Il libro della settimana: Matthew
Fforde, Desocializzazione. La crisi della post-modernità, Cantagalli pp.
390, euro 15.50.
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A
chi abbia letto con gusto e attenzione il nostro post di ieri sul
neo-corporativismo, consigliamo di recuperare un libro uscito nel 2005: Matthew
Fforde, Desocializzazione. La crisi della
post-modernità (Cantagalli, Siena, pp. 390, euro 15,50). Dove c’è
un gustoso capitoletto proprio sul mercatismo. Che da solo vale la lettura
dell’intero libro. L’autore, storico e filosofo sociale, già docente a Oxford,
vive in Italia da una ventina di anni. Attualmente insegna Storia della cultura
inglese e Storia contemporanea presso la Libera Università
Santissima Assunta di Roma (LUMSA). Desocializzazione,
oltre a vincere il "Premio Capri-San Michele 2006", è uscito nel 2009
anche in Gran Bretagna. Di prossima pubblicazione l'edizione francese.
Piccolo inciso: già il titolo è dirompente,
perché sottolinea la fine di ogni legame sociale: ognuno per sé e neppure Dio
per tutti… Va inoltre ricordato che Fforde ha scritto anche un’avvincente Storia della Gran Bretagna (1832-2002),
tradotta da Laterza. Dove attraverso le lenti di un intelligente e ribelle (per
l’Inghilterra) conservatorismo a sfondo cattolico, ricostruisce, parafrasando
Battiato, la lenta disgregazione spirituale e sociale, della sua “povera
patria”. Un processo, da lui visto, come anticipatore, di movimenti similari,
poi rifluito verso il resto dell’Europa nei termini di quella
“desocializzazione” di cui sopra. Capace, appunto, di recidere ogni legame
sociale in nome di una visione egoistica dei diritti dell’individuo, e in
particolare di quelli economici.
Ma, attenzione, Fforde non è un reazionario. Il suo cattolicesimo pur essendo
esplicito è della stessa stoffa, finemente lavorata al cesello del ragione, dei
Chesterton, dei Belloc, dei Dawson. Il suo è un pensiero fondato
sull’accettazione del dettato di Papa Wojtyła: Quale? Quello di un mondo
moderno da ri-evangelizzare, non con la spada, ma con la testimonianza della
ragione, o meglio delle “ragioni” cristiane. Non vorremmo però metterla sul
religioso, rischiando di confondere - o far scappare - il lettore, magari poco
“frequentante”… Anche perché desideriamo parlare di “mercatismo”.
Ora però entriamo nel merito. A pagina 267 di Desocializzazione si legge:
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“Negli ultimi decenni il dibattito politico
(e la politica) sono stati caratterizzati anche dal conflitto fra le varie
forme di collettivismo e un approccio che mette in netto risalto i benefici del
libero mercato. ‘Mercatismo’ potrebbe essere una definizione adatta a
quest’ultima dottrina”. Ma che cos’è il mercatismo? Per saperlo, basta voltare
pagina: “ Secondo il mercatismo, in una società è di primaria importanza
l’economia della libera impresa, ciò che il mercato promuove ha senz’altro un
grande valore, e il futuro della civiltà va garantito tramite l’adesione ai
principi del mercato. Questo “orientamento” - prosegue Fforde - è però
“chiaramente economicistico, in quanto si privilegia la dimensione economica
dell’uomo e della società. Per molti aspetti il mercatismo, al pari del
collettivismo e del dirittismo [come culto secolarizzato dei diritti
dell’uomo], diventa una sorte di filosofia di vita che influisce sul
comportamento, sui valori e sugli atteggiamenti, sull’identità individuale e
sulle prospettive collettive” .
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Il che però non significa, che si debba
sostituirlo con lo statalismo, o peggio ancora con il collettivismo: entrambi
nemici del vero comunitarismo. Su questo Fforde è molto chiaro: si deve
impedire che “il pensiero e la pratica mercatista” operino “in direzione di uno
sgretolamento della comunità”. Recidendo - o “desocializzando” - tutti i legami
che non siano di tipo economico: familiari, parentali, amicali e comunitari;
legami che invece dovrebbero essere alla base di una sana economia di mercato.
Ma, ancora una volta, lasciamo che sia Fforde a spiegarsi:
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“Nel recepire l’economia o il mercato come
una macchina indipendente” si è grandemente “sottovalutato l’importanza e il
valore del patrimonio antropologico della comunità sia per l’economia sia per
la comunità nel suo insieme”: un “errore elementare che, visto a distanza,
sembra incredibile. Chiunque abbia viaggiato ha potuto constatare come la
cultura imprima tracce profonde sul mondo delle ricchezza e della sua
produzione. Basta andare in Italia per rendersi conto di quante siano le
imprese a carattere familiare, di piccole o medie dimensioni; oppure in Giappone,
con i suoi valori legati all’unità aziendale” (p. 269).
.
In buona sostanza la tragedia del
“mercatismo contemporaneo” è che
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"tralascia gli aspetti strutturali
della società (...) sminuendone la portata. Si mette in opera una tendenza
distruttiva: ci potranno essere anche stipendi elevati e abbondanza di beni
grazie alle politiche mercatiste, ma le tradizioni che sostengono la comunità
vanno perdute” (p. 270)
.
In poche parole, conclude Fforde, il
mercatismo
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“può incoraggiare una sorta di fissazione
sull’economia a detrimento di altri elementi vitali della nostra vita comune…
questa dottrina, inoltre può ridursi a nient’altro che un contratto sociale da
due soldi fondato sul reciproco laissez-faire mirato al perseguimento del
profitto personale” (Ibidem)
.
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Ovviamente Fforde, che non è un economista,
piuttosto che risposte formula domande. Ma di quelle buone, come questa:
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“Può l’uomo vivere di solo pane? Il successo
del mercato gli può davvero portare la felicità? Può l’economia dare all’uomo
ciò di cui ha veramente bisogno? Dobbiamo davvero inquadrare la nostra vita
nella società in termini di realizzazione economica?" (Ibidem)
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Probabilmente qulcuno penserà che le domande
poste sono troppo filosofiche… Certo, il problema, al quale Fforde non
risponde, per ragioni di formazione, è come contenere tecnicamente il
mercatismo. Probabilmente la riposta è quella, molto classica, del capitalismo
sociale di mercato: di un sistema economico, capace di conciliare mercato e
comunità, come ad esempio avvenne nella Germania di Adenauer ed Erhard. O se si
vuole, in grado di coniugare un moderato interventismo pubblico nei settori
delle infrastrutture sociali (scuola, università, sanità, pensioni), lasciando
però larghi spazi alle autonomie locali, in termini di sussidiarietà e di
partecipazione dei lavoratori agli utili ma anche alla gestione delle imprese.
Perciò, sul piano politico, si tratterebbe di innescare un meccanismo virtuoso
capace di favorire il rafforzamento di una società civile, economicamente
sviluppata ma al contempo non priva di legami comunitari. Per farla breve:
passare dalla desocializzazione alla risocializzazione, attraverso la gestione
del mercato, fondata su una visione sociale dell’impresa (in termini di
responsabilità verso la collettività e non solo nei riguardi degli azionisti).
Qualcuno però penserà che il capitalismo sociale è una sorta di quadratura del
cerchio mai riuscita, se non per puro caso nella Germania del secondo
dopoguerra. E che il mercato, per produrre ricchezza, non può essere
imbrigliato. O al massimo “sottoposto a regole”. In effetti... Ma come far
rispettare le regole in un mondo “desocializzato”, che “adora l’economia” e non
rispetta l’uomo? regola delle regole. Nonché, quella che è la Regola delle regole delle
regole... Quale? Dio, of course.
Carlo Gambescia
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