Dal sequestro dei dirigenti d'azienda al
caso Rinadini
Vietato scherzare
con il fuoco (della violenza)
Recenti episodi di violenza politica, per quanto non gravissimi,
come il sequestro in Francia di alcuni dirigenti d’azienda da parte delle
maestranze e, da ultimo, il caso del sindacalista Fiom Rinaldini spinto giù dal
palco, nonché certa superficiale e preoccupante difesa della violenza
risanatrice di ogni male sociale, ci spingono a proporre qualche riflessione
generale sulla questione del rapporto tra violenza e politica.
In primo luogo,
la violenza è un reale fattore sociale e storico. E consiste nel rimuovere con
la forza fisica, fino alla totale eliminazione, gli ostacoli sociali (individui
e/o gruppi), a quella che può essere definita, in ultima istanza, l'espansione
della volontà di potenza insita nell’uomo. Volontà che può essere culturalmente
sublimata, ma non soppressa. A cicli alterni, e secondo le circostanze,
riappare, per poi scomparire di nuovo, ritornare, e così via. La violenza,
insomma, ha una sua storia naturale segnata da un andamento ciclico,
determinato, come vedremo, culturalmente.
In secondo luogo,
la violenza è giustificata o condannata a seconda delle convenienze e sulla
base di retoriche politiche. Ad esempio, il terrorista per giustificarsi
parlerà di risposta alla violenza del sistema; il poliziotto che reprime si
appellerà al rispetto della legge, qualificando, la sua violenza, come uso
legale della forza pubblica contro gli eversori.
In terzo luogo,
il giudizio sull’ uso della violenza muta sulla base della risposta storica: i
vincitori presenteranno sempre se stessi come difensori della pace e gli
sconfitti come guerrafondai.
In quarto luogo,
l’intensità della violenza usata contro un ostacolo sociale (individui e/o
gruppi) resta legata al grado umanità che gli si riconosce: quanto più
l’ostacolo sociale è considerato di natura aliena o sub-umana, tanto più la
violenza esercitata sarà rivolta alla sua completa eliminazione. Pertanto
l'esplosiva miscela odio-violenza andrebbe sempre maneggiata con grande
cautela. E mai con quella superficialità che spesso affiora in certi dibattiti,
anche in Rete.
In quinto luogo,
proprio perché la violenza ha una sua storia naturale, non ha un limite
oggettivo, se non quello della totale distruzione reciproca o di una delle due
parti. Ma esistono invece - e per fortuna - limiti culturali, come dire
soggettivi (sempre riferiti all'individuo e/o gruppo sociale), che di regola
riescono a ciclicizzarla, sublimarla, controllarla. Le teorie pacifiste, di
ispirazione religiosa o meno, ne sono un esempio. Ma anche quelle ispirate al
diritto naturale. Come pure le moderne teorie procedurali della politica di stampo
liberale. Oppure quelle del cosiddetto “dolce commercio” come apportatore di
pace eterna e universale. Possono piacere o meno, ma se ci si passa
l'espressione, tali teorie "aiutano": rendono l'uomo più riflessivo.
Per alcuni anche troppo. Ma questa è un'altra storia.
In sesto luogo,
la benevolenza, non sopprime per sempre il nemico né la violenza. Dal momento
che è il nemico stesso a designare un certo ostacolo sociale (individui e/o
gruppi) come proprio nemico. Il che significa che si può pure porgere l’altra
guancia, ma se il nemico, come di regola accade, ha prescelto e deciso di
distruggere "proprio quel certo ostacolo sociale", ogni benevolenza
del prescelto o dei prescelti sarà inutile.
Pertanto il vero problema, che ogni gruppo sociale si è
sempre trovato a dover risolvere, pena l’autodistruzione propria e di ogni
altro gruppo, resta quello di come individuare un giusto equilibrio storico e
sociologico tra limiti culturali e dinamica naturale e ciclica della violenza.
In alcune epoche ci si è giunti consapevolmente, in altre meno.
Sotto questo aspetto la società contemporanea ha
abilmente sublimato e proceduralizzato la violenza, proprio perché uscita da un
gravissimo conflitto bellico (la Seconda Guerra Mondiale), dove si era fatto un
uso inaudito della violenza.
In questo processo un ruolo essenziale è stato giocato
dallo sviluppo economico, la nascita del welfare state, la democrazia sociale e
pacifista (all’interno). Fattori che hanno consentito al mondo occidentale e
industrializzato, di “proceduralizzare” e “anestetizzare” la violenza, puntando
su un sistema di garanzie sociali, di cultura consensuale e di procedure
economiche e sindacali, durato più di sessant'anni. E che ora, come evidenziano
le recenti avvisaglie (i sequestri, eccetera), sembra stia entrando in crisi.
Infatti, il rischio che si apra un nuovo ciclo, come dire, della violenza
predominante, interno all’Occidente, non è da escludere. Dove, attenzione, il
pericolo maggiore è quello della violenza acefala a spirale: del colpo su colpo,
segnato appunto dal vortice violenza extra-istuzionale/violenza istituzionale;
vortice capace di risucchiare tutto e tutti. Che già si va profilando,
soprattutto in alcune grandi periferie urbane europee, anche grazie a
quell'ossessione per la sicurezza, agitata come uno straccio rosso dai governi
di destra. E al quale, stando a quel che ci è capitato di leggere in questi
giorni, il "toro" teorico e giustificativo della vecchia violenza di
classe, sembra aver già pavlovianamente risposto, partendo a testa bassa.
Il che però non significa che la violenza extra-istituzionale - risanatrice per
alcuni - possa di per sé, aprire chissà quali prospettive future di libertà e
progresso. La violenza è sempre e solo violenza. Come abbiamo già detto, la
violenza ha una sua storia naturale. E rimane solo violenza, anche se nasce da
una situazione di oggettivo disagio. Non basta toccare, magicamente, il punto
limite della disorganizzazione sociale.
Il vero problema è come lo si tocca, con chi, e con quali
progetti ricostruttivi. Soprattutto quando, come oggi, non esistono - si pensi
solo alla pericolosa superficialità di certi dibattiti in Rete - un serio
progetto alternativo, una classe dirigente alternativa capace realizzarlo,
un’elite culturale onesta e sincera, un movimento sociale ben radicato e non
ricettacolo di “spostati”.
Prendere atto che la violenza è un fattore storico e
sociologico ciclico non vuole dire assolutamente celebrarla o accettarla in
modo passivo. Ma comprendere freddamente che la storia non ammette scorciatoie
o salti e che è meccanismo assai complesso. La violenza per la violenza non
serve a nulla. Anche se frutto di risposte meccaniche a oggettivi processi
sociali di disgregazione: non esistono solo il "Sociale" o solo
l'Economico, come meccanismi auto-riproduttivi, esistono anche il
"Culturale" e il "Politico" che dirigono e completano, dal
punto di vista dei significati profondi, i meccanismi sociali ed economici .
Il vero problema delle rivoluzioni non è tanto ( o solo) conquistare il potere,
quanto quello di gestirlo "dopo la vittoria" : di come trasformare
(recependo il costruttivo insegnamento - quasi dispiace dirlo - delle grandi
rivoluzioni borghesi) la violenza rivoluzionaria, anche dura, in sincero,
solido e democratico consenso popolare. O se si preferisce la violenza in
“forza” culturale e politica: il pugno chiuso in mano tesa e aperta. E per far
questo servono uomini, idee chiare e istituzioni, non chiacchiere
pseudo-rivoluzionarie da intellettuali frustrati e cinici , pronti a mandare al
massacro sempre gli altri: gli ingenui idealisti, spesso giovanissimi. Quasi
sempre tra i primi a cadere.
Carlo Gambescia