà spinta dal potente impulso dell’amore per il proprio Paese. E giungerà a considerare l’eventuale sacrificio dei proprio interessi particolari sull’altare della sicurezza di tutti, e quindi anche della propria, ben poca cosa in paragone alle sciagure che ricadrebbero sul complesso dei cittadini, e dunque su di sé, nel caso continuasse a perseguire ostinatamente una linea di condotta opposta. Le ragioni per convergere sarebbero così cogenti e d’altra parte in simili circostanze quelle per opporsi così deboli che ci sarebbe davvero da meravigliarsi, non nel caso in cui si giungesse a un compromesso, ma nel caso in cui questo non si realizzasse» (pp. 66-67).
Perciò se alla base delle tesi di Calhoun c’è Hobbes, va aggiunto che si tratta di un Hobbes, come del resto ha ben visto anche Bassani, riveduto e corretto alla luce della creativa socialità naturale teorizzata da Aristotele, tramutatasi in moderno amore di patria. Potremmo avvicinare il consociativismo calhouniano a quello delle liberal-democrazie welfariste, frutto post-bellico del capitalismo sociale di mercato, oggi rimesso in discussione dai processi di globalizzazione e conseguente grave “snazionalizzazione”. Pertanto non definiremmo Calhoun, come invece propone Bassani, un «liberale a tutto tondo». Diciamo che il suo liberalismo è di tipo politico più che economico. Ed è perciò funzionale non tanto alle necessità astratte del libero-scambio quanto alle necessità concrete del governo dello sviluppo nazionale. Come attesta la accettazione calhouniana nel 1816 di un regime protezionistico, seppure moderato, per sostenere il rafforzamento, degli Stati Uniti: un “giovane Ercole” secondo la sua suggestiva definizione
Da questo punto di vista sarebbe interessante un confronto con il pensiero di Friedrich List, padre dello Zollverein e profeta di un liberalismo nazionale teso a conciliare - funzionalmente - libero mercato all’interno e protezionismo all’esterno. Ricerca molto utile, anche per scoprire qualcosa di più sui possibili rapporti tra i due pensatori. E per una semplice ragione storica: List soggiornò negli Stati Uniti tra il 1825 e il 1832. Jacksoniano di ferro venne in seguito nominato dal neo-presidente Usa, console degli Stati Uniti ad Amburgo. Durante il suo soggiorno List, entrando a gamba tesa nelle durissime polemiche americane pro o contro le tariffe doganali, pubblicò un pamphlet filo-protezionista Outlines of Americam Political Economy, di grande successo, e proprio nello stesso periodo in cui usciva anonimo il South Carolina Exposition and Protest di Calhoun, dove invece si contestava in chiave anti-protezionista il forte aumento della tariffe doganali cui puntava il Nord per danneggiare il Sud. 



Carlo Gambescia

Nessun commento:

Posta un commento